Che Thomas Pynchon sia lo scrittore invisibile è uno di quei luoghi comuni che, bisogna ammetterlo, hanno un fondo di verità. E non mi riferisco al suo ostinato assenteismo da televisione, fotografie, video; non mi riferisco solo al fatto che ha pagato una cifra cospicua, anche se non ufficialmente definita, per evitare che venisse divulgata una sua foto col figlio Jackson estorta da un ingegnoso paparazzo a New York, dove l'autore risiede. Non mi riferisco insomma alla sua fama di autore recluso (che poi è una mezza balla, visto che ha incontrato – tanto per fare un nome – Salman Rushdie e va a prendere il figlio a scuola).
Il fondo di verità, semmai, ha a che fare con lo status di Pynchon qui in Italia, dove lo scrittore è pubblicato da grandi case editrici (Rizzoli, Bompiani, Einaudi), viene regolarmente citato tra i papabili per il Nobel assieme a De Lillo, Roth e McCarthy (profezie regolarmente smentite dai fatti), ne viene fatto il nome ogni volta che un editore ci deve sbolognare qualche mattone made in Italy o d'importazione, e regolarmente si dice che è romanzo labirintico ed enciclopedico come quelli dell'autore de L'arcobaleno della gravità e L'incanto del lotto 49. In realtà Pynchon da noi è tanto citato (spesso a sproposito) quanto poco letto. Basterebbe confrontare i corsi universitari nei college americani, dove i suoi romanzi spuntano dappertutto, e quelli che da noi sono dedicati alla letteratura degli Stati Uniti: qui Pynchon è rara avis, se non del tutto assente. E se mai qualche suo libro si mette in programma, è quasi sempre L'incanto che è il suo romanzo più breve, quasi un racconto lungo.
Ma ora l'invisibile Pynchon assume di colpo una doppia visibilità: perché, come ben si sa, niente fa circolare il nome di uno scrittore come un adattamento cinematografico; e perché il film di Paul Thomas Anderson fa entrare necessariamente lo scrittore americano nell'arte del visibile (dico questo ben consapevole che il cinema non è solo immagine, e nel caso di Vizio di forma la componente sonora gioca un ruolo particolarmente significativo, ma su questo torneremo dopo). Insomma, ora Pynchon c'è, e si vede; e magari, per chi finora l'ha sentito solo nominare, potrebbe manifestarsi piuttosto diverso da quel che ci si sarebbe potuti attendere.
Chi invece lo conosceva bene ha la soddisfazione di dire che l'aveva sempre saputo. Un film tratto da un suo romanzo, da questo romanzo in particolare, era semplicemente questione di tempo. Il film era l'inevitabile, si potrebbe dire l'inesorabile compimento di un percorso che iniziava già nel 1973, quando uscì il suo capolavoro (o primo capolavoro), L'arcobaleno della gravità, romanzo densissimo di riferimenti cinematografici, ma anche strutturato come un film, tanto che si conclude in un cinema di Los Angeles dove è stata proiettata la vicenda raccontata fino a quel momento, con la pellicola che s'inceppa e brucia, e le luci che s'accendono in sala.
Ma Vizio di forma il romanzo, che uscì in America nel 2009, era qualcosa di più: era un romanzo spudoratamente, deliberatamente, caparbiamente, spietatamente filmico. Se mi si permette l'espressione, era un romanzo che chiamava il film, e questa era un'operazione cui gli scrittori americani non sono affatto nuovi, se si pensa che Hemingway scrisse Per chi suona la campana con la precisa intenzione che venisse filmato, e modellando il protagonista sul suo amico Gary Cooper, che in effetti ebbe poi la parte. La letteratura americana ha un rapporto speciale col cinema, almeno dagli anni venti, quando romanzieri e drammaturghi a corto di soldi andavano a Hollywood in cerca di lavoro (o venivano chiamati dai tycoon della pellicola, come accade al protagonista di Barton Fink dei Coen).
Vizio di forma appartiene infatti alla più ipercinematografica delle varie declinazioni del giallo, e cioè il noir; sottogenere che secondo alcuni critici nasce nel cinema (americano in primis, poi subito anche francese), per invadere poi la scrittura del genere. Appartiene a quella forma di giallo, insomma, che deriva dal cosiddetto hard-boiled di Chandler e Hammett, entrambi scrittori prestati al cinema, il cui nome è legato a pellicole leggendarie. Del noir il romanzo di Pynchon ha tutto: la trama ingarbugliata e dove alla fine non tutto si chiarisce; la dark lady; l'investigatore disincantato e leggermente cinico; la folla di personaggi spesso ambigui che si muovono nell'underworld o in zone grigie tra crimine e legalità; un mondo corrotto; una polizia incompetente o connivente colla malavita; e – soprattutto – la location per eccellenza di ogni film noir che si rispetti, di quelli nell'espressionistico bianco e nero delle origini o a colori come Chinatown o Il grande Lebowski: la California.
Nella scelta di ambientare il suo noir mutante nello stato del sole e delle arance, Pynchon ha motivi autobiografici: lì risiedeva nei favolosi anni Sessanta, mentre scriveva L'incanto del lotto 49 (ambientato anch'esso a Los Angeles) e poi L'arcobaleno; e non a caso nello stesso stato si svolge la storia di Vineland, il romanzo con il quale ruppe il lungo silenzio che aveva seguito la pubblicazione e il clamoroso successo dell'Arcobaleno. Ed è agli anni Sessanta che tornano il romanzo e a traino il film, ma non quelli gioiosi dell'Estate dell'amore (e della sua vigilia, cioè la stagione della controcultura, degli hippy, dei fricchettoni), ma l'autunno di quell'estate, perché la storia si svolge nel 1970, quando le speranze utopiche cedono il passo alla reazione reaganiana (con l'ex-attore non ancora presidente, ma governatore della California); quando da LSD e derivati della canapa si passa all'eroina. Sono anni immortalati da un altro romanzo di uno scrittore forse anche più californiano di Pynchon, e cioè Philip K. Dick, che con il suo Un oscuro scrutare sembra essere lo spettro che s'aggira in Vizio di forma e Vineland. Nel romanzo di Dick c'è il drogato che è anche agente della narcotici; nel film di Pynchon e Anderson, Larry “Doc” Sportello è sì un hippy, ma anche un investigatore privato, quindi alla fin fine una specie di poliziotto, e se c'è qualcosa di radicalmente antitetico ai figli dei fiori anarcoidi e pacifisti è lo sbirro, uomo d'ordine con la pistola in pugno. Ma anche Shasta (magistralmente interpretata da Katherine Waterston), la donna che Doc amava (e ama ancora), la cui inattesa ricomparsa avvia il film (e il romanzo), da autentica figlia dei fiori e compagna di un vero freak come Doc (in un passato non tanto lontano), lo ha lasciato per una storia torbida con lo speculatore edilizio Mickey Wolfmann—uno che, con i suoi agganci politici e la sua scorta di nazisti dell'Aryan Brotherhood, incarna tutto ciò che due hippy come Doc e Shasta dovrebbero evitare come la peste.
Eppure il confine tra gli hippy e gli straight (ovvero chi resta dentro il sistema) è tremendamente poroso. Passa di tutto, non solo le relazioni tra gli individui; nel film manca la scena in cui i “normalissimi” genitori di Doc lo vanno a trovare a Gordita Beach, e comunque, nel bel mezzo di un periodo in cui si rifiutava l'idea stessa di famiglia (vedi il personaggio di Japonica, che sta per tutti i figli dell'America che scappano di casa ma soprattutto dai genitori), c'è una scena assolutamente famigliare, che riafferma quei legami dove meno uno se li aspetterebbe; nel film comunque ci sono le telefonate tra Bigfoot Bjornsen (altrettanto magistrale interpretazione di Josh Brolin) e Doc, attraverso le quali Anderson pare suggerire che i due, il poliziotto protervamente straight e il detective privato assolutamente sballato, ci sia una sorta di relazione speculare, che l'uno è il negativo dell'altro, che nonostante siano dalle due parti della linea che dovrebbe dividere la normalità dalla devianza alla fine sono l'uno l'immagine invertita dell'altro, ma in fin fine sono – paradossalmente – la stessa persona.
E questo ci porta ovviamente al titolo originale di romanzo e film, Inherent Vice, che in italiano è stato reso con “vizio di forma”, un'espressione piuttosto fuorviante. Mentre vizio di forma evoca qualche inghippo assai italiano (assoluzioni dovute a timbri mancanti o sentenze non trascritte), inherent vice è un termine del diritto navale (ma anche del lessico bibliotecario) col quale si definisce la situazione in cui qualche merce trasportata o custodita si deteriora non per colpa del trasportatore o conservatore, ma per un vizio inerente, qualcosa che all'imbarco o all'acquisto non era visibile ma si è manifestato più tardi. Per restare in ambito letterario: un libro stampato su carta fortemente acida si deteriorerà anche se custodito con la massima cura. Ovviamente l'espressione richiama la serie Miami Vice, e “Vice” sono i reparti delle polizie statunitensi che si occupano di droghe e reati di carattere sessuale; e droga e sesso non mancano nel film. Ma inherent vice sembra anche avere a che fare con un'instabilità congenita nel sogno di amore e libertà degli anni Sessanta, che nel film viene mostrato proprio mentre si sta palesemente guastando; non a caso quella di Vizio di forma è una storia di tradimenti, di venduti, di compromessi. Pynchon sembra suggerire che quel sogno, la mitica Estate dell'amore del 1967, era intrinsecamente instabile, aveva un difetto inerente, non era fatto per durare e per resistere a lungo all'omologazione e alla repressione dell'America “normale”.
L'intenzione di Pynchon, e quindi di Anderson, è di rendere visibile quel difetto inerente, manifestarlo, esibirlo. Data l'ambientazione, niente di meglio delle convenzioni del noir per catturare quel determinato momento storico, quella particolare temperie socioculturale. Ne deriva un curioso effetto, che si palesa rivedendo il film: nonostante abbondino scene notturne, in linea con la tradizione del noir, l'impressione complessiva che se ne ricava è di una storia illuminata da una luce abbagliante – è la California baciata dal sole, sicuramente, ma anche, forse, la luce della storia.
Necessario dire qualcosa sull'adattamento. Anderson ha scelto di sfrondare il romanzo di Pynchon, scelta inevitabile, ma lo ha fatto consapevole che per quanto si potesse tagliare (è sparita per esempio ARPANET, l'antenata di Internet che gioca un ruolo non secondario nella trama del romanzo) la storia di questo film da due ore e mezza sarebbe risultata comunque ingarbugliata e scombinata, come nei migliori classici del noir (già ai tempi di Chandler e Hammett). Però lo sceneggiatore/regista è riuscito a conservare l'intrinseca stranezza e anche l'umorismo di Pynchon, aggiungendo qua e là dei tocchi magistrali, come nella rapidissima citazione (in versione hippy) dell'Ultima cena di Leonardo (incluso Giuda Iscariota, per restare al discorso che si faceva sui doppi e i tradimenti), nel surreale palazzo della Golden Fang, nella collezione di mazze da baseball di Adrian Prussia, nei surreali appunti che Doc scrive sul suo taccuino, e così via. Anderson ha insomma mantenuto fede allo spirito (decisamente sballato) del romanzo, riuscendo a indurre lo spettatore in uno stato di stupefazione che ricorda quello in cui si trova perennemente Doc Sportello a causa del suo consumo di derivati della Cannabis; e la colonna sonora rafforza questo effetto di deliberata stonatura (non nel senso musicale del termine). Ne risulta un film nel quale il talento del regista emerge dalla scelta di non esibire virtuosismi tecnici o un montaggio vertiginoso; un passo indietro che rende ancor più visibile il testo pynchoniano, incarnato nella narratrice Sortilège (interpretato con voce particolarissima – nell'originale – dalla cantautrice Joanna Newsom), che – oltre a comparire di tanto in tanto in qualità di amica/confidente di Doc – recita fuori campo brani del romanzo. Omaggio al Maestro, indubbiamente, ma anche necessità intrinseca del noir, che abbisogna del distaccato commento a posteriori di una voce acusmatica. Uno dei tanti momenti in cui Anderson dimostra di essere perfettamente consapevole delle convenzioni del noir (come Pynchon) e perfettamente in grado di reinventarle (anche in questo caso, come Pynchon).