“What is that makes a life function and move forward?”
Vedere un film di Lisandro Alonso è prepararsi a uno sguardo che proviene da un altrove, sia esso l’oltretomba de Los Muertos o una terra abbandonata ormai relegata allo stato tombale. Il cinema, nelle mani di Alonso, è specchio/lente di una non esistenza, tecnica di ricomposizione di un impossibile stato delle cose. Senza bisogno di ribadirlo – ci ha già pensato a sufficienza il regista argentino – il cinema è un fantasma, una proiezione di qualcosa che non c’è e che non è mai stato. Il suo ultimo lavoro, Jauja, seppur con una molteplicità di differenze stilistiche e narrative, si pone nel solco di tale riflessione, iniziata più di una decade fa con La libertad. Jauja non è solo il viaggio del disperato capitano Gunnar Dinesen alla ricerca della figlia e non è nemmeno il resoconto, folle e sottratto, della guerra del deserto (genocidio delle popolazioni indigene avvenuto verso la fine dell’ottocento in Argentina), ma è un impossibile tentativo di modificare radicalmente la struttura del racconto cinematografico. Ripiegato come un nastro di Moebius (in un ciclo passato-presente-futuro-passato), Jauja è un viaggio al confine della cosa cinematografica, di cui abbraccia la storia linguistica dal muto a oggi.
Nell’anno che ha visto Xavier Dolan utilizzare l’estetica ultra-contemporanea del selfie (parola ormai svuotata dal logoramento mediatico) quale paradigma estetico/interpretativo del suo Mommy, Lisandro Alonso, coadiuvato da Timo Salaminen per la prima volta lontano da Kaurismaki, porta il cinema nei territori arcaici del dagherrotipo fotografico e della pittura naturalista. Jauja infatti non è un film elaborato per sottrazione, ma un lavoro che eleva l’elemento della latenza a cifra poetica. Il senso – forse per la prima volta direzionale – è tutto lì davanti agli occhi dello spettatore, nella contemplazione dei paesaggi e nelle poche note di chitarra distorta di fronte a una notte stellata.
Il film non è reciso, non è lo spettatore a dover ricomporre o ricreare, ma è completamente disposto al di sotto del testo cinematografico. Sullo sfondo del film di Alonso si possono trovare un’infinità di referenze all’ambito culturale argentino e iberico. Dalla già nominata Guerra del deserto, al Quijote, dal Martín Fierro alla letteratura fantástica di Adolfo Bioy Casares e Jorge Luis Borges. Alfiere di un cinema geroglifico e paradossale, Lisandro Alonso sembra aver aperto la scena a un cineasta-demiurgo (un altro Alonso?) che muove, altera e nasconde il mondo da lui stesso creato. Se fin qui, da La libertad a Liverpool, l’opera del regista argentino avrebbe potuto essere letta come una sorta di viaggio etnoantropologico, in un mondo animato da uomini soli di fronte all’ineluttabile forza della natura, Jauja ribaltato il paradigma ponendo un uomo di fronte a un destino scritto. Al racconto la cui ricomposizione era impossibile per sottrazione, si sostituisce la poetica della latenza, dove ogni oggetto diventa portatore di un coagulo di storie altre, in cui i tempi e gli spazi si modificano secondo un’esigenza per la prima volta narrativa (anche se non convenzionale), in cui l’esistenza stessa del paradosso – non più morte/vita ma presente/futuro – non è relegata a una lettura possibile, ma si situa nella cesura di un montaggio, in un prima e un dopo dell’immagine cinematografica. Sempre in un meccanismo di latenza, Jauja si dimostra essere il film più “di genere” dell’intera filmografia di Alonso; fino al punto da poter essere considerato un western occulto, in cui si ripercorrono topos – seppur translati geograficamente – di un intero sistema hollywoodiano: dal rapimento della figlia di Sentieri Selvaggi alla guerra ai nativi, per arrivare al Cuore di tenebra di Kurtz/Zaluaga.
Ma la novità di Jauja è appunto l’apertura della scena all’altrove – non più demandato al solo spettatore – ma posto sulla scena, all’interno della narrazione. In contemplazione davanti alle stelle, in una scena dai toni esplicitamente danteschi, il comandante Gunnar Dinesen si trova a vivere la notte nera del mistico, in uno sguardo che si trasforma in impossibile raggiungimento della Jauja del titolo. Quello dell’ultimo film di Alonso è un cinema che aspira alla scrittura (dichiarato esplicitamente anche nella lettera per Albert Serra, in cui compare anche lo sceneggiatore di Jauja Fabián Casas), in cui il fantasmatico viene declinato in tutte le sue forme letterarie: il religioso, il romanzesco, il meta-narrativo. Il formato fotografico stesso, che trasforma il film, scena dopo scena, in un dagherrotipo più che in un fotogramma, richiama proprio quell’esistenza extra-mondana cercata dagli spiritisti nei primi processi fotografici. Uno spiritismo non teologico o religioso, ma artistico. Il cinema per rivelazione, sembra dire Alonso, può abbracciare una storia – o forse tutte le storie – e restituirle per invenzione, mentre gli esseri umani, oggetti sbattuti attraverso le ere, come il soldatino di legno – ironico simulacro di un’umanità oggettivata – attraversano il loro tempo senza lasciare alcuna traccia. L’invisibile Zaluaga, Gunnar Diensen, la giovane Ingeborg, scompaiono tutti dalla scena. Forse sui titoli di coda sembrano rieccheggiare i versi del poeta (e sceneggiatore di Jauja) Fabián Casas: A las cosas no les importan los mortales. / Ayer encontré esa foto / que ni recordaba, / y te juro que parecíamos tranquilos / en ese simulacro del papel y de la luz.