«Questa storia è la memoria di un cataclisma. Questa storia è la memoria del mio paese»: sono le parole in voce off del regista, che echeggiano come un epitaffio nell’ultimo film di Lav Diaz, Mula sa kung ano ang noon (From What Is Before), vincitore dell’ultimo Festival di Locarno. Abbiamo incontrato il cineasta filippino durante il festival.
La prima cosa che vorrei chiederti riguarda la location del film, un paesaggio aspro, dai forti contrasti materici. Come l’hai scelta?
Avevo già preparato uno script prima di cominciare, ma naturalmente l’ho revisionato durante le riprese. La storia aveva luogo in campagna, verso la fine degli anni Sessanta e ho cercato un posto che potesse essere come quello che immaginavo. L'ho cercato per tre anni: un luogo in cui la natura creasse un ambiente ostile. Un giorno stavo parlando di quest'idea con l’attore che nel film interpreta Horacio, e lui mi disse che era cresciuto in un posto simile, nel Nord. Quando lo vidi, dopo avere guidato per parecchie ore da Manila, pensai che fosse perfetto. Quindi diedi vita allo schema per l’estetica che volevo: fine degli anni Sessanta, un posto molto trascurato, senza corrente elettrica e lontano dalla civilizzazione del ventunesimo secolo. Questo era il luogo ideale, e anche il clima corrispondeva all'idea che mi ero fatto, dato che pioveva sempre. Fortunatamente trovammo una grande casa dove potemmo stare per più di cinque settimane durante le riprese. Mi bagnavo tutti i giorni… erano condizioni molto difficili in cui lavorare.
Uno scenario che genera contrasti tra elementi naturali, come la roccia contro le onde…
La roccia contro le onde è una metafora per ogni cosa, e la maniera in cui Padre Guido adora la roccia, la paura di morire in un posto così, è quella di trovare la verità sulla vita. Il modo in cui le onde dell’oceano colpiscono la riva è una metafora anche della lotta della gente per la sopravvivenza. Padre Guido è l’ancora morale degli abitanti di questo posto, è il loro leader mitologico. In un ambiente di questo tipo si creano molti miti, non si sa cosa sia vero e cosa non lo sia. Volevo ottenere questo tipo di sensazione. Quando ho visto questo luogo è diventato subito lo scenario sul quale costruire le sensazioni che intendevo trasmettere con il film.
A proposito di mitologia, nel film viene evocata la figura del ‘kapre’. Nel tuo cinema la mitologia e il folklore, le leggende popolari e tradizionali, sono una costante, come per esempio il racconto della principessa lucertola di Heremias. Puoi dirci perché?
Ho sentito parlare di kapre fin da quando ero bambino. Abbiamo una forma di folklore nelle Filippine in cui figurano queste icone mitologiche, come l’’aswang’ e il ‘manananggal’; credo che ce le abbiate anche voi, tipo gli gnomi. Sono quelle creature che, da bambino, i genitori usano minacciosamente, come per dirti: «sei un bambino cattivo, adesso il kapre ti porterà via». La parola kapre deriva dall’arabo, è una specie di fantasma o di creatura gigante. Le persone li temono, vivono negli alberi, di solito vengono e prendono le donne, le possiedono e loro impazziscono. Possono essere più o meno malvagi. I kapre sono un misto di vecchie credenze e influssi che arrivano da altri parti dell’Asia fino dall’Algeria. Questa, come quella della principessa lucertola, sono storie che ho sentito mentre giravo il film.
Altro contrasto centrale nel film è quello tra luce e buio. Ci sono momenti improvvisi di grande luminosità, in cui la sala cinematografica viene completamente rischiarata.
A volte la luce è molto forte, a volte fa molto buio. I cambiamenti in natura sono molto drastici, improvvisamente piove e c’è una mareggiata, poi d'un tratto tutto si fa calmo: è il tipo di natura che c’è in quel posto e volevo che diventasse anche uno degli attori principali del film. Tutte le vite, lì, sono in stretta relazione con i cambiamenti della natura, e anche questo è qualcosa di molto filippino: le nostre vite dipendono da come agisce la natura. Nelle Filippine ci sono frequenti tifoni, ad esempio, e le nostre esistenze non possono che essere in stretta relazione con tale fenomeno. La stagione secca è molto calda, poi c’è una lunga stagione delle piogge, e questi sono tutti elementi importanti della nostra vita. Tutto, a un certo punto, diventa una metafora di questo caos naturale in cui viviamo.
C’è poi la penultima scena, quella del falò sul lago che cristallizza tutti questi contrasti.
Nel film ho rievocato antiche usanze che non esistono più, perché sono state bandite dalla legge islamica in vigore a Mindanao. Sono abitudini ataviche che avevamo prima che arrivassero i musulmani e i cattolici, ma ora non ci sono più e quindi le ho riportate in vita per questo film, perché esistevano ancora quando ero bambino. La loro abolizione è uno dei tanti cambiamenti che ci hanno condotto in uno stato confusionale: abbiamo perso alcune cose per riceverne altre, più dannose. Nel film cerco di immortalare quello che abbiamo perso, il nostro passato. L’ho fatto aggiungendo elementi che mi venivano in mente giorno per giorno, e per questo motivo la sceneggiatura era in perenne cambiamento. È stato anche facile, però, perché è tutto basato su una mescolanza di personaggi reali e di sogni che ho fatto da bambino. La maggior parte dei personaggi è reale, vengono dalla mia vita, come Joselina; altri, come per esempio la sorella, sono un mix di più persone, sempre realmente esistite. Il leader militare è un personaggio vero, così come lo è il prete, e l’arrivo dei militari è qualcosa di estremamente reale… Ho cercato di inscenare tutto a partire dalla mia memoria.
La figura di Joselina, con il suo martirio, sembra un prolungamento di quella di Florentina Hubaldo. Possiamo dire che siano entrambe una metafora delle Filippine?
Certo. Joselina è in larga parte un’estensione di Florentina Hubaldo, ed è una metafora del trauma, della sofferenza, del tormento. Hanno tanto in comune perché seguono lo stesso modello, quello della tortura, del dolore, che sono elementi che cerco sempre di incorporare nei miei personaggi.
Joselina è usata come uno sciamano per guarire: c’è anche una discendenza con la Elsa di Himala, film che all’inizio della tua carriera portavi a modello?
In realtà questo accade perché nel Paese ci sono tanti guaritori che esercitano per mezzo della preghiera. Noi crediamo in queste cose e li chiamiamo ‘albularyos’. Lavorano in centri dove ci sono medium, guaritori, ecc. Quindi è un aspetto culturale che ho integrato nei film. Fa parte della psicologia dei filippini, questo credere in qualcosa che non conosciamo. I filippini hanno l’abitudine di aggrapparsi a cose misteriose, come i guaritori. Non si sa cosa succederà a credere a queste cose, è un atteggiamento molto fideistico. Ci aggrappiamo a questi fili di fede che non hanno nulla di provato, perché si tratta di pura fede. Ed è per questo che siamo così creduloni e vulnerabili alle colonizzazioni, soccombiamo facilmente a culture più solide, come quella giapponese, spagnola, americana, o all’Islam. Ci sono anche molti corsi per diventare guaritori… la gente è davvero molto plagiabile, e viene facilmente manipolata e sfruttata.
Con questo film mi appare un disegno ampio nella tua filmografia, fatto di personaggi che ritornano o si evolvono da un’opera all’altra. Lo possiamo vedere nel personaggio di Padre Tiburcio e anche in questo prete, Padre Guido. Si può dire che la tua filmografia è come una grande tela in cui ogni film va a comporsi come la tessera di un mosaico?
Un mosaico e un disegno. Sì, è come una costellazione: tutto fa parte di un continuum e ogni film può essere collegato sia a ciò che segue sia a quello che lo precede. Puoi connettere West Side Avenue a Evolution of a Filipino Family: il primo si svolge dopo la legge marziale, il secondo racconta l’esperienza vissuta durante la legge marziale, e ora From What Is Before si colloca appena prima della legge marziale, durante gli eventi che portarono a quella situazione. Niente di tutto ciò è premeditato, però, faccio i film senza rendermi conto che sono così collegati. Si può anche dire che i film si collochino nel continuum della cultura e del trauma proprio della nostra cultura. Puoi rendertene conto anche in Century of Birthing: c’è un collegamento tra la donna pazza e l’artista che non riesce a finire il proprio film.
Altro tratto in comune è il personaggio della venditrice di cianfrusaglie che poi si scopre essere in realtà una spia. Proprio come i personaggi di Melancholia che interpretano ruoli di altri personaggi.
In realtà la figura di Heding, la spia del film, è una composizione di tre personaggi realmente esistiti. Nel 1970, due anni prima della legge marziale, è arrivato nel nostro villaggio un carpentiere che costruiva case, e in quello stesso periodo erano arrivati anche un panettiere e un terzo personaggio. Con l’avvento della legge marziale, scoprimmo che queste persone erano spie. Dunque la legge marziale è stata qualcosa di ben premeditato e di pianificato in anticipo. Marcos si serviva di questi condizionamenti, situazioni di caos create ad arte, come le case che venivano bruciate… Anche queste persone, che non sapevamo fossero spie, facevano parte di questo piano. Sono cose realmente accadute prima della legge marziale. Ti rendi conto, dunque, di come Marcos fosse riuscito a presentarsi come un eroe in maniera tanto convincente: aveva pianificato tutto, il condizionamento è stato la base per la creazione di un clima di paura diffusa. Un perfetto uomo politico.
Ultima domanda, qual è il tabù del cinema oggi?
Non intendo fare film commerciali. Ecco: per me questo rappresenta un tabù. Non voglio cadere nei cliché, anche questo lo considero un tabù. Voglio sempre fare del grande cinema, sperimentare per poi tornare ai metodi tradizionali è anch'esso tabù. Anche se mi piace tutto il cinema, per me il vero, grande tabù è il cinema commerciale, qualsiasi cosa significhi.
(Locarno, 16 agosto, 2014)