I film di Matías Piñeiro non contemplano la presenza di adulti: sono girati tra amici, coetanei, ondeggianti e vagabondi trentenni che bazzicano il mondo dell'arte, attori fuori o dentro un teatro che sembra non avere più bisogno di palcoscenici, ma rivivere tra le strade deserte di quartieri residenziali, tra le quinte di un museo, o nell'antro buio e angusto di un'automobile in sosta. Sono i corpi e i volti di questo gruppo di attori (soprattutto di straordinarie attrici) attraverso cui il cinema del giovane regista argentino (nato nel 1982) prende forma, componendosi di eleganti traiettorie visive che uniscono i personaggi in una danza amorosa, degna degli intrecci e degli svelamenti delle commedie classiche hollywoodiane e figlia della libertà visionaria della nouvelle vague.
Grazie a Viola (presentato alla Berlinale nel 2012) e con La Princesa de Francia (Locarno 2014), Piñeiro si è affermato come uno degli autori emergenti nel circuito festivaliero, anche se il suo cinema “di parola”, ancorato al quotidiano, sembra tenersi lontano da quel “sistema” sudamericano che privilegia – anche, anzi, soprattutto nei festival – un gretto realismo, basato su drammatici fatti di cronaca. Niente di più lontano dalle commedie degli equivoci d'ispirazione shakespeariana attorno alle quali ruota questo cinema arioso e affascinante, geometrico e raffinato, colloquiale e pungente. Tra gli scantinati e gli appartamenti post-studenteschi di Buenos Aires prende forma un cinema che una volta tanto si assume il ruolo di specchio rivelatore dei turbamenti e dei desideri di una società in ricomposizione: un gruppo di amici-amanti-confidenti che si lasciano alle spalle l'adolescenza per confrontarsi con l'età adulta.
L'incipit del tuo ultimo film, La princesa de Francia, sembra una performance tipica del teatro sperimentale forte impianto teatrale, mentre nell'epilogo, privo di immagini, si ascoltano solo parole dette sullo schermo nero. Ci interessa sapere che relazione intrattieni con la scena teatrale contemporanea.
A Buenos Aires c'è una comunità teatrale molto estesa, forte, in particolare quella legata al circuito off e credo che la maniera in cui io e altre persone della mia generazione facciamo cinema sia decisamente ispirata al lavoro teatrale, in particolare in termini produttivi. Ci si trova, ci si raccoglie insieme e si collabora, si decide di mettere in scena qualcosa anche se nessuno ha ancora scritto niente e tutti credono nell'impresa, la sostengono. Così ci si riunisce in un garage, o altri posti del genere, si comincia a provare ogni mercoledì sera, magari dopo che si è stati tutto il giorno in ufficio, e lo si fa per mesi, magari per un anno, e a un certo punto scopri che hanno aperto un posto dove si potrebbe mettere in scena l'opera… Si tratta di una struttura molto fragile, precaria che però allo stesso tempo rende possibile il concretizzarsi di quell'idea di partenza. È una modalità in cui mi riconosco molto, sin da quando ho girato i primi corti all'università e ho cominciato a incontrare altra gente interessata ai miei stessi ambiti.
Come e quando hai incontrato il gruppo di attori e attrici con i quali lavori abitualmente?
Una decina di anni fa. Mi preparavo a realizzare il mio primo film (El hombre robado, 2007) e, dal momento che non mi piace l'idea di fare dei casting, ho preferito ricorrere a questa "rete" di amici che avevo visto recitare qua e là in opere altrui. Inoltre, ho pensato alle storie che avrei voluto mettere in scena solo dopo aver incontrato loro, Maria, Romina, Julia, Augustina, etc. Affidarci a questa pratica inconsueta ci ha permesso di lasciarci alle spalle tutto l'apparato "burocratico" che normalmente il cinema porta con sé e siamo stati più liberi di fare quello che volevamo. Una libertà che abbiamo intrapreso con grande responsabilità, naturalmente, per dare vita a una struttura produttiva alternativa e allo stesso tempo affidabile. Ecco perché non mi è mai parso strano affidarmi ai testi di Shakespeare, come non trovo assurdo che in un momento del film ci possa essere solo suono e non immagini. Lavorando in questo modo capisci presto che non ci sono regole precise a cui attenersi ma si possono fare dei tentativi, un atteggiamento cui ho cercato di attenermi fin dal mio primo film.
Come venne accolto?
In nessun modo! Era un film a cui avevo lavorato tantissimo, come tutti quelli che vi hanno preso parte, e che per mesi non ebbe alcuna risonanza, quindi ero demoralizzato, sotto shock, pensavo "forse quello che faccio non interessa davvero a nessuno…". Finché un mio amico mi ha detto "va bene così, hai avuto il piacere di fare un film senza che nessuno ti abbia chiesto di farlo, ed è una cosa meravigliosa, ma devi accettarla e comportarti di conseguenza". Aveva ragione. Se senti parlare gente come James Benning, per citare il primo nome che mi viene in mente, capisci che c'è la possibilità di creare il proprio pubblico, partendo da 3, 5, 10 persone per poi ampliarlo, e trovo che sia una bella idea. L'idea che sia necessario continuare a fare pratica per realizzare quello che ti piace fare. Tengo in molta considerazione ciò che mi ha detto quell'amico, perché è come se mi avesse liberato da un obbligo. Mi ha fatto capire che bisogna relativizzare ciò che accade dopo che si è fatto un film, e che non bisogna essere ansiosi riguardo il fatto che il film venga visto, che se ne scriva, che riceva tanta attenzione. L'importante è continuare a lavorare e in questo modo si costruisce qualcosa.
Visto che hai citato Shakespeare: ci è parso strano che, essendo la forma dei tuoi film così originale, libera, non utilizzi, per dire, Beckett, e invece ti rifaccia al "canone", per così dire dire…
È come la cantante calva, che si pettina dall'altra parte! Vale a dire che credo sia più interessante non prendere la strada che ti porta in un dato posto in maniera diretta, lineare, ma arrivarci diversamente. Oppure che se devi dipingere in bianco non utilizzi il bianco ma ti servi di altri colori che ti possano far ottenere il bianco. Se intendo dare vita a una narrazione alternativa, e voglio mantenere una certa distanza, non essere intrusivo, ecco… se mi servo di Beckett finisco "per pettinarmi alla stessa maniera", invece preferisco farlo "nell'altro verso". Per questo utilizzo Shakespeare, anche perché trovo che il suo materiale sia estremamente flessibile e si possa modificare, trasformare in innumerevoli maniere. E non perché non ami Beckett, tutt'altro! Ma mi piace mescolare le carte.
Ci interessa molto la relazione che intrattengono le parole e le immagini nei tuoi film. Il testo sembra dominare, perché ci sono tanti dialoghi, ma la macchina da presa ha vita propria. Sorprende quando si allontana, va da tutt'altra parte rispetto a quello che sarebbe lecito immaginarsi ascoltando le conversazioni tra i personaggi, come se il film si muovesse su due binari paralleli…
Sì, mi piace conservare in senso stretto l'indipendenza tra testo e immagini. Torniamo al discorso fatto prima: c'è un materiale di base ma non è detto che la forma che debba assumere sia la più immediata. Prima di girare Viola (2012), dovevo filmare un adattamento teatrale che avevo messo in scena, e guardando un dvd mi ero accorto che la macchina da presa stava su un'attrice anche quando non stava parlando e questo mi sembrava molto più interessante di quando stava sull'attrice che parlava, perché mi faceva subito pensare al brutto teatro filmato. Mi sono detto: ecco, qui non si sta facendo finta che ciò che viene rappresentato non sia una messa in scena ma si rivelano attori che interpretano ruoli; ed è stato come se improvvisamente fosse apparso un nuovo strato di significato che rendeva l'immagine più densa. Così ho pensato che anche nei miei film avrei dovuto lavorare sull'autonomia dell'immagine in relazione al testo. Tenente presente che il teatro elisabettiano non prevedeva illuminazione della scena, tranne quella naturale, e anche questo mi ha spinto a pensare che Shakespeare andasse adattato in maniera naturalistica. Con ciò non voglio dire che il mio approccio a Shakespeare sia brechtiano, tutt'altro. Uno dei migliori adattamenti, per me, è l'Enrico V di Laurence Olivier, un film magnifico, estremamente artificiale… Credo che in pochi se ne siano accorti, perché nei libri di storia del cinema al regista viene sempre assegnata una posizione molto conservatrice. E sicuramente anche Falstaff di Welles è stata una grande ispirazione, ma stiamo parlando di geni. Trovo che nel suo film ci sia proprio quella relazione tra ruolo, personaggio, attore e interpretazione che ricerco nei miei.
Questa ricerca dell'artificio chiama in causa la tua passione cinefila per il cinema americano classico.
Le commedie americane degli anni '30 sono gli altri grandi adattamenti shakespeariani! Ma naturalmente si tratta adattamenti travestiti: Il diavolo è femmina di Cukor prende tantissimo da Come ti piace di Shakespeare – la Hepburn lo stava recitando a Broadway proprio in quel periodo ed è per questo che aveva i capelli corti – e il film è pieno di riferimenti a quell'opera. La stessa cosa vale per Partita a quattro di Lubitsch: l'ho rivisto qualche mese fa – tieni presente che Come mi piace è la commedia di Shakespeare che preferisco, la conosco alla perfezione! – e c'è una scena in cui Miriam Hopkins prende in giro i due uomini, a lungo, e mi sono detto: "aspetta, conosco questa scena…". Infatti è presa di peso da Come vi piace. Le parole sono leggermente diverse, naturalmente, ma la struttura della scena è molto simile. In genere, ritengo che la commedia sia il genere che mostra maggiormente l'artificiosità, il travestimento. C'è un ritmo che deve funzionare alla perfezione, perché altrimenti il film morirebbe. In questo momento sto lavorando proprio su quest'artificiosità mascherata, qualcosa che rifugga il naturalismo ma che non sia nemmeno Perceval le Gallois… Poi succedono cose strane: nel mio primo film ho scritto di un personaggio che ruba opere nel museo in cui lavora e ricordo di aver pensato che rischiava di essere una stupidaggine, un pretesto assurdo… e invece qualche mese dopo qualcuno l'ha fatto davvero, nella realtà!
Forse aveva visto il tuo film!
(ride) No, i film non hanno mai questo potere. C'è piuttosto qualcosa nell'aria e c'è qualcuno che trasforma l'idea in un film e qualcun altro che lo fa nella vita reale. Comunque… per tornare al discorso di prima: sto lavorando molto alla ricerca di equilibrio tra il naturalismo e la costruzione di una macchina che deve funzionare alla perfezione, perché mi interessa trovare una musicalità, un ritmo, un tono. Ecco: "tono" è il termine esatto per indicare quello che ricerco.
È inevitabile che i tuoi film portino con sé un forte senso di familiarità, dato che lavori con lo stesso gruppo di attori e attrici, ma forse ha anche a che fare con il fatto ti accompagna anche la stessa troupe tecnica…
Assolutamente. Credo che se lavorassi con altra gente verrei influenzato da altri aspetti e pur avendo gli stessi interpreti il film avrebbe una forma, un aspetto diverso. Con la mia troupe ho una relazione che si basa sul dialogo e la fiducia, alimentata dal rispetto e dalla stima reciproca. Ognuno di noi sa bene cosa vuole l'altro, e non c'è una vera e propria struttura gerarchica. Molti di loro li conosco dai tempi dell'università, quando abbiamo cominciato a collaborare e la stessa cosa vale per le attrici: ho conosciuto Romina, lei mi ha presentato Esteban, e così via. Ormai è come se avessimo un codice comune e condiviso, dato dal fatto che ci conosciamo e lavoriamo insieme da 9 anni.
Questo immaginiamo ti permetta di girare i film in tempi ristretti…
Assolutamente. Viola è stato girato in 11 giorni. E poi a volte la fortuna aiuta: la scena con la partita di calcio all'inizio di Princesa è venuta bene alla prima ripresa! Ne ho girate altre perché mi sembrava assurdo che quella sorta di performance così complicata fosse riuscita perfetta al primo colpo ma alla fine è proprio quella che ho utilizzato. Le riprese del film sono durate due settimane, complessivamente.
L'ultima domanda riguarda l'assenza totale di adulti nei tuoi film. Ci siamo chiesti se abbia a che fare con un assunto politico, generazionale… Una presa di posizione nei loro confronti…
No, direi di no. Niente di tutto questo, nessuna gerontofobia! Lavoro con i miei coetanei e mi trovo bene con loro. Forse sto solo aspettando che le mie attrici invecchino!