L'attenzione che sta ricevendo oggi il cinema del reale non ha precedenti. A tutti i livelli: di critica e di pubblico. Lo testimoniano il Leone d'Oro e gli incassi utramilionari di Sacro GRA di Gianfranco Rosi, i dibattiti intorno al cinema di Joshua Oppenheimer, le impreviste aperture distributive nel nostro Paese a favore di opere ricercate come Stop the Pounding Heart e L'eau argentée. L'interesse, sotterraneo ma emergente, nei confronti di questi film è un segnale forte e arriva a compimento di un percorso segnato da cambiamenti radicali nel modo in cui si fa cinema e lo si fa circolare.

Parlare oggi di documentario, un termine che sta ormai troppo stretto alla pluralità di forme della non-fiction emerse negli ultimi quindici anni, significa confrontarsi con un percorso segnato da picchi d'interesse e da un successivo consolidamento di pubblico in grado di coinvolgere non solo gli addetti ai lavori ma anche una fetta crescente di spettatori in cerca di nuove narrazioni, percorsi meno consolidati e (perché no?) visioni stimolanti.

C'è da rallegrarsi se di fronte ai successi di Nicolas Philibert (Essere e avere, 2002) e Michael Moore (Fahreneit 9/11, Palma d'Oro a Cannes nel 2004) – che all'inizio del nuovo millennio attirarono folle nelle sale – non si è andati avanti per documentari-evento, capaci di catturare l'attenzione mediatica ma anche di consumarsi nel giro di poche stagioni. La strada inaugurata da queste due opere così distanti si è consolidata in una progressiva e lenta ondata, crescente di anno in anno. E se da una parte gli anni 2000 hanno finalmente permesso a documentaristi come Frederick Wiseman, Raymond Depardon ed Errol Morris di ricevere un'attenzione più diffusa riguardo la propria opera, dall'altra una generazione di autori formatasi con il video ha dovuto ripensare il rapporto con l'immagine filmata sulla base dei repentini mutamenti imposti dalla tecnologia (aspetto approfondito dal cineasta e montatore Robert Greene nel suo testo). È proprio questa viva discussione teorica sulla sostanza delle immagini ai tempi dei pixel, questo progressivo smaterializzarsi della telecamera, questa perdita di senso del “tempo al lavoro” che rende così vario e stimolante il novero delle opere di non-fiction prodotte in questi quindici anni.

La rosa dei titoli che presentiamo, selezionata dai collaboratori della rivista e messa al vaglio delle liste proposte da direttori di festival e programmer internazionali, non intende essere esaustiva, quanto suscitare riflessioni (da cui anche gli accostamenti, a mo' di suggestione, che portano l'elenco dei film da 15 a 30). Si tratta, infatti, di una selezione compilata con i piedi piantati nel 2015 e lo sguardo rivolto a cercare le opere che, a oggi, ci sembrano farsi promotrici delle forme emergenti sulla scena del cinema del reale. Ecco spiegata l'esclusione di grandi "maestri", il cui stile si è affinato raggiungendo massimo compimento nei decenni precedenti, o di coloro che, pur sempre attivi su alti livelli, hanno firmato opere di maggior rilevanza prima del 2000.

Con il progressivo affermarsi del digitale, si sperimentano forme che mettono in crisi metodi ormai consolidati di narrazione, di costruzione dei personaggi, d'ingresso dello spettatore nella diegesi. Oggi, la macchina da presa è diventata la camera-corpo del cinema in prima persona, quella volante, leggerissima e sospesa sui flutti, quella che vede anche là dove l'occhio umano non può arrivare. In questa fragilità e potenza del cinema, si spingono i film che compongono il nostro viaggio nel documentario che, nell'affastellarsi d'archivi sempre più complessi da elaborare, ha trovato grandi interpreti della “critica delle immagini”.

Un'attenzione particolare è riservata al panorama italiano e a una trasformazione trapelata forse in ritardo ma con forza grazie al documentarista Leonardo di Costanzo, che ha spianato la strada con A scuola (2003). Da allora, grazie all'attività di altri, giovani autori come Alessandro Rossetto, Pietro Marcello, Alberto Fasulo, Stefano Savona, Alessandro Comodin, Roberto Minervini, che continuano a lavorare in questo campo inventandosi nuove soluzioni di film in film, il nostro Paese si propone come laboratorio di forme in evoluzione, da osservare con occhio attento, per far sì che le eccellenze non debbano cercare conferma del proprio valore all'estero (si veda il caso di D'Anolfi e Parenti con Il castello e Materia oscura).

Molto vicino, sideralmente lontano. Così oggi guardiamo il mondo attraverso il cinema, nell'impossibilità di fare nostro un presente che non si fa imbrigliare.

 

NO QUARTO DA VANDA (2000) / Pedro Costa

“Questa non è la vita che vogliamo, questa è la vita che siamo stati costretti a vivere”

“Lo credi davvero?”

“È come un destino, un sentiero che sei costretto a tenere”

“No, questa è la vita che abbiamo voluto fare, è così che la vedo io”

Sono queste le parole che Vanda indirizza all'amico d’infanzia seduto ai piedi del suo letto, in quella che è forse la sequenza più decisiva di No Quarto da Vanda. Entrambi vivono in un baracca di Fontainhas – gli slums di Lisbona, territorio d'elezione dei film di Costa –; e anche lui, come lei, è un junkie. Tuttavia è questo il vero scandalo di cui Vanda ci parla: difficile pensare che anche nel punto più basso della scala sociale, anche negli inferi delle città del capitalismo moderno, possa esistere comunque l'esperienza della libertà. E tuttavia questa vita, nonostante tutto, anche solo per un impercettibile momento (“quando quei soldi – ricorda Vanda al suo interlocutore – li hai usati per comprare altra droga”), abbiamo comunque deciso di volerla. Jacques Rancière si chiede spesso come il cinema di Pedro Costa, pur non parlando mai di questioni politiche, riesca a essere così radicalmente politico. È semplice: Pedro Costa non guarda gli slums di Fontainhas come se fossero luoghi di degrado sociale e umano proprio come farebbe qualunque altro dispositivo esistente dello sguardo che pensa che l’esperienza della subalternità non possa che essere un’esperienza unilaterale di miseria. Ci dice che, semmai, dobbiamo guardarli con gli occhi della loro redenzione. Perché la politica (dello sguardo) di Costa non è la promessa di un futuro di libertà, ma la sua attualizzazione nel cinema. Qui e ora. [Pietro Bianchi]

> Qu'ils reposent en révolte (Sylvain George, 2010)

 

LE GLANEURS ET LA GLANEUSE (2000) / Agnès Varda

Documentario soggettivo girato integralmente in digitale, Les Glaneurs et la glaneuse rimette in scena diversi frammenti del cinema precedente di Agnès Varda: la propensione al vagabondaggio e alla flânerie, la riflessione sul cinema e la pittura, la necessità di continuare a ricercare forma e bellezza nelle cose del mondo. A dispetto del disordine apparente, il film è straordinariamente rigoroso. Il ludico andare e venire tra pittura, campi, patate dalla forma a cuore, autoritratto e norme giuridiche, trova un principio disciplinante nel tema della spigolatura. Un’antica pratica contadina che consisteva nel recupero delle spighe lasciate sul terreno dopo la mietitura, che qui viene riletta nelle sue diverse declinazioni temporali, sociali, politiche e, non ultime, estetiche. È la stessa Varda a paragonare il proprio lavoro a quello di un concertista jazz: dopo l’assolo – in questo caso la digressione autobiografica – si fa sempre ritorno al tema principale. Il recupero e la conseguente rinascita di ciò che è stato abbandonato consente alla regista di entrare in contatto con un’umanità relegata ai margini, in una prossimità che restituisce dignità e vita a chi viene filmato e a chi filma. Perché è nel dettaglio della sua mano segnata dal tempo che riusciamo a scoprire l’altra spigolatrice, quella indicata dal titolo. È proprio lei, Agnès Varda, che con la sua piccola videocamera raccoglie la materialità di immagini sensibili, strappandole al loro declino. [Francesca Monti]

> Un'ora sola ti vorrei (Alina Marazzi, 2002)

 

WEST OF THE TRACKS (2002) / Wang Bing

Inquadrature traballanti e offuscate, il digitale pronto ad aprirsi in voragini di fronte alle ondate di calore o alle nebbie invernali. Ombre dalle forme umane si muovono incerte attraversando ingranaggi ormai alla fine della loro Storia. Anche per questo, TieXi Qu di Wang Bing, quando fa capolino tra i work in progress della Berlinale, e successivamente gira nei maggiori festival internazionali, si staglia come un'opera fondamentale, non solo nell'ambito del cinema documentario ma nella nuova era “digitale”, che inaugura espletandone le sue più alte risorse estetiche. Il documentario, della durata di nove ore, è una mappatura dell'immenso stabilimento industriale di Shenyang, in cui gli operai si trovano abbandonati di fronte a un'epoca di decadenza, lontani dagli aneliti politici, ancora di più dal fermento produttivo, ridotti a esseri svuotati d'ogni intenzione, sospinti a proseguire per inerzia nel loro lavoro, senz'altra necessità. Ombre che solo raramente acquistano il dono della parola in confessioni che il regista raccoglie e restituisce con estremo pudore. Il travelling naturale dei treni che attraversano il complesso in smantellamento suggerisce un viaggio attraverso la recente storia cinese in continuo divenire, che lascia indietro senza troppi rimpianti i propri relitti. Da allora Wang Bing ci racconta questa Cina concentrazionaria, in cui tutto ruota attorno alla fine, alla morte come ultimo sbocco produttivo a cui si può frapporre soltanto l'abbraccio di un compagno di strada che conosce il tuo pianto. [Daniela Persico]

> California Trilogy (James Benning, 2000-1)

 

ROUTE 181 – Fragments of a Journey in Palestine-Israel  (2003) / Eyal Sivan e Michel Khleifi

La migliore strategia di messa in scena del conflitto israelo/palestinese – fuor di manicheismo e alla ricerca del contraddittorio – è quella del disorientamento. Anche, e soprattutto, nel cinema degli ultimi 15 anni. Dall’indebolimento dei miti virili e autoritari d’Israele (il pioniere, il guerriero, vedi Policeman e il cinema popolare di Eytan Fox) alla "malincomicità", ovvero al gag che sa di nostalgia, perché giocato su luoghi che da familiari si fanno non-familiari, precipitati di una patria alienata, mai nata (da Elia Suleiman a The Exchange di Kolirin). C’è poi il cinema dell’utopia, quello che con il gesto cinematografico e il linguaggio tiene insieme ciò che la politica non può, come Ana Arabia di Gitai. Route 181 – Fragments of a Journey in Palestine-Israel di Eyal Sivan e Michel Khleifi è tutto questo, atto d'unione e disorientamento. Due registi insieme, il matrimonio di due sguardi: un israeliano che con i suoi documentari, dialettici e aggressivi, continua a slegare ebraismo e sionismo, reale e ideologia; un palestinese che ha portato il cinema della sua terra alla modernità, alla relativizzazione del punto di vista, tra cori, fiabe, sconfinamenti fiction/non fiction. E un viaggio, lungo una frontiera che non è mai esistita (181 è la risoluzione Onu che stabilì i confini tra Israele e Palestina nel 1947), che sfianca ogni discorso teorico nell’incontro con la prassi del cinema del reale, umiliando ogni narrazione storica e giornalistica, ogni cronaca televisiva, con le facce degli abitanti di quella linea sfinita, con le loro voci, con le loro testimonianze inattese, con un cinema che non s’è preparato null’altro che il tragitto, e che è sempre disposto a spostare il proprio sguardo, il proprio ascolto, per comprendere un paese scisso reale. [Giulio Sangiorgio]

> Z32 (Avi Mograbi, 2008)

 

WAR AT A DISTANCE (2003) / Harun Farocki

La prima fotografia accidentale che gli Alleati scattarono ad Auschwitz risale al 4 aprile del 1944, quando alcuni aerei americani decollati da Foggia e diretti verso l’allora Slesia sorvolarono il campo di concentramento polacco. Subito dopo gli analisti segnalarono un complesso industriale, ma non fecero alcun riferimento ai lager. Solo più tardi, negli anni Settanta, quando ormai il genocidio ebraico era entrato nell’immaginario occidentale collettivo e mediatico come “Olocausto”, gli americani si resero conto di possederne una documentazione fotografica aerea (Reality would have to begin, 1992). Per Harun Farocki questo episodio è la prova evidente di come un’ottima capacità di ricognizione possa essere accompagnata da un’effettiva cecità nel riconoscere le sembianze di ciò che si sta osservando a distanza. Erkennen und Verfolgen (War at a Distance, 2003) analizza le connessioni tra lo sviluppo della produzione industriale e tecnologica e le apparecchiature militari di distruzione, mettendo in primo piano il ruolo determinante che le immagini occupano in tale processo. Già durante la seconda guerra mondiale i missili guidati venivano dotati di un dispositivo fotografico che forniva una panoramica aerea del territorio nemico. Per Farocki documentare non equivale mai a una registrazione passiva e neutra, ma restituisce una precisa percezione del reale. Rendere visibile illuminando, mettendo bene a fuoco l’oggetto non è di per sé la garanzia di una sua effettiva comprensione, come testimoniano molti dei potenti dispositivi ottici che sono incapaci di vedere ciò per cui non sono stati programmati. La rappresentazione non è in questo senso un meccanismo scontato che garantisce la conservazione e la restituzione degli eventi ma può anche sancirne la distruzione. [Clio Nicastro]

> Materia oscura (Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, 2013)

 

BRIGHT LEAVES (2003) / Ross McElwee

Un'indagine sull'industria del tabacco nel North Carolina diventa il pretesto per un viaggio complesso e stratificato nella genealogia di famiglia del regista: il bisnonno John Harvey McElwee, fondatore dello storico marchio Bull Durham, è forse stato d'ispirazione per il personaggio interpretato da Gary Cooper in Le foglie d'oro di Michael Curtiz (1950)? Classicità hollywoodiana e amatorialità documentaria, epica dello stardom e film di famiglia trovano magica fusione nell'attimo in cui la mano di Patricia Neal si solleva a sfiorare quella del partner, per poi ritrarsi. Tra i film di McElwee è quello che esprime al meglio la modalità narrativa di cui è maestro: elaborare, attraverso binomi di contrasto, un pensiero interiore e personale che li contenga e sciolga; e, allo stesso tempo, servirsi dell'intimità di sguardo come una lente attraverso cui comprendere il mondo che lo circonda. Il documentario in prima persona, nella modalità elaborata da Pincus con il suo Diaries (1971-1976), trova nel lavoro dell'"allievo" pieno compimento e massima elaborazione, per mezzo di una straordinaria, e solo apparentemente disinvolta, capacità di racconto. Micro e macrocosmo si specchiano l'uno nell'altro, l'uno si fa voce del tutto, reggendo il filo fragile e sottile della vita e dei suoi misteri, regalando la fugace ma profonda impressione di un senso. Il film che, con il precedente Time Indefinite (1993), giustifica in pieno la considerazione del regista americano come "Proust del documentario". [Alessandro Stellino]

> Imatra (Corso Salani, 2007)

 

S21: THE KHMER ROUGE KILLING MACHINE (2003) / Rithy Panh

Secondo Slavoj Žižek, la differenza tra il leader nazifascista e il leader stalinista è che uno si bea degli applausi della folla, mentre l'altro applaude lui stesso, perché sa di essere nulla più che uno strumento nelle mani della Storia. Panh lo sa, e riesce miracolosamente a riadattare alla Cambogia di Pol Pot il presupposto lanzmanniano per cui lo sterminio nei campi è sterminio della memoria. Tutti vittime, in S21, inclusi i carnefici, all'epoca solo malleabili adolescenti. Ma è solo il punto di partenza. Nel film il discrimine vittima/carnefice si ricrea su un piano distinto da quello della Storia: quello della memoria. Attraverso un rigoroso, ossessivo, asciutto e incessante confronto visuale tra i documenti (veri o ricostruiti) della prigione di Tuol Sleng e i sopravvissuti, S21 ritraccia la linea. Da una parte i carnefici, gli esecutori dell'imposizione forzata della memoria, condannati a sopravvivere, a essere “nuda vita” a contatto con l'irreversibilità di un documento più vivo di loro. Dall'altra il sopravvissuto Vann Math, un pittore (ce n'è anche un altro, Chun Mey, ma al film non serve perché troppo emotivo, e, del tutto logicamente, il film lo fa subito sparire). Col decadere della Storia in mera registrazione determinato dal capitalismo (e dunque dai totalitarismi ad esso reattivi) si spalanca definitivamente l'abisso tra passato e presente. La salvezza è solo di chi getta un ponte tra i due, di chi sa giocare con quello scarto – con la pittura di S21 come con le statuine di terracotta de L'image manquante. [Marco Grosoli]

> Nostalgia de la luz (Patricio Guzman, 2010)

 

TISHE! (2003) / Victor Kossakovsky

In un'intervista, Jacques Tati tesseva l'elogio della distanza: «Rido molto di più se ho a disposizione una finestra aperta sulla strada», diceva. Victor Kossakovsky l'ha preso in parola: ha piazzato la cinepresa alla finestra di casa sua, a San Pietroburgo, e per un anno ha ripreso tutto quello che accadeva per la strada. D'accordo, il regista dichiara di ispirarsi all'Hoffmann de La finestra d'angolo del cugino, e si concede il lusso di citare, sui titoli di testa, la storica Vista dalla finestra di Le Gras di Niépce; ma quando appaiono gli scopini che spazzano i marciapiedi in accelerato e a ritmo di piano, il pensiero corre piuttosto alle comiche di Charlot. Ammiccamenti cinefili? Forse. Se però aggiungiamo che l'anno è 2002, e nella città baltica fervono i preparativi per il proprio bicentenario il gioco si fa un po' più serio. Gli operai che continuano a sfasciare il manto stradale per riaccomodarlo subito dopo, o che regolarmente ripuliscono le facciate degli edifici armati di idrante sintetizzano abilmente le contraddizioni di una Russia indaffarata a rendersi “presentabile” mentre, come accade in un'altra sequenza, la polizia massacra di botte un paio di fermati sotto gli occhi dei passanti. La “distanza” di Kossakovsky non è solo fonte di comicità, ma anche lucidità di giudizio. Il resto, come indica il titolo (“Tishe!”, “Silenzio!”: è l'esclamazione che chiude il film), è solo baccano. [Gabriele Gimmelli]

> Dreamland (Laila Pakalnina, 2004)

 

OH! UOMO (2004) / Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi

Quel che Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi fanno da quattro decenni è a tutti gli effetti un progetto scientifico (storiografico, certo, ma anche etico e umanista) condotto con una metodologia, una finalità e una visione d’insieme di ostinata radicalità: "vivisezione etica della visione", l’hanno definito in una vecchia intervista. La coerenza è tale che quasi ogni film funziona come una variazione sul tema della memoria storica delle immagini. Oh! Uomo (2004), terzo capitolo della trilogia della Grande Guerra – a seguire Prigionieri della guerra (1995) e Su tutte le vette è pace (1999) –, segue la regola: frammenti d’archivio (provenienti da cineteche, musei militari e istituti medici) rielaborati attraverso quella protesi dell’occhio che è la camera analitica scorrono, nel caso specifico, come “un catalogo anatomico della decostruzione e della ricomposizione artificiale del corpo umano”. I corpi dei soldati morti, degli orfani di guerra, dei mutilati, dei relitti di un conflitto che emerge in tutta la sua lampante dissennatezza sovrastano le marce e le liturgie e di queste deturpano la retorica patriottarda e autocelebrativa. Tra picchi d’orrore e moti di pathos, Oh! Uomo è pure una delle riflessioni teoriche più brutali sulla corporalità dell’immagine, i limiti del visibile, l’etica della visione, l’obbligo della memoria. Infine un'esperienza spettatoriale necessaria, soprattutto per le sequenze di fronte alle quali si distoglie lo sguardo. [Giuseppe Fidotta]

> Flashback (Herz Frank, 2002)

 

EAST OF PARADISE (2005) / Lech Kowalski

East of Paradise è il punto di non ritorno del cinema di Kowalski, un punto a cui tendeva fin dall'inizio: l'immedesimazione/sovrapposizione totale tra chi filma e chi viene filmato. "Gli altri sono me", realizzava il regista al termine del dolente viaggio lungo l'autostrada di Hitler qualche anno prima (On Hitler's Highway, 2002), dichiarando la natura di un cinema di appartenenza, solidale con gli oppressi e gli emarginati, che trova qui massima e definitiva espressione. Spaccato in due tra la testimonianza della madre polacca, deporta in un gulag sovietico sotto Stalin, e il resoconto degli anni della formazione del regista, che trova in ogni forma di opposizione al sistema linfa vitale e ispirazione per il proprio cinema, East of Paradise pone di fronte due storie speculari e opposte di sopravvivenza, resoconto unico e condiviso di una diaspora, di uno sradicamento che nessuno dei due avrebbe mai dimenticato. Formalmente sorprendente, lacerato nel mezzo, alterna la lunga testimonianza materna a un percorso autobiografico, umano e professionale, narrato sul montaggio libero, jazzato, di sequenze rimaste fuori dal precedente Gringo (aka Story of a Junkie, 1984), deriva di un tossico lungo le strade del Lower East Side pre-gentrification, schiantato da un destino che il regista scarta per un pelo. Kowalski lavora contro il suo stesso passato, contro il corpo della madre e contro il proprio; contro ogni forma di deportazione e altre barbarie che la Storia ripeterà sempre, consapevole che a est del Paradiso non c’è nessuna terra dove fermarsi. [Roberto Manassero]

> Tarnation (Jonathan Caouette, 2004)

 

GRIZZLY MAN (2005) / Werner Herzog

Herzog aveva confessato come la sua ispirazione fosse andata scemando con la morte di Klaus Kinski. Ora trova nell’ecologista Timothy Treadwell, che vive in simbiosi con gli orsi fino a esserne sbranato, un nuovo eroe romantico, successore degli Aguirre e Fitzcarraldo, capace di prestarsi ai ragionamenti del regista sull’ambiguità, matrigna o benigna, della natura. Il cinema documentario e quello di finzione di Herzog si alimentano a vicenda: nella realtà cerca e trova le sue storie, i suoi personaggi, tanto più intensi in quanto veri. Tutto si gioca sul cortocircuito tra uomo, natura, comunicazione, visione. Il sordo-cieco del Paese del silenzio e dell'oscurità abbraccia un albero, rifugio dell’assenza di visione e di dialogo con gli uomini, il profeta Hias di Cuore di vetro, punito perché vede il futuro, lotta con un orso immaginario e lo uccide. Herzog intavola un dialogo con la visione di Timothy, le sue riprese e la sua comunicazione ambientalista. Visione che si interrompe drammaticamente, lasciando un audio che pure rimane inascoltato. I limiti della visione sono ancora una volta i limiti oltre i quali l'umano non può spingersi, ma verso i quali tende incessantemente, in voli pindarici (L'estasi suprema dell'intagliatore Steiner, White Diamond), esplorazioni degli abissi sottomarini (Encounters at the End of the World) e di universi sconosciuti (L'ignoto spazio profondo). Come Ulisse, anche quando il richiamo delle sirene è il ruggito di un orso. [Giampiero Raganelli]

> Slow Action (Ben Rivers, 2011)

 

MATERIAL (2009) / Thomas Heise

“Durante le dittature si tratta di mettere da parte provviste nascoste di immagini e parole che mostrino quanto nelle dittature si vive sulla propria pelle, ma che non si vede o si ascolta immediatamente, per poi, quando le dittature non ci sono più, offrirne testimonianza”. Material è una raccolta di pezzi, frammenti che raccontano il passaggio dalla DDR alla nuova Germania unita. Dal 1988 al 2008. Il titolo del film è un riferimento alla pièce di Heiner Müller, Aufenthalt im Material (traduzione letterale “soggiorno nel materiale”). Un montaggio di materiale filmico, non tutto, non sempre filmato dallo stesso Heise. Il film inizia con le risate di bambini che giocano in un paesaggio di rovine dei primi anni Novanta, nel centro della città di Halle. Un’inquadratura non utilizzata di un altro film. 1988: Fritz Marquandt mette in scena Germania Tod in Berlin, il dramma di Heiner Müller. Lo sgombero delle case occupate della Mainzer Strasse. Le manifestazioni di massa di oltre un milione di persone raccolte sull’Alexanderplatz. I secondini e i detenuti della prigione di Brandenburg si offrono alla macchina da presa e alle domande di Heise. Frammenti. Immagini residuali che non sono resti, scarti: sono i fatti principali. Perché ciò che resta “assedia la testa”. Queste immagini “si ricompongono sempre in qualcosa di nuovo, rispetto a quanto era stato pensato all’inizio. Restano in movimento. Diventano storia. La forma risulta dal materiale. Ha a che fare con lo scavare. E poi c’è questa frase che non mi ha mai abbandonato: si può pensare la storia come lineare, ma è un mucchio. Il materiale resta incompleto. Ciò che ho conservato, è ciò che mi stava a cuore. La mia immagine”. [Giona A. Nazzaro]

> The Autobiography of Nicolae Ceausescu (Andrei Ujica, 2010)

 

EL SICARIO – ROOM 164 (2010) / Gianfranco Rosi

Ispirato a un lungo reportage del giornalista americano Charles Bowden apparso su Harper’sEl Sicario – Room 164 è il lungo monologo di un ex killer del narcotraffico messicano che racconta, confessandosi, il sistema in cui opera il Cartello sulla frontiera con gli Stati Uniti. Girato in due riprese nell’arco di pochi giorni e ambientato, su richiesta del protagonista, nel "luogo del delitto", la stanza di un motel nella quale hanno realmente agito il killer e i suoi complici, El Sicario rappresenta, per certi versi, un capovolgimento del metodo di Rosi. Quasi un istant-movie, in cui il regista è stato capace di restituire la verità di un personaggio e di un luogo nello stesso modo in cui è riuscito a raccontare l'esistenza di un barcaiolo indiano in quel di Benares, tra vivi e morti, e di una comunità di dropout in una depressione del deserto californiano in film realizzati nell’arco di dieci anni (Boatman e Below Sea Level). Ma qual è il metodo di Rosi? Come i migliori documentaristi, il regista non ama tracciare una netta distinzione tra cinema del reale e cinema di finzione. Rifacendosi al magistero di cineasti come Cassavetes, ciò che cerca è la vita dentro il cinema, la possibilità di restituire attraverso l’artificio di quest'arte un brandello di verità, ma non di verismo. In 80 minuti seguiamo la parabola biografica, umana ed emotiva di un uomo votato alla violenza e scampato al suo destino, ora braccato da tutti meno che da Dio, al “magistero” del quale si è rivolto. [Dario Zonta]

> Santiago (João Moreira Salles, 2007)

 

THIS IS NOT A FILM (2011) / Jafar Panahi e Mojtaba Mirtahmasb

La questione, qui e ancora, è quella della soglia: della linea sottile che separa l'immagine dalla realtà, la vita dalla rappresentazione. Panahi, costretto da una sentenza politica a tenersi lontano dalla macchina da presa, si affida al cinema come macchina della verità, per mezzo di un'opera che indaga un momento d'arresto e allo stesso tempo testimonia l'irriducibilità al buio o al silenzio dell'immagine e della parola. This Is Not a Film è una riflessione sullo sguardo – da quello zavattiniano delle prime sequenze alla cesura forte dello sguardo in macchina, con cui il regista stesso ammette, a noi e, dolorosamente, a se stesso, la necessità di 'gettare il gesso' ("se fosse possibile raccontare un film che senso avrebbe girarlo?"). Ecco che il cinema diventa, da speculum mundi, soglia da superare, macchina che cerca il reale attraverso le immagini: quelle dei suoi film precedenti, e quelle riprese ora dall'amico Mirtahmasb, e – infine – quelle che lui stesso, di contrabbando, ruba alla notte persiana. Nel tentativo di evadere dal non-film in cui è imprigionato, Panahi spoglia il film del falso statuto di opera documentaria per trasformarlo in opera di finzione sulla verità del cinema. Si riscopre come sguardo, vivo, inquieto e umano: uno sguardo che non può fare a meno di spingersi fin sulla soglia. Il film si chiude su un cancello socchiuso, limitare tra set e realtà. Oltre, fuori campo, riecheggiano spari. [Pasquale Cicchetti]

> Arirang (Kim Ki-duk, 2011)

 

LEVIATHAN (2012) / Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor

I mostri marini non si danno mai a vedere per intero: la loro immagine si costruisce per avvistamenti incerti, parziali, inaffidabili. Così nascono le leggende e così Leviathan è stato osservato da varie angolazioni, sollevando clamori e perplessità; ma resta una creatura sfuggente, terrificante e astuta: un film viscerale e impersonale, immerso nelle turbolenze della materia quanto studiato nella sua orchestrazione impressionistica. Il mostro biblico del titolo s’incarna nella brutalità tecnica di un peschereccio, che ingoia e macella vita marina al largo delle coste del Massachussets, descritto con un lirismo altrettanto brutale e bulimico, puntando sfacciatamente al sublime, a un rumore cosmico che coincide con l’indifferente mutismo della natura. La scommessa di una “etnografia sensoriale”, di una conoscenza che passi per i sensi, senza ignorare la loro mediazione tecnica, conduce a una radicale rinuncia al didascalismo, fino ad arrivare all’auto-accecamento autoriale: gli occhi cavati e dispersi in una manciata di piccole GoPro, rotolate, tuffate, scagliate in ogni direzione, divincolate dall’umano e lasciate a captare frammenti del moto perpetuo di flutti e macchine, che fa di tutti gli esseri, prede e predatori, le brevi comparse di un horror oceanico. In un crepuscolo perpetuo, squarciato dai colori saturi della bassa definizione e avvolto nelle raffinatezze del sound design, si leva un volo di gabbiani: difficile capire se stiano celebrando o lamentando questa tremenda libertà. [Tommaso Isabella]

> Les tourmentes (Pierre-Yves Vandeweerd, 2014)