È inevitabile, al netto degli incassi rilevati sul territorio nordamericano e dei paesi anglofoni più in generale, considerare il malese-naturalizzato australiano James Wan come una delle figure più riconoscibili dell'horror contemporaneo. Una riflessione, quella sulla sua opera, che supera ogni discorso dicotomico sulla qualità, e che riguarda piuttosto le impostazioni alla base del “suo” cinema. Un discorso che non può non partire da un’operazione come Saw (portata avanti negli anni con sei sequel che Wan si è limitato a finanziare), ormai al centro dell’immaginario terrorizzato del moviegoer medio statunitense, tornato in sala negli anni Duemila a fruire cinema horror indipendente dopo un decennio – quello precedente – costellato di patine e naïveté. Budget risicato, incassi sostanziosi.
Negli anni Dieci del nuovo secolo, poi, un nuovo scatto: quasi contestualmente all’altro fenomeno dello stesso periodo, Paranormal Activity (su cui sarebbe opportuno formulare ulteriori considerazioni), Wan dirige Insidious (2010), una sorta di opera-manifesto: a partire da un topos ormai logoro – la casa infestata – il regista imbastisce un film intero (e il suo sequel, del 2013) sforzandosi di catturare i gusti del potenziale spettatore di riferimento. Un procedimento laborioso e cervellotico, che comprende anche The Conjuring, diretto in contemporanea con il secondo capitolo di Insidious, anch’esso a basso budget e – come i due Insidious – di grande successo ai botteghini.
Il controllo di Wan sulle opere girate e prodotte segue – soprattutto a partire da Insidious – un percorso preciso, ispirato da una sistematicità continuativa in grado di riflettersi nei film stessi. Motivi ricorrenti dell’horror anglofono (e in particolare nordamericano) vengono scarnificati e addolciti, mentre le sceneggiature e la costruzione dei personaggi ricoprono subordinate rispetto a quella che deve imporsi come esperienza distraente e totalizzante. Terrorizzante, sì, ma non del tutto: è per questa ragione che Wan rispolvera la patina dei Nineties e la ri-applica in maniera responsabile alle sue nuove creature.
Per Annabelle il regista si limita a produrre, affidando la regia al suo storico direttore della fotografia, John R. Leonetti. Quello che sembra un compito collaterale – seppur di enorme importanza, s’intende – è in realtà indicativo della forma imposta da Wan alla struttura generica di un’opera, e di un’autoreferenzialità più sentita che compiaciuta. Annabelle, infatti, è una bambola di porcellana esposta in una teca di proprietà dei coniugi Warren, la coppia – realmente esistita – di ricercatori del paranormale già protagonista di The Conjuring.
Se è ormai evidente come quello della bambola assassina sia un feticcio ricorrente e inflazionato, non lo è altrettanto immaginare le ragioni di Wan – considerato il suo percorso di riscoperta e disamina culturale – nel voler approfondire la vicenda della bambola che dà titolo al film. E Annabelle è, a suo modo, la sua dichiarazione di poetica più incisiva e presuntuosa: un’opera che incarna in toto l’idea stessa di orrore che egli immagina e produce. Un’idea claudicante, a ben vedere, in cui il terrore si accompagna a tracce di vaga umanità, e a moralistici sviluppi narrativi – ne è lampante esempio, in questa direzione, il “destino” riservato al personaggio di Alfre Woodard. Persino la costruzione dello spazio filmico (un appartamento che a molti, banalmente, ricorderà quello di Rosemary’s Baby) è asservita agli ideali del suo patron. Il problema maggiore, sulla lunga durata, è che questo tipo di operazione non spaventa come dovrebbe: chi intuisce il giochino di Wan comprende all’istante quanto i nervi scoperti non siano in fondo così dolorosi, i riferimenti culturali serviti da ispirazione non così pertinenti, e l’impianto della struttura terrorizzante ridicolmente disboscato. È ribadito con insistenza, però, che Annabelle è una bambola che esiste sul serio: un espediente pretestuoso che vorrebbe lavorare sulla psiche dello spettatore, invitato a spaventarsi entro dati limiti ma forzato ad arrendersi alla possibilità che il terrore possa annidarsi anche negli oggetti più prossimi e comuni.
Il dibattito critico, se interessato, dovrebbe interrogarsi allora sul perché il cinema sponsorizzato e foraggiato da Wan piaccia così tanto. O, forse, si potrebbe semplicemente accettare una tipologia light ed ecumenica di fare terrore nei film; ma restano, tuttavia, elementi sui quali vale la pena riflettere. Uno su tutti: quest'estetica, pensata per il grande pubblico, è del tutto estrinseca ai suoi personaggi, pedine di un teatro strutturato in modo che sia la foggia a colpire, prim’ancora di ogni altro aspetto. Si pensi a un fenomeno televisivo contestuale come American Horror Story. Anche qui patina, furbizia e ammiccamenti la fanno da padrona, ma v’è l’impegno del creatore Ryan Murphy a non avere assoluta pietà nei riguardi dei propri personaggi. Annabelle, invece, è del tutto disinteressato nei confronti dei suoi protagonisti, li lascia allo sbaraglio in una sceneggiatura scientemente improbabile e raffazzonata, immersi in un formalismo limaccioso e indigesto. Perché il pubblico accorra in massa, o possa trovare tutto questo minimamente interessante, resta un grande mistero. Almeno fino al prossimo fenomeno.
Annabelle, regia di John R. Leonetti, USA, 2014, 98'