Magia, alchimia e fascino per il mistero costellano il cinema di Virgil Vernier, che, pur privilegiando le atmosfere surreali e oniriche, resta saldamente ancorato all'attualità grazie a un occhio vigile e critico.
Formatosi all’École des beaux-arts di Parigi, Vernier ha seguito un percorso singolare: l’amore per il cinema, e soprattutto il desiderio di cimentarsi dietro la macchina da presa sono giunti tardivamente, da una parte sotto l’impulso della video arte, dall’altra per ammirazione nei confronti del lavoro di Frederick Wiseman. Non è un caso se i suoi primi lavori (Flics [2006], Commissariat [2009]), ripercorrendo le orme del grande documentarista americano si contraddistinguono per la loro forma bruta e dura.
Il punto di svolta arriva nel 2012 con Orléans, un mediometraggio (presentato al Festival del Film Locarno) con il quale il regista si allontana dai canoni tradizionali del documentario per aprirsi ad una sperimentazione poetica e stilistica più libera, ulteriormente elaborata e perfezionata nel successivo Mercuriales (2014), presentato nella sezione ACID della scorsa edizione del festival di Cannes.
La tua formazione è artistica ma non propriamente cinematografica, qual è stato il tuo primo approccio al cinema?
All’inizio non ero particolarmente cinefilo, ho frequentato le Belle Arti a Parigi e non ero granché interessato al cinema, mi sentivo più vicino all’arte visiva, in particolare agli artisti americani degli anni 70-80. In seguito ho scoperto alcuni film d’avanguardia che mi hanno fatto pensare che potesse esserci un modo di fare cinema in cui riconoscermi. Gli autori che hanno rinnovato il linguaggio artistico negli anni 60 e 70 – Godard e Pasolini in particolare – mi hanno fatto venire voglia di fare film quando invece per me il cinema fino a quel momento utilizzava, non conoscendolo molto bene, un linguaggio troppo lineare, troppo narrativo, che non mi interessava.
Come sei arrivato al documentario?
A un certo punto ho sentito che questo modo di fare cinema era ormai vecchio: oggi non è più possibile utilizzare attori che recitano come in un telefilm. Mi sono detto: bisogna essere come Bresson, fare dei film al limite dell’anti-naturalismo o essere nettamente attenti al reale. Nel documentario non c’è questa sorta di menzogna su ciò che si sta filmando: girare un documentario è un gesto radicale, è veramente una specie di quadro del reale, senza tutti gli artifici un po’ ridicoli del cinema. Ho fatto molti film del genere, puramente documentari ma senza alcun commento, senza voce-off o alcuna volontà di essere pedagogico.
Mi viene in mente a questo proposito Agnès Varda. Secondo lei realizzare un documentario comporta più responsabilità rispetto a un film di finzione e mi sono chiesta se, a partire da Orléans e Mercuriales, non sia stato il desiderio di poter usufruire di una libertà maggiore a farti passare al cinema di finzione, sebbene questo termine non si adatti completamente ai tuoi film.
In fondo non vogliono dire niente, "finzione" e "documentario". Girare un documentario comporta una grossa responsabilità nei confronti della gente, infatti ho avuto un sacco di problemi con le persone che non erano contente della loro immagine, che non volevano mostrare determinati aspetti della loro vita. Pandore, il film ambientato all’entrata di una discoteca, mi ha causato molti problemi con la gente. Se dovessi girarlo oggi prenderei un vero fisionomista e rimetterei in scena tutto solo per il film. Sceglierei solo dei figuranti e non degli attori, e tutti saprebbero che si tratta di un film.
Da quale idea sei partito per Pandore?
Si tratta di un’esperienza in cui tutti, almeno una volta nella loro vita, si sono ritrovati. Per me rappresenta ciò che è diventata l’Europa nel momento in cui i paesi ricchi hanno creato delle piccole zone VIP. Trovavo molto importante mostrarlo, perché riguardava l'attualità, e allo stesso tempo sentivo che possedesse una componente comica, talmente è grottesco.
In Pandore c’è un unico piano fisso e il quadro è simmetricamente diviso in due. Da una parte c’è Mathieu, il fisionomista, e dall’altra la gente che attende di entrare nella discoteca. Questa posizione è una scelta voluta per rappresentare la neutralità del tuo sguardo? O al contrario ti senti implicato personalmente in una della due parti?
Un film è fatto di diversi momenti. All’inizio Mathieu è ridicolo, in seguito mostro che anche in lui c’è qualcosa di umano. Non amo i film in cui le persone sono solo idiote o cattive. D’altronde penso che ognuno di noi sia un po’ un "nazista".
C’è una netta relazione di potere tra Mathieu e i clienti: quest’evidenza permette di ampliare la riflessione sul potere e svela allo stesso tempo il meccanismo che fa funzionare più in generale il mondo. Dal microcosmo al macrocosmo, tutto si ripete secondo lo stesso principio.
I rapporti di potere illustrati nel film sono innumerevoli. Ci sono due uomini neri che sono contenti, per una volta, di esercitare un potere sulle persone ricche e di potergli dire «voi non entrate». C’è un tipo come Mathieu che è felice di essere il re della serata nonostante sia solo una merda – perché non è che un piccolo schiavo, non conta niente. E ci sono le altre persone importanti che, nonostante ciò, sono umiliate. Tutti si relazionano agli altri secondo rapporti di potere distorti, insoliti.
Alla fine non ci si può lasciar sfuggire il riferimento al mito di Pandora; cosa si nasconde in questa «boîte de nuit»? Chi è Pandora? Da dove esce il male?
Sono loro stessi ad aver scelto Pandora come parola segreta per accedere alla zona VIP. Sono i primi a essere coscienti di essere nel mondo del vizio, del peccato e della decadenza. Sì, questa «boîte» è un simbolo della decadenza della nostra civiltà. Il bling-bling, la cultura Facebook, tutto ciò è legato a questa specie di delirio degli anni 2010.
Hai partecipato con un cortometraggio, Vega, al film a più mani Undead, progetto lanciato dal collettivo Septième Continent.
Sono un gruppo di ragazze che organizza ogni mese delle proiezioni e che hanno inserito nelle loro programmazioni Orléans e Andorre. Amano molto quello che faccio così hanno chiesto a me e ad altri sei registi di realizzare un corto. Ciascuno di noi aveva a disposizione tre mesi e circa 2.000 euro per realizzarlo.
Vega racconta la storia di una donna anziana, non ci è chiaro se sonnambula o insonne. Sognatrice e critica spietata degli uomini contemporanei, ritorna con nostalgia al proprio passato.
È un film sul genere di donne che parlano da sole, tra la strega, la vedova e la pazza del quartiere. Sono affascinanti perché dicono cose vere.
Orléans è girato in 1.37:1, il formato all’origine del cinema. Concetto rafforzato dalle miniature medievali all’inizio del film…
Il formato imprigiona ulteriormente i personaggi, in modo che non ci sia più via di scampo o possibilità di fuga. L'inquadratura si restringe su un volto, dando un senso di claustrofobia.
In Orléans, come in Andorra, c’è una relazione costante tra Storia e presente; la Storia è per te una fascinazione, un modo di comprendere l’epoca in cui viviamo?
Se guardiamo il passato in prospettiva, ciò che accade oggi dialoga con altri eventi accaduti tempo addietro e il presente diventa meno caotico, è possibile capire ciò che sta succedendo. Ad esempio: i terroristi dell’11 settembre mi fanno pensare agli anni 70, alla Raf e alle Brigate Rosse in Italia. Gli islamisti di oggi hanno un modo di agire simile, legato alla Comune, agli anarchici di un tempo o alla Rivoluzione Francese. Ho sempre bisogno di guardare il presente attraverso il prisma del passato.
La società attuale e il mondo medievale si giustappongono, in particolare nel desiderio di Joane che, come Giovanna d'Arco, è pronta à tutto pur di raggiungere la capitale. Joane impugna il palo della lap-dance come Jeanne la spada e questo parallelismo iconografico che le unisce fa di lei una Giovanna d'Arco contemporanea.
Il parallelismo è un po’ incosciente: si tratta di immagini che, come in un sogno, vengono a te e tu sai che devi farci un film anche se non sai esattamente quale sia il senso.
Silvia paragona Joane a un piccolo uccello. In seguito Joane incontra un uomo che porta un falcone sull'avambraccio, la cui leggenda racconta che prima di diventare un rapace fosse una donna. Il volo del falcone è una sorta di profezia sulla partenza di Joane a Parigi? (In Mercuriales Joane raggiunge finalmente la capitale) Inoltre in Orléans c’è un’inquadratura su un hotel che si chiama Mercure…
Si, esattamente, all’epoca sapevo già che avrei filmato Mercuriales e ho cominciato a inserire tutti questi riferimenti all’astrologia e alla cosmologia.
Più volte hai detto che i tuoi film non sono politici. Godard in un articolo pubblicato nel 1970 parla di due modi di fare un film: il primo è fare film politici, l’altro fare film politicamente. Mi sembra che il tuo modo di procedere segua il secondo modo. Godard continua descrivendo le caratteristiche proprie dei due modi. Fare film politici significa descrivere delle situazioni, fare film politicamente significa invece fare una analisi concreta di una situazione concreta. L’articolo termina così: fare film politicamente significa essere militanti. Pensando alle HLM in Mercuriales, ai beni di lusso in Andorre, al discorso sulla precarietà in Orléans e alla tua attitudine critica nei riguardi di queste tematiche, oserei dire che i tuoi film sono militanti…
Non è la parola che utilizzerei, ma trovo interessante quello che dice Godard. Personalmente, cerco solo di analizzare quello che sta accadendo ma preferisco che ci si scherzi su, che non ci sia il serioso che ha caratterizzato il discorso politico degli anni 70, l'ho sempre trovato molto ingenuo. Credo che sia meglio limitarsi a deridere le cose e cercare di mostrarne la bellezza e il grottesco.
In alcune scene di Il diavolo, probabilmente Bresson, denunciando le torture inflitte alle foche, il disboscamento delle foreste e l’inquinamento dei mari provocato dalle petroliere, costringe l’uomo a prendere coscienza del suo potere distruttivo. Allo stesso modo, in Mercuriales la sequenza di immagini in cui appaiono armi, coltelli, materassi abbandonati per strada o le acque rosse di un fiume, vuol essere una constatazione della violenza quotidiana che accettiamo come uno status quo, tanto siamo bombardati da questo genere d’immagini.
Credo che fosse un’epoca in cui ci si diceva: c’è il bene e c’è il male. Il bene era la scommessa rivoluzionaria, il male il capitalismo. Oggi viviamo una temperie molto più complessa ed è questa complessità a interessarmi. Quando mostro immagini di armi voglio dire che Lisa ha voglia di impugnare le armi come una rivoluzionaria e sfasciare tutto ma anche che ha paura, la notte nelle strade della banlieue, che ci siano tipi armati pronti ad aggredirla. Non voglio limitarmi a un discorso sul ventesimo secolo come un'epoca in cui la gente sapeva bene cosa fossero il bene e il male. Oggi tutto è molto più confuso, mischiato, non c’è buon gusto, né morale. È una situazione all’interno della quale non posso posizionarmi politicamente. Ho voglia di mostrare un mondo che crolla, un film in cui si veda che la civiltà è alla fine.
Quindi Mercuriales è un film sulle illusioni, illusioni che devono per forza crollare, come la scena finale del film che mostra la distruzione del quartiere in cui vive Joane.
La fine di una civiltà ne produce una nuova, forse peggiore, forse migliore ma in entrambi i casi è un bene uscire da questo mondo del ventesimo secolo in cui sono stati costruiti enormi insiemi assurdi. A volte gli amici mi dicono che sarebbe meglio se Marine Le Pen prendesse il potere. Abbiamo voglia di cambiamenti, non possiamo più vivere con Hollande. Abbiamo voglia di sfasciare tutto, come Lisa quando prende un bastone e distrugge la cabina telefonica.
Come hai scelto le attrici? Avevi già un’idea dei personaggi prima del casting o sono state loro a caratterizzare i ruoli che interpretano?
È il ritorno continuo di un fantasma che vivo su certi tipi di film, su un certo tipo di bellezza, di universo. Volevo una ragazza originaria dell’Est Europa che portasse con sé tutti i suoi incubi d’infanzia, che raccontasse di Paesi ancora un po’ barbari, primitivi, della periferie di città bulgare, o albanesi. Per l’altro ruolo volevo quel genere di ragazza che ha passato l’adolescenza a guardare i reality, un po’ hip hop. Ho cercato a lungo, per più di quattro mesi, nei centri commerciali, su internet, ovunque. Molta gente mi ha dato una mano e quando le ho trovate le ho veramente adorate. Credo nei colpi di fulmine, non posso prendere qualcuno che mi piaccia solo a metà. Sentivo che era la scelta giusta.
È vero che hai consigliato a Ana Neborac (Lisa) di leggere La campana di vetro di Sylvia Plath per il suo ruolo?
A volte le parole non bastano per spiegare certe cose, allora dici «leggi questo libro, capirai. Sei in questo periodo della vita in cui vedi tutto in modo drammatico e tragico e hai sempre voglia di ucciderti. Serviti di questa cosa che è in te, di questi momenti in cui sei nel tuo letto la notte e non riesci ad addormentarti perché qualcosa non va bene, non funziona».
In lei c’è qualcosa di represso che emerge di notte, quando esce con un bastone in mano…
Sì, la sua violenza esplode di notte. Durante il giorno è come per le streghe o i vampiri: finge che tutto vada bene ma di notte, quando tutti dormono, può impossessarsi delle strade.
È la prima volta che ti capita di filmare una bambina. Quale approccio hai utilizzato con Nadia? A lei affidi un discorso sull’inizio e la fine del mondo, sull’inferno e sul paradiso. Perché scegliere di affidare questo discorso sulla spiritualità a una bambina, o più generalmente, all’età dell’innocenza?
L’ho trattata come un’adulta. Ho cercato di essere da subito molto sincero, di metterla completamente a suo agio affinché dimenticasse la macchina e non si atteggiasse davanti ad essa. Credo che tutti i bambini conoscano la storia del paradiso e dell’inferno. È il primo dei grandi concetti che si insegna loro; a tutti i bambini educati nel cattolicesimo viene propugnata questa specie di verità molto banale: il male, il bene, il paradiso, l’inferno.
Durante la festa di compleanno di Joane, scoppia una discussione tra lei e il giovane musulmano e, in effetti, la coppia rappresenta due modi di vita che sono agli antipodi. Joane difende la propria morale, non è una puttana, contrariamente a lui, puttana di Allah, lei non si lascia sottomettere da nessuno. In questa scena sembrano emergere in superficie delle pulsioni represse. Cosa volevi trasmettere mettendo a confronto questi due modi così distanti di vedere la vita? Si percepiscono una grettezza di spirito, una certa superficialità nelle parole dell’uomo.
In realtà io volevo davvero che anche lui avesse le sue ragioni! Quando dice a Joane «tu non ti rendi conto che stai diventando come una pubblicità, mezza nuda, e che non sei più libera». C’è un sacco di gente, forse non tu, perché sei una femminista, che troverà giusto il suo punto di vista. Vedendo queste ragazze, si chiederanno perché sono mezze nude durante tutto il film. Molte persone non sono liberali quanto te e vedono queste ragazze come delle future puttane, sono convinte che si comportino male, che non abbiano una morale… e così sono contente di sentir parlare il mussulmano.
Hai avuto riscontri di questo tipo da parte degli spettatori che condividevano le sue stesse idee?
Non ancora, non frequento molti mussulmani al momento. Ma conosco un sacco di gente molto «straight» che pensa che oggi tutte le ragazze siano delle puttane, che non siano serie, e che la società corra incontro alla sua rovina. Che tutto il mondo sia un commercio, insomma questo tipo di discorsi.
Filmi le città e le donne. Da dove nasce la volontà di fare film sulle donne, donne non stereotipate, che non s’imbarazzano a fare pipì nella vasca da bagno, ad esempio.
È difficile da spiegare, perché non è una scelta razionale. Da uomo, sono naturalmente affascinato dalle discussioni tra donne, da quello che si confidano, da tutto ciò che c’è intorno al loro corpo. Ci sono un sacco di cose che non sarò mai in grado di percepire, così posso proiettare su di loro tutti questi rimandi alla stregoneria e alla magia nera, ma anche cercare di rappresentare il dramma di essere bella tra i 15 e i 35 anni, questa tragedia contemporanea dell’eterna giovinezza assoluta.
Come hai lavorato alla sceneggiatura? Si ha come l’impressione che non sia stata molto scritta mentre le immagini sembrano essere molto studiate.
Stranamente, ho passato tre anni a scrivere questa sceneggiatura. Il film non sembra essere stato scritto ma in realtà l’ho scritto con una sceneggiatrice. Abbiamo passato parecchie commissioni, abbiamo riscritto le cose perché volevamo che sulla carta si vedesse il film, che ci si dicesse: ecco è un film che comincia con un agente di sicurezza che s’imbatte su una ragazza, in seguito ci si interessa a questa qui, poi alla figlia della coinquilina, infine si ritorna sull’agente, etc. Si tratta di un percorso che va scritto, non lo si può lasciare all’improvvisazione. È necessario, inoltre, che ci sia una rete di simboli che possa spiegarsi.
Un’affinità particolare ti lega alla musica di James Ferraro che è l’autore della colonna sonora di parecchi tuoi film.
Amo le sue melodie, la sua tessitura sonora dona alle immagini un'aura strana e a-temporale. Cerco il più possibile dare ai miei film un'atmosfera a-temporale e la sua musica ha contemporaneamente qualcosa di atavico e di futuristico.
Tra i giovani cineasti c’è qualcuno che apprezzi in particolare?
Non c’è nessuno che adoro con evidenza. In questo momento mi piacciono molto i film di Paul Verhoeven. In Francia la cultura post-Nouvelle Vague è ancora predominante: piccole storie d’amore tra coppie borghesi, per me noiosissime. Lui, invece, filma individui che la gente detesta riuscendo a renderli attraenti, amabili. Quando ho fatto il film sulla polizia (Commissariat), avevo voglia di rendere i miei protagonisti interessanti, umani, proprio come fa lui.
I tuoi progetti per il futuro…
Sto scrivendo un nuovo film, ma soprattutto ho trovato un’editrice per un libro al quale sto lavorando. Sarà composto integralmente di immagini trovate su internet o ritagliate dai giornali, un po’ come la sequenza in Mercuriales in cui si vedono le armi, ma in forma di libro e con tutte le cose più assurde della contemporaneità.