Ci piacerebbe cominciare con una domanda relativa a Sils Maria. Come mai ha scelto quest'ambientazione e quanto è legata al discorso di Nietzsche sull'eterno ritorno, concepita proprio in quei luoghi?
È sempre un po' complicato raccontare la genesi di un film. Il film ha preso il via dalla volontà di Juliette (Binoche, ndr) di fare un film insieme. Ci ho pensato e ho capito che mi sarebbe piaciuto utilizzarla come un personaggio, facendo quello che avevo fatto con Maggie Cheung in Irma Vep, muovendomi su una linea molto sottile tra finzione e realtà, tra la percezione che ho io, o che ha il pubblico dell'attrice Juliette Binoche, e ciò che accade sullo schermo o ha luogo in una sceneggiatura. Non ero ancora molto certo di dove, come e quando ambientare il film ma proprio in quel periodo sono andato in Engadina, in montagna, con alcuni amici che ci vanno ogni anno. Lì ho assistito a questo fenomeno meteorologico delle nuvole in transito e l'ho trovato molto bello, affascinante, ma per un po' non ci ho più pensato. Fino a quando, qualche mese dopo, ho visto il film di Arnold Franck con Leni Riefensthal, Storm over Mount Blanc, e sul dvd c'è un extra con un cortometraggio, Il fenomeno nuvoloso di Maloya. Mi sono reso conto che quelle nuvole che avevo visto erano particolari, dotate di una loro storia, e che, contemporaneamente, le stesse nuvole che avevo visto io le aveva filmate un secolo prima Arnold Franck, e prima di lui erano state osservate da Nietzsche, da Segantini, da Rilke… La stranezza di questo fenomeno non aveva solo a che fare con il guardare delle nuvole in transito ma soprattutto con l'impressione di essere guardati da esse. Pareva di trovarsi al cospetto di un paesaggio abitato dal passato, da fantasmi, o dalla sensazione del tempo passato, del tempo fuggito. C'era, dunque, una connessione poetica forse difficile da spiegare, ma che mi sembrava ovvia, tra la storia che volevo costruire intorno a Juliette e questo paesaggio.
Sils Maria ci sembra avanzare una riflessione molto acuta sulla contemporaneità. In particolare, il film è sottilmente attraversato dall'idea che i social network, Google, etc, abbiano un impatto enorme sul divismo e ci incuriosisce la maniera in cui i personaggi di Chloe Moretz e quello di Kristen Stewart si scambiano i ruoli rispetto a quelli che dovrebbero interpretare, all'interno di un ulteriore scambio, o gioco di specchi, che attraversa l'intero film.
In un film c'è sempre qualcosa che puoi controllare e qualcos'altro che non puoi controllare. Io credo a quello che non puoi controllare del tutto, come se venissero messi in moto elementi che poi prendono vita propria. La mia sceneggiatura è abbastanza semplice: ci sono pochi personaggi, c'è un dramma, ci sono le ripetizioni del dramma e c'è un eco tra il dramma e ciò che vivono le due donne. Il resto ha a che fare con quello che viviamo oggi. Non c'è niente di ideologico, da parte mia, davvero: credo che senza questi schermi riflettenti il film non sarebbe contemporaneo, sarebbe un film diverso, ambientato in un'altra temporalità. Avendo fatto consecutivamente due film sugli anni '70 ci tenevo ad ambientare quest'ultimo nel presente, con al suo interno tutti i dispositivi che regolano le nostre vite. Così quando racconto la vita e la professione di un'attrice non posso fare a meno di raccontare la relazione di questa donna con la propria immagine. Tutte queste attrici hanno una relazione con il loro avatar su internet, per così dire, ma poi quando a Juliette si aggiungono i personaggi di Valentine e Joanne si aggiunge anche un'altra dimensione, relativa alla percezione che abbiamo noi di queste attrici. Ha dunque luogo un gioco di specchi che io finisco per non controllare più di tanto. Certo, decido di dare a Kristen una parte diversa rispetto all'immagine che abbiamo di lei e a Chloe quella più vicina all'idea che abbiamo di Kristen, ma si tratta quasi di una logica improvvisata che mi porta in questa direzione. Perché a un certo punto pensavo di dare a Kristen il ruolo di Joanne ma lei ha insistito molto per fare Valentine e aveva ragione, benché io non ne fossi del tutto sicuro. Trovavo l'idea interessante ma non pensavo che ne fosse capace. Questo provoca quindi una serie di cortocircuiti tra i diversi elementi del film che mi sono limitato a osservare da spettatore. È molto interessante quando gli elementi del film acquistano vita autonoma e conducono l'opera altrove.
C'è una scena, nel film, in cui il personaggio interpretato da Kristen Stewart ha uno scontro verbale con Maria riguardo i blockbuster. Maria, in quanto attrice, li interpreta ma è sostanzialmente contraria a questo genere di film. Visto che Sils Maria è anche un'interessante indagine sul cinema di oggi, qual è la sua posizione nei confronti del cinema d'intrattenimento americano di grande consumo?
Mi ritengo capace di apprezzare e capire quello che è moderno, originale e stimolante in un blockbuster e allo stesso tempo posso condividere la visione ironica di Maria perché questi film sono anche molto ripetitivi, in maniera quasi ossessiva, e ad essere sorprendenti a volte sono solo le tecniche degli effetti speciali, così i film diventano showcase di tecnica e di effetti speciali. Ma d'altra parte sono sempre stato interessato al cinema di genere, al cinema di "serie b", ho sempre trovato cose profonde e innovative nel cinema fantastico, o low budget. Quella scena in particolare per me era importante perché i due personaggi guardano lo stesso oggetto e hanno entrambe ragione: la differenza tra loro è una questione generazionale, e per me è davvero il momento del film in cui il tempo si materializza nella maniera più evidente, precisa.
Oltre che grande cineasta, lei è stato grande critico: esperienze come quella di cui ha scritto e parlato più volte, della scoperta del nuovo cinema, implicava uno spostamento fisico, un lavoro di ricerca concreta, potremmo dire manuale. Oggi lo scenario è completamente mutato e, di fronte a un'accessibilità pressoché totale, con la globalizzazione che arriva ovunque o quasi, è necessario ripensare tale ruolo? Vale a dire: la globalizzazione rappresenta un limite o una nuova possibilità?
La vedo come una cosa stimolante. C'è stato un periodo in cui si aveva l'impressione di trovarsi davanti a una nuova frontiera del cinema, una frontiera tecnica, con la scoperta dei nuovi effetti speciali alla fine degli anni '70, e dopo il successo di Star Wars, Hollywood, che era in crisi profonda, ha trovato nella possibilità di fare film su quel modello tecnico, la chance di reinventarsi. La nuova frontiera era quindi definita in termini tecnici e la tessitura dei film mutava in modi che non erano mai stati sperimentati. Si era quindi venuto a creare un nuovo spazio per parlare di cinema, definito ulteriormente, in seguito, della rivoluzione digitale. Per me, i due passaggi sono strettamente connaturati, l'uno la conseguenza dell'altro, nel senso che tutto era più o meno detto dal momento in cui c'è stata questa presa di potere da parte della tecnica, degli effetti speciali. Quello che voglio dire è che non parlo solo di effetti speciali in termini tecnici ma li considero in un'ottica per cui, grazie ad essi e per mezzo di essi, tutto poteva essere ripresentato, riformulato, e ciò riguardava anche cose che fino a quel momento non erano immaginabili. Anzi: la verità è che non c'era più limite a quello che il cinema poteva rappresentare. Abbiamo quindi assistito all'apertura del cinema nei confronti di storie, luoghi e personaggi inediti e, simultaneamente, ha avuto luogo un'estensione territoriale del cinema, perché a un certo punto, all'inizio degli anni'80, il cinema asiatico si è palesato in tutta la sua ricchezza, con la necessità di una cartografia del cinema di Hong Kong, la scoperta del cinema taiwanese e tailandese; in seguito abbiamo assistito alla riconnessione di tutti i circuiti di circolazione del cinema, in un processo che porta fino a oggi, in cui tutto è visibile contemporaneamente. Prima, un film tailandese o di Singapore arrivava faticosamente, dopo due anni, anche più. Ora siamo contemporanei alla totalità del cinema. Voglio dire quindi che queste tre questioni – effetti speciali, rivoluzione digitale, estensione territoriale – sono arrivate più o meno a un traguardo e quindi c'è l'obbligo per la critica di ritornare a una riflessione sul medium, di un aggiornamento teorico su che cos'è il cinema e cosa non lo è, qual è la sua specificità, cosa vuol dire guardare un film in una sala cinematografica, qual è la relazione tra il reale e l'immaginario, la questione della costruzione dello spazio cinematografico. Tutte le questioni eterne della teoria artistica. Oggi dobbiamo essere coscienti del momento storico in cui ci troviamo e riconoscere che c'è un'apertura immensa per ripensare il cinema. La riflessione estetica e teorica è diventata una questione accademica, e quando la riflessione teorica si fa accademica diventa ideologia. Oggi bisogna confiscarla all'accademia per restituirla alla critica e alla sua azione di pensiero.
Riguardo questo discorso: in un momento in cui tutto è visibile, disponibile in maniera simultanea è anche più difficile creare dei percorsi critici, in particolare per le nuove generazioni, che soffrono di un enorme spaesamento e rischiano di sentirsi perdute. Allo stesso tempo non si può negare che ci sia una contrazione del mercato e della distribuzione, tendente all'omologazione del prodotto commerciale. Che ruolo hanno i festival, se ce l'hanno, al fine di contrastare questo meccanismo?
Il ruolo dei festival è importantissimo, perché essi contribuiscono a tenere in vita la riflessione artistica sul medium. Un festival come Locarno, ad esempio, opera un'azione più sofisticata al riguardo, perché gli altri festival sono diventati troppo grossi, come Toronto, dove c'è tutto, o Cannes che è molto formale, protocollare, e lascia poco spazio all'innovazione, alla modernità e ai rischi che si prende il cinema più artisticamente impegnato. Spesso c'è un'ufficialità soffocante, in questi festival…. I festival hanno oggi un ruolo molto importante, nell'innovazione. Dieci anni fa, venti anni fa si dipendeva dal festival per la carriera internazione dei film, perché i distributori internazionali compravano i film durante i festival, e c'era veramente l'opportunità di vedere tutto. Oggi i film non si vendono più, ai festival, si vendono prima dei festival. Diciamo che se possiedi una certa visibilità, più o meno tutti i distributori hanno già visto il tuo film e vengono a Parigi o a Roma per vederlo, perché vogliono la priorità. Quindi, non è più una cosa essenziale, anche nei termini di distribuzione all'estero del film. Oggi la cosa importante è che i festival devono essere dei luoghi di riformulazione dell'arte cinematografica contemporanea, il loro dovere è quindi quello di assumere dei rischi e solo pochi festival lo fanno.
Pensando anche alla teoria dell'eterno ritorno di Nietzsche e di Sils Maria, la concezione ricorrente che il cinema sia morto non ha, forse, più a che fare con la difficoltà da parte della critica di interpretare questi segnali di cui lei parla?
Assolutamente. L'idea della morte del cinema è un momento dell'evoluzione artistica del 20° secolo: il momento della morte del cinema ha a che vedere con l'avvento della postmodernità. Per me è il momento in cui si perde definitivamente la visione ingenua del cinema, quella che definisce il cinema classico in cui il film comincia, la storia ha un'evoluzione piuttosto lineare e poi termina con la scritta THE END. Possiamo dire che c'è stato un momento classico, quindi, primitivo, poi superato dal cinema moderno, dalla reinvenzione del cinema che si fa specchio della sensibilità di un'intera generazione, quella della nouvelle vague in Francia e dei suoi epigoni nel mondo. Una generazione il cui desiderio di radicalità era definito dalla modernità del cinema. A un certo punto anche questo cinema moderno ha avuto la sua fine e i cinefili di questa generazione hanno sentito di rappresentare, anche in termini hegeliani, la fine della Storia. Come Francis Fukujama: si capisce che un mondo sta finendo ma non che un altro sta cominciando. È sempre stato così, la storia dell'arte è ciclica. Se leggete Wölfflin vedrete che spiega benissimo che c'è un'età classica, poi un'età barocca e dopo l'età barocca si ritorna al positivismo. La problematica della fine della Storia e della morte del cinema, secondo me, definisce il momento in cui nasce la postmodernità e la questione è allora sapere cos'è o è stata la postmodernità. Io, credendo in un'idea rosselliniana del cinema, inteso come riproduzione di un mondo, credo che la postmodernità possa diventare ora un nuovo primitivismo. O almeno, questo è il modo in cui io tendo a considerare il mio cinema.
Dunque possiamo dire che lei conserva un grande entusiasmo nei confronti del cinema e delle sue possibilità?
Per me il cinema è un'arte e una tecnica, come la pittura e la musica. Non sono tanto interessato alla storia del cinema ma al cinema come modo di riprodurre la realtà. La realtà cambia sempre e quindi ci sarà sempre cinema da fare in relazione al presente. Come in pittura rimarrà sempre pertinente dipingere un albero perché la sua bellezza è universale e attraversa la storia dell'umanità, non può essere in alcun modo negata, così al cinema sarà sempre possibile filmare un albero, un volto, come fosse la prima volta.
Locarno, Agosto 2014.