"Non faccio film per ricordare, faccio film per dimenticare" (Pedro Costa)
Ho cominciato con grande passione, con il desiderio di scoprire le cose, amando il cinema di John Ford, di Eisenstein… Ora le cose sono cambiate: vedo sempre meno film, e non perché il cinema mi piaccia di meno ma perché sono stanco dalle cose che vedo e che ho visto negli ultimi anni. Sono più selettivo, vado poco al cinema e guardo i film a casa. Di questa decadenza siamo tutti responsabili, in particolare i produttori e i festival, ma anche noi registi.
Ho cominciato in una scuola di cinema, ma mi sono fermato dopo solo due anni perché poi ho cominciato a lavorare. Non ero giovanissimo, avevo già terminato i miei studi di storia, avevo 23 anni e non ero un cinefilo. Non che non avessi l'abitudine di andare al cinema: ci andavo fin da quando avevo 13, 14 anni, spesso da solo, in un'epoca in cui si poteva vedere più volte lo stesso film con un solo biglietto, semplicemente rimanendo in sala. Oggi questo non è più possibile, forse solo nei cinema a luci rosse, ma non ne sono sicuro…
Credo che succeda a tutti, ma ho capito molto presto quali film erano i "miei" film e ancora adesso sono segnato da quei primi incontri, da quelle primordiali storie d'amore che ho avuto con il cinema. Sto parlando del cinema americano classico. Un'era che sembra lontanissima, caratterizzata da un altro mestiere e da altre relazioni umane, più democratiche, forse… Ho fatto qualche corto, cose di poco conto, poi ho esordito con un lungometraggio che ha avuto subito un discreto riscontro. Il classico film d'esordio, lo definirei: in bianco e nero, infuso di romanticismo, in cui omaggiavo il cinema che amavo, una storia di notte e infanzia… Poi ho fatto il secondo film, e poi il terzo, e al momento di cominciarli mi sentivo già in pieno panico, perché mi rendevo conto che non era quello che volevo… Si trattava di qualcosa che aveva più a che fare con l'economia, con circostanze materiali, che con l'arte. Non riuscivo a capire cosa accedesse intorno ai film, durante le riprese e poi dopo. Quello che non riuscivo ad accettare, in particolare, era il lusso… Non capivo che senso avesse passare 6 o 7 settimane in quel mondo, servito e riverito, se poi la mia vita era di tutt'altro tipo e l'appartamento in cui vivevo ben diversi dagli alberghi in cui pernottavo durante le riprese… Il mio produttore era una persona molto famosa, Paulo Branco, gli attori erano lì solo per i soldi, e durante le giornate non si faceva altro che parlare di soldi, di calcio, di donne… Così le mie idee romantiche si sono scontrate con tutto questo, la mia concezione del cinema si è dissolta a confronto con la realtà dell'industria… Allora, dopo questi 3 film, la prima cosa ad andarsene è stata la passione, la ragione alla base di tutti i motivi per cui mi piaceva fare cinema. Ho rimesso in discussione tutto ciò che desideravo. Mi sono fermato, e ho deciso di ritornare dove avevo cominciato. A Jean Eustache: alla camera e al treppiede. Così ho comprato la videocamera più economica che ho trovato, mi sono trasferito in un altro quartiere ed è ancora là che vivo. Ora faccio la vita che desidero fare, con le persone con le quali amo stare.
Quasi tutto può essere fatto con il digitale: il digitale mi ha aiutato molto a ritrovare la mia strada (e sono certo che anche Lav Diaz può affermare la stessa cosa). Fare cinema con il digitale, almeno nella maniera in cui lo faccio io, può essere più doloroso, perché comporta una dose maggiore di solitudine, di sacrifici, ma a me non importa perché mi ha condotto a vivere finalmente la vita che volevo. Non dico di essere felice, di me stesso e del mondo che mi circonda, questo no, ma ho capito in che direzione deve andare il mio cinema, e di conseguenza la mia vita.
Faccio sempre quest'esempio, perché riguarda uno di quei momenti significativi che ti accadono poche volte nella vita. Stavo girando il mio terzo film e avevo una troupe molto ampia, decine e decine di tecnici, si girava in 35 mm. Ci trovavamo nel quartiere dove ho ambientato tutti i miei ultimi film, e questo in particolare veniva girato quasi esclusivamente di notte. Non è semplice adattarsi ai ritmi di una zona la cui popolazione si sveglia presto perché si tratta di gente povera, che si sveglia molto presto per andare a lavorare. Improvvisamente, da una di queste casupole spunta fuori un uomo con una pistola e ci impone di smettere di girare, dicendo che le luci e i rumori gli impediscono di dormire. Non so se avete presente, ma i set di questo tipo hanno un ché di militaresco, con tutto quel dispiegamento di forze, gli ordini urlati con l'altoparlante e persino il nastro a strisce che si usa per recintare i luoghi del crimine. A quel punto mi sono reso conto di avere due possibilità: potevo dargli dei soldi per convincerlo a farci andare avanti oppure dovevo spegnere le luci e fermarmi. E ho scelto di spegnere le luci. Ho detto al mio direttore della fotografia che avremmo usato delle luci diverse e lui ha accettato, nonostante le enormi perplessità iniziali. Da quel momento ho intrapreso un percorso a favore della progressiva liberazione di tutto ciò che appesantiva il mio modo di fare cinema. Dopo questo film sono tornato in quel quartiere e ho fatto un film praticamente da solo, ed è ancora il film in cui mi riconosco di più, nel quale ogni elemento è al proprio posto, nonostante sia un film molto complesso e doloroso.
Ecco perché continuerò a fare cinema in questo modo, perché adesso è l'unico modo possibile in cui riesco a fare cinema. Fare film come li fa Straub. Naturalmente bisogna trovare le persone giuste, i giusti collaboratori, come Jeanne Balibar, l'attrice e cantante che ha lavorato anche con Assayas, Rivette e Ruiz. Lei sarebbe potuta essere in qualunque mio film. Isabelle Huppert no, invece, e dico il primo nome che mi viene in mente. Tutto il resto non mi interessa e anche se ci sono registi convinti che questo mondo stia ancora andando avanti, che la macchina stia ancora girando e che il cinema stia progredendo – intorno a me sento attori, produttori convinti di questo -, io non credo. Credo che ci resti solo da vivere quest'ultimo periodo. È faticoso, per me si tratta di sopravvivere fino al prossimo film. Ma forse è il cinema stesso che non vuole morire, che si sforza di non morire.
(dichiarazione raccolta a Locarno, agosto 2014)