I personaggi a cui ci ha abituato Ulrich Seidl si muovono alla luce del sole: intrappolati nelle geometrie centrali, su cui si costruisce l'estetica del regista, uomini e donne rivelano il proprio problematico rapporto con se stessi e con il mondo, illuminati dal sole estivo (l'indimenticabile Canicola) o dal candore invernale (il meno conosciuto, ma altrettanto potente, Import/Export). Certo, Seidl è anche un ritrattista d'interni, non a caso le prime inquadrature di Im Keller, quelle più dichiaratamente pittoriche, aprono un parallelo con la luce dei fiamminghi, capace di rubare l'attimo alla dittatura dello scorrere del tempo, di ricontestualizzare un luogo comune sugli austrici in una dimensione altra, allusiva di un percorso storico e di una colpa che divora lo spirito. Così le cantine degli austriaci, luogo per eccellenza del rimosso, si aprono a collezioni talvolta apparentemente inoffensive, altre volte troppo palesemente inquietanti per esserlo veramente.
Ed è questa la sapienza di Seidl, attento tratteggiatore di caratteri umani, talvolta deboli e sfuggenti: saper trasformare l'innocente in angosciante, il disturbante in innocuo, secondo una serie di contrappassi che superano le barriere del genere per far emergere un mondo fatto di carne e sangue, in perenne conflitto con idee preconcette e con semplicistiche categorizzazioni.
Dopo aver mostrato le superfici delle ville austriache in Canicola, con Im Keller scende nei seminterrati, nelle cantine di quelle stesse abitazioni, si potrebbe dire. Come le è venuta l'idea di compiere questo passaggio?
L'idea mi è venuta proprio mentre stavo lavorando a Canicola: era un momento in cui ho visitato molte ville in Austria e mi ero reso conto che spesso le cantine e i seminterrati erano arredati in maniera più accurata degli appartamenti stessi. Non solo: mi pareva di capire che gli austriaci passassero più tempo là sotto che nella parte superiore della casa… Mi è sembrata immediatamente un'ottima idea per un film. Sono convinto che le case, già a partire dalla loro facciata, rivelino tantissimo di chi le abita. Poco tempo dopo, inoltre, sono emersi quegli orrendi fatti di cronaca che hanno rafforzato la mia idea riguardo gli scantinati come luoghi dell'inconscio e del rimosso, ambienti che spingono a inevitabili associazioni con l'oscurità, la paura, l'essere rinchiusi e gli abusi. A me, comunque, non interessava raccontare questo versante "criminoso" quanto esplorarli in quanto luoghi in cui si coltivano ossessioni.
Come ha incontrato le persone che ha scelto di filmare? Si è trattata di una ricerca molto lunga?
Evidentemente una delle difficoltà del film era proprio capire come trovare persone disponibili a mostrare aspetti così particolari della loro vita privata. Sarebbe stato molto più semplice se avessi deciso di filmare gente che riempie le cantine di modellini di aerei o di oggetti fatti a mano, ma se cerchi persone che si prestino a esplorare il lato oscuro dell'uomo, il suo abisso interiore, ciò che è nascosto, il processo si fa molto più lungo e complicato. Allo stesso tempo, se intraprendi questo viaggio di ricerca con convinzione e perseveranza, e ti dai anche il tempo necessario a portarlo a compimento, senz'altro andrà a buon fine. Inutile dire che, in parte, si tratta anche di fortuna: si entra in contatto con qualcuno che ti parla di qualcun altro e questo qualcun altro poi ti fa conoscere qualcun altro ancora, e così via. Abbiamo pubblicato annunci e distribuito volantini, per intensificare il lavoro di ricerca. Per fare un esempio, è proprio così che sono arrivato all'uomo con la cantina piena di cimeli nazisti. Ho visitato anche scantinati trasformati dai loro proprietari in rifugi antinucleari… In ogni caso non faccio mai tutto in una volta sola, vale a dire che non mi presento a casa di un estraneo con la pretesa di mettermi subito a filmare. Inizialmente ci trascorro diverse ore, magari anche un'intera giornata, e solo in seguito comincio a girare; questo tipo di approccio crea un senso di fiducia, dà vita a una relazione che è fondamentale per la buona riuscita del progetto, anche perché, come potete immaginare, ci sono cose che la gente può non essere disposta a raccontare o mostrare la prima volta che la incontrate ma le rivela solo in seguito, quando si è stabilita una confidenza, una fiducia di fondo.
Come al solito ammiriamo il suo lavoro nella composizione dell'inquadratura e nella scelta dell'illuminazione. Utilizza sempre la luce naturale?
In genere lavoro con una troupe molto ridotta. Ho cercato di rispettare questo assunto anche nella trilogia Paradise, e quanto alla luce, sì, mi servo più che posso di quella naturale. Lavoro alla composizione dell'inquadratura nella maniera più elementare possibile, non ho segreti al riguardo: osservo la scena e decido dove mettere la macchina da presa, senza grandi complicazioni. In questo film non ho praticamente mai usato la camera a mano e ho cercato sempre di costruire dei veri e propri tableau con l'inquadratura. Infatti mi verrebbe da considerare Im keller non tanto un documentario quanto un film saggio.
Nel film, e in genere nel suo cinema, lei mostra aspetti della vita e della società che vengono normalmente considerati pericolosi, ma lo fa spingendo spesso al sorriso, anche se a denti stretti. Ci verrebbe da chiedere se lei ritiene che nella società attuale non c'è niente che si debba considerare pericoloso perché qualunque estremismo è riconducibile alla natura umana e come tale può essere empaticamente compreso?
Credo che le persone che compaiono nel film siano individui con i quali lo spettatore può identificarsi, senza operare una sorta di blocco che li terrebbe a distanza, con la consapevolezza che non hanno niente a che fare con chi guarda. Per me rappresentano una sorta di campionario medio caratteristico della nostra società. Credo che queste persone abbiano i loro lati oscuri proprio come li abbiamo noi tutti. Non ho pregiudizi nei loro confronti, non sono razzista o sessista: molti di noi hanno dei desideri sessuali reconditi o amano esercitare il potere sugli altri, in tanti modi diversi, ed è questo a rendere possibile l'identificazione tra il pubblico e i personaggi del film.
Pensa che il cinema possa ancora essere sovversivo nel suo linguaggio o nei temi che tratta?
Credo che il mondo in cui viviamo oggi sia pieno di argomenti da sviscerare, situazioni che andrebbero trattate e il cinema fa poco in questo senso. Troppi film si adeguano pedissequamente agli standard commerciali e alle apparenze della superficie, per rendere più semplice la vita allo spettatore, impedendogli di porsi domande importanti sulla società in cui vive. Sono davvero pochi i registi che hanno il coraggio di esporsi, confrontandosi con le problematiche più profonde di quest'epoca, e ciò riguarda l'arte in genere. Molti dei registi che mi hanno formato sono italiani, ad esempio, e se penso al cinema italiano di oggi vorrei davvero che ci fossero più registi come Rossellini, o i tanti della commedia amara degli anni '60. La mia impressione è che tutta l'arte stia subendo una tendenza accomodante nei confronti dei fini commerciali e abbia perso il proprio valore e significato profondo.
Venezia, settembre 2014