“Che cosa filmeresti se fossi qui?”. Una domanda che arriva come una precisa, limpida richiesta d'aiuto. Wiam è una curda a Homs durante i bombardamenti, nel caos di una guerra senza fine, tra le rovine di una città che è stata la sua casa. Ossama è lontano: dal maggio 2011, quando partì dalla Siria per partecipare al Festival di Cannes, non è più potuto rientrare. È diventato un esule, che ricerca tracce del proprio Paese nel flusso d'immagini indistinte che riempiono la rete. Lui è un cineasta, lei una semplice cittadina che sceglie di rischiare, portando sempre con sé una telecamera accesa, cercando il suo sguardo tra le macerie di una civiltà. Il loro rapporto darà vita a Eau Argentée, Syrie auto-portrait (presentato Fuori Concorso al Festival di Cannes, distribuito in Italia da Wanted Cinema).
Il dialogo che si apre tra le loro due voci organizza e compie un'accurata ricerca e una preziosa riflessione sulle immagini in tempo di guerra e sulla loro immediata e pervasiva presenza nella sfera mediatica contemporanea. Sono sequenze “oscene”, quelle che aprono il film: un adolescente offeso nella sua dignità di uomo, il suo corpo nudo vessato sotto la telecamera vigile del carnefice. La grana rarefatta del digitale a bassa definizione sembra spalancare il corpo, cancellare i confini tra sé e mondo, come in un disturbante dipinto in cui il pittore abbia scelto di spandere il candore della pelle giovane e intatta per illuminare lo squallore della cella e dare un nuovo senso a un'inquadratura di sopraffazione. C'è una prova che appare intatta in queste sequenze sottratte al magma indistinto della rete: la resistenza del cinema di fronte alla tracotanza del reale, la sua capacità ancora oggi – in tempi lontani dal valore indicale delle immagini e dal loro potere ontologico – di restituire la maestà della vita, come canta nel finale la moglie del cineasta Norma Omran (anche lei esule a Parigi) fondendo ritmi e testi che rappresentano il mosaico di religioni e etnie sul territorio siriano. Proprio questa inviolabile verità sembra dettare le scelte di un regista che non ha mai ceduto di fronte alle sopraffazioni del potere. Ossama Mohammed è uno di quei cineasti che dopo un esordio presentato al Festival di Cannes nel 1988 “Stars in Broad Daylight”, è diventato immediatamente inviso alle autorità ed è riuscito a completare il suo secondo lungometraggio di finzione, The Box of Life, solo nel 2002. Ma la sua attività di militante è proseguita negli anni, portando in Siria un cinema che renda consapevole lo spettatore, invitando i giovani a prendere in mano le telecamere e filmare, continuando a credere nella potenza delle immagini e nella loro forza liberatrice.
Da un esule arriva dunque il film collettivo, profondamente connesso alla prima persona eppure libero nel seguire lo sguardo dell'altro, che è capace di riassumere la tensione di un'immagine che ormai è corpo. “Cerca di realizzare un'inquadratura fissa”, proverà a dire il regista nella prima parte del film, cedendo la telecamera a un giovane dimostrante. Una battuta che resta sospesa e segna la tensione tra la ricerca di mettere in quadro e quella di sopravvivere filmando, tra l'aspirazione verso il linguaggio e l'adesione alla brutalità del reale, tra il cercare un posto per lo spettatore e il consegnargli un'immagine apparentemente opaca. Ma è lo stesso regista a rendersi conto che non esistono più inquadrature nel flusso della rete, il linguaggio sembra annientato dalla primordialità del respiro/urto/strappo/scatto con cui l'occhio digitale vive insieme all'uomo con la camera. Così la telecamera diventa arma: quella dei carnefici, intenti a una autorappresentazione di milizia festosa o di brigata della morte, quella delle vittime che non chiudono gli occhi davanti al massacro e continuano impavidi a cercare un nuovo posto in cui rifugiarsi gridando al cielo la loro storia, per non dimenticare.
La memoria del conflitto resta sui loro corpi segnati, così come sulle immagini che hanno realizzato a singhiozzi e strattoni, cogliendo le tracce di un sangue che sarà difficilmente lavato dalle strade. In questa sovrapposizione, che avviene per la prima volta con tanta compiutezza, si inaugura un nuovo statuto per le immagini dei nostri tempi: il massimo dell'opacità incontra il cuore pulsante di una ferita. E la verità sembra riaffiorare scardinando il simulacro: un'impronta del reale intriso di sangue e fatica che non smette mai di urlare la propria necessaria presenza e il nostro dovere di fare i conti con essa. (Fuori dalle polemiche, è proprio per questo che L'eau argentée era un film a meritare ogni competizione, a iniziare da quella di Cannes, perché è il film che più di ogni altro ha saputo ricollocarci in quanto spettatori, lottando e abbandonandosi al suo “addio al linguaggio”). A intuirlo è per prima la giovane Wiam Simav Bedirxan, dimostrando di avere il coraggio di riaccendere la telecamera per registrare la ferita che porterà per sempre sul suo corpo così come gli oggetti di un antico benessere che riaffiorano tra le macerie di una città. Sono tracce di una comunità che resiste, capace di cogliere fiori tra la polvere, di commuoversi ascoltando un vecchio disco, di credere in una terra madre in cui rinascerà la pace. L'acqua argentata, immagine simbolo del film e nome poetico della coregista, diventa un inno alla possibilità di rinascita di una nazione dalle ceneri delle proprie immagini di guerra. Nel gesto, carico di speranza, di un'ostetrica che recide il cordone ombelicale di un neonato.