Gli ormai anziani assassini che a metà degli anni Sessanta hanno partecipato ai genocidi anticomunisti che hanno inondato di sangue l'Indonesia oggi vengono esaltati dai media locali con produzioni audiovisive autocelebrative, i cui codici richiamano espressamente generi cinematografici come il musical, il gangster movie o il western. Già, il western. Il western l'autocelebrazione di massa dei vincitori – di norma killer senza arte né parte che una nazione è costretta a considerare padre fondatori – l'ha sempre fatta, e problematizzata. C'è differenza tra questo e quello che succede in Indonesia? Solo questa: qui i cowboy sono ancora vivi, e recitano la parte di se stessi.
È una differenza rilevante? A quanto pare, secondo Joshua Oppenheimer (che deve essersi detto: Rithy Panh ha copiato Lanzmann e ci ha capitalizzato sopra, perché non posso farlo io?), sí. La differenza, è che se si prende uno dei killer (Anwar Congo), lo si allontana dalle telecamerone del cinema (il cui immaginario è ormai frusto e non riesce più a colonizzare mezzo mondo come una volta) e della televisione, e lo si sottopone alle telecamerine del documentario fai-da-te, il malcapitato malvivente può attraversare, grazie alla ripetizione (non più cinematografica, ma documentaria) un percorso di redenzione individuale. Ebbene sì, un percorso di redenzione individuale separato dalla Storia: la spina dorsale di Hollywood. Ora che Hollywood non colonizza più immaginari, ci pensa, sotto mentite spoglie, il documentario “impegnato” con cui una generazione di giovani intellettuali nordamericani ha cercato di essere “critica” verso il proprio establishment nazionale, ottenendo solo di dimostrare la propria subalternità nei suoi confronti, e finendo dunque, per puro analfabetismo politico, nello stesso vicolo cieco in cui sono finiti da quasi subito gli studi postcoloniali. (E intendiamoci: la buona fede qui non centra nulla. Critico è chi riesce, non chi vuole).
Ora, a rinfrancare le piccole borghesie midcult mondiali (le quali, di norma, tempo per vedere i film di Lanzmann ne hanno poco) con l'idea che tutto sommato gli Stati Uniti sanno ancora mostrare la via a “certi paesi”, arriva The Look of Silence. In esso, una famiglia di sopravvissuti al genocidio viene messa a confronto con i killer di cinquant'anni fa. Quod erat demonstrandum, il volenteroso oculista che convoglia, come tradizione vuole, l'identificazione dello spettatore (oliata di tanto in tanto con obbligatorie scene in cui gioca con la figlia e amenità simili), quando intervista gli assassini si trova davanti un muro impossibile da scalfire. Lo spettatore è costretto a concludere che se i carnefici sono tutti perfettamente indifferenti alle sollecitazioni del protagonista e non esibiscono la benché minima sfumatura di rimorso, allora forse potrebbero pure avere ragione loro quando dicono che quando uno si trova “in certe situazioni” alla morale non ci pensa e, anzi, si deresponsabilizza completamente nei confronti degli atti che compie. In questo modo, il qualunquismo di The Act of Killing viene confermato e moltiplicato: da una parte c'è la Storia, e dall'altra gli individui, senza la speranza che i due compartimenti stagni si incrocino. Davvero un gran bel risultato per Oppenheimer che, se non altro, qui recita più chiaramente la parte dell'imperialista che è: l'americano che, nell'ombra (di tanto in tanto si sente la sua voce, ma nulla più), manda avanti l'indigeno a sbattere contro un fallimento annunciato. Eh già, perché alla fine di The Look of Silence, lo spettatore è obbligato a pensare che almeno lui, Oppenheimer, con i killer ha saputo entrare in intimità.
Il fatto è che un Rithy Panh, per dire, sa bene che i film hanno una logica propria e un inconscio proprio. Oppenheimer, invece, da perfetto esponente dell'era digitale qual è, è convinto che la logica dei film sia quella che il paratesto e la grancassa mediatica riescono a dargli. E allora giù interviste e comunicati stampa a ricordarci con fastidiosa insistenza che lui, in Indonesia, c'è vissuto per anni, eccetera eccetera. E tutti, naturalmente, ci cascano. Il problema, però, è che se tiri fuori René Girard, il capro espiatorio, la violenza fondativa dei racconti mitici e quant'altro, se proprio vuoi perseguire la logica girardiana fino alla fine, devi essere tu, in prima persona a vivere l'apocalisse (ovvero la deflagrazione del conflitto totale che la violenza fondativa dei racconti mitici vuole confinare in un'opposizione di comodo). E che non si adducano a questo riguardo le scenette autoreferenziali del tipo “mah, forse l'occhio di chi guarda, cioè il mio, non è poi tanto innocente”, buttate e liquefatte nel calderone di un montaggio confuso che suggerisce mille piste teoriche senza percorrerne nessuna (eh ma sai, la fertile ambiguità del reale…).
Sylvester Stallone è uno che, a differenza di Oppenheimer, l'apocalisse la vive sulla propria pelle. Con i suoi film, ha ideologicamente, e quindi effettivamente, partecipato all'espansione, o consolidamento, imperialista a stelle e strisce di qualche decennio fa. Tornando sul luogo del delitto, Stallone mostra, col decadimento inesorabile del corpo dell'eroe (la sostanza stessa dell'ideologia imperialista che fu), che quella violenza fondativa usata per “tirare una riga” tra noi e loro non ha più corso: l'apocalisse è definitivamente deflagrata. Ma poi arriva Oppenheimer a dire, invece, che la grande narrativa hollywoodiana vive ancora, sotto mentite spoglie, dentro al documentario “impegnato”. E che tutto sommato l'imperialismo può contare su leve intellettuali (magari “democratiche”) fintamente critiche e in realtà perfettamente docili e asservite. I vari Expendables ci mostrano la fine in atto di un mondo, e l'aprirsi delle possibilità in seno al mancato finire della sua fine (la fine non finisce di finire). Il dittico di Oppenheimer richiude queste possibilità e ci rassicura subdolamente che per quel mondo, denunciato solo per finta, di fine proprio non se ne parla. Stallone ha filmato dei documentari (sul suo corpo, e dunque sullo stato del mondo che esso rappresenta), laddove The Act of Killing e The Look of Silence non sono che finzione, e di quella più biecamente propagandistica.