Conclusa la "trilogia della dittatura", Pablo Larrain punta il suo sguardo, feroce e accusatorio, sulla Chiesa cattolica, raccontando di un gruppo di sacerdoti di età diverse che vive con una suora in un eremo sulla costa oceanica del Cile, dividendo la propria vita tra le preghiere e l’addestramento di un levriero per competizioni di corsa. La narrazione si dipana svelando progressivamente i personaggi: servitori di Dio che si sono macchiati di gravi colpe sessuali, abusi di minorenni, omosessualità, traffico di bambini e, di conseguenza, esiliati dalle autorità ecclesiastiche, più che per punizione, per allontanarli e nasconderli alla società ed evitare che le loro malefatte generino scandalo. Larrain intende evidentemente scoperchiare un mondo che la Chiesa ha sempre cercato di occultare, quello della pedofilia che alberga al suo interno, portando in superficie l'ipocrisia della morale sessuofobica di una religione che funziona ancora come oppio dei popoli, strumento di persuasione delle masse. El Club, in questo senso, si avvicina ai pamphlet anticlericali caratterizzati da uno sguardo frontale, duro nei confronti della Chiesa, come The Magdalene Sisters o il giapponese The Whispering of the Gods, ma con un occhio al più complesso cinema di Agustí Villaronga.
Il regista di Tony Manero torna qui a evocare lo spettro della dittatura, sia nel richiamare i legami che ha intrattenuto con le autorità ecclesiastiche, in una sorta di filo conduttore delle atrocità – ma anche con la parte più bassa del clero che non esitava a fare delazioni al regime con i segreti appresi nel confessionale –, sia nel ricreare un microcosmo sperduto dove albergano quelle stesse logiche di sopraffazione e dove si manifestano le stesse dinamiche di potere, sui cani, sulla figura del personaggio di Sandokan – su cui torneremo – proprie di un sistema dispotico. E, ancora, nel raccontare una società che confina in un casolare sperduto i fantasmi di un passato con cui fatica a fare i conti; che rimuove dalla vista ciò che dà fastidio come in passato occultava i cadaveri dei desaparecidos; e che, per i propri scopi, fa uso di emissari: le squadracce della morte così come il nunzio mandato a svolgere l’inchiesta, più un Mr Wolf che risolve problemi, bello e affascinante. Un sistema che si autoassolve nascondendo ciò che è scomodo, un microcosmo nel quale si palesano estreme contraddizioni: morale sessuofobica e innocenza violata, peccato e senso di colpa, repressione e fornicazione, Inferno e Purgatorio. Lo sfruttamento sessuale e la pervasività della Chiesa Cattolica nella società sono due facce della stessa medaglia.
Il film inizia con una citazione della Genesi: «Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre», segno di quella primigenia separazione netta tra bene e male, cardine della concezione cristiana del mondo. Larrain, al contrario, persegue fotograficamente la commistione, l’osmosi, il conflitto di luce e buio mai risolto in favore dell’una o dell’altro. Continue sequenze controluce, silhouette di personaggi che si stagliano contro il sole finendo per essere inghiottiti dai raggi luminosi, effetti eclisse, effetti flou. Un’opacità, una mancanza di nitidezza ottenuta mediante l’uso di vecchie lenti russe anamorfiche al cromo, personale battaglia di Larrain contro l’omologazione del digitale.
Centrale è, poi, la figura di Sandokan, l’equivalente ‘buono’, quasi virato a macchietta, di Angelo di Tras el cristal, figura grottesca che il regista tratteggia come personaggio buffo, comico, ingenerando nello spettatore colpevoli risate per un uomo che ha avuto l’infanzia e la vita rovinate, deturpate dagli abusi sessuali subiti da piccolo a opera di sacerdoti, in compagnia dei quali è confinato nello stesso, claustrofobico spazio. Un personaggio obbligato al turpiloquio sessuale, unico linguaggio con cui si può esprimere, segno indelebile di una personalità completamente (de)formata dalla violenza sessuale. Gli orecchini che porta, a forma di crocefisso, simboleggiano una sorta di sindrome di Stoccolma e sono allo stesso tempo indice di quella compresenza di bene e di male, di sacralità e perversione, che permea tutto il film e si cristallizza in altre immagini. Quella della pulizia corporea con lo sfondo di un quadro della Madonna o quella del levriero, animale affusolato, di grande eleganza, cane da caccia biblico, predatore perfetto per la velocità con cui può ghermire le prede. Larrain guarda tutto dall’alto, come il personaggio dal cannocchiale. Scruta quel mondo come da una finestra su un cortile che è una landa desolata, in un paesaggio rarefatto, un casolare alla fine del mondo, dove le colline si perdono nell’oceano.