Come l’edificio labirintico e inconcepibile da cui Ventura non sembra in grado di uscire, Cavalo Dinheiro è un film che si serra attorno a chi lo guarda, inquadratura dopo inquadratura, mattoni piazzati a delimitare uno spazio di tenebra, violata soltanto da tagli di luce affilati. Forse è proprio stando vicino a gente che ha passato (e logorato) la sua vita nei cantieri, come Ventura, che Pedro Costa ha affinato l’arte del costruttore: un lavoro di posa lento, umile, stoico, che spesso significa anche mesi impiegati senza girare una scena, ad aspettare il faticoso emergere di qualcosa. Un’etica che Costa ha da tempo messo in pratica, e anche in immagine, quando ha filmato le sessioni di registrazione della Jeanne Balibar cantante in Ne Change Rien (2009), altro film sigillato come una camera oscura, perforata da esigui spiragli di luce. Fare film è innanzitutto un lavoro, un’attività costante che arriva ad assomigliare a una forma di vita, ma che mantiene regole e tempi propri, senza cadere nelle trappole di un’immediatezza (auto)biografica, fedele soltanto alle implacabili necessità della costruzione.
S’impietrisce, allora, davanti all’onestà disarmante delle parole di Costa, dopo la proiezione ufficiale a Locarno, quando afferma che hanno fatto questo film (e parlare al plurale non è qui un vezzo da autore ‘democratico’) «per dimenticare», e ne descrive la tensione a sbriciolarsi nell’oblio di se stesso, tanto che ogni inquadratura appare «dimentica della precedente». Vorrebbe avere la forza dei cineasti che ammira, dice Costa, quella di Straub o di Godard, mentre i suoi film «non restano», tendono a dissolversi, trascinati da un senso di morte che vi s’insinua e di cui non può che prendere atto, quasi suo malgrado. E come un film posseduto da forze oscure si presenta Cavalo Dinheiro, una séance cinematografica che sconfina nella negromanzia, nel procedere ripetitivo e inesorabile di un rituale. Se nella sua confessata fragilità esso forse non s’impone col potere «sciamanico» che il suo autore attribuisce al cinema di Straub o di Rouch, un cinema che rinchiude nel proprio cerchio e porta altrove, nondimeno attinge a questo campo magnetico, ne conserva e trasmette le vibrazioni, attrae e respinge con l'andatura rotta di un corpo attraversato, o come si dice nel voodoo, cavalcato dagli spiriti.
A partire dal parlato (così prossimo, eppure così distante dalla metrica brechtiana di Straub): una nenia che nutre un cuore musicale seducente e brutale (e viene da chiedersi quale sfumatura di blackness vi avrebbe aggiunto Gil Scott-Heron, se la sua potenziale collaborazione non fosse sfumata a causa della morte), tra la melodia strozzata della voce di Ventura e il soffio gelido dei sussurri di Vitalina, scongiuri mormorati e il fruscio di collane nere composte su un tavolo in strane figure, come serpenti in un rito che non sembra divinare il futuro quanto l’insistente attorcigliarsi di passato e presente. Nudo, tremante, come ci appare Ventura fin dall’inizio, Cavalo Dinheiro è un film che sostiene duramente l’invasione di un passato, che è, ma non è soltanto, quello del vecchio muratore capoverdano, visitato, alle sponde di un letto d’ospedale o in un interminabile tragitto in ascensore, da visioni e voci spettrali, che testimoniano e preannunciano la circolarità implacabile di un tormento che è (anche) il suo, di tutte le vite (e le morti) come la sua. Ma non c’è sinossi che possa contenere il flusso dimentico (e forse anche per questo mai così immaginifico) di un film che continuamente mostra e scongiura il proprio cedimento, senza puntellarsi su impalcature logiche e ben posate, ma aggrappandosi a ferite e fratture segrete, malattie senza nome, ma così vaste da pervadere tutto il corpo, l'esistenza stessa.
Nel cinema di Pedro Costa gli attori – ma, tanto in senso corrente quanto etimologico, sarebbe meglio parlare di persone, in cui l’immediata identità anagrafica si unisce all’arcaica distanza della maschera – partecipano a un complesso processo d’inscrizione: coinvolti nella scrittura della loro parte, essi sono a tutti gli effetti co-autori della storia cui danno corpo e voce e che però è anche parte di loro, già scritta nei loro corpi, come i novantatre punti di sutura sulla testa di Ventura, come le lacrime che intagliano il volto di Vitalina. In questa dimensione collettiva, il ruolo che ancora Costa si riserva è quello di inscrivere a sua volta quei corpi nell’immagine e nella storia, anche in quella del cinema; e questo non vuol dire nobilitarli con una citazione di Ford o di Tourneur qui e là: vuol dire assegnare queste persone, che non conoscono il cinema e che non ne hanno bisogno (perché sono già cinema, «Ventura vive in un film di John Ford» dice il regista), a un luogo che appartiene loro e li possiede. Eppure, mai come in Cavalo Dinheiro gli attori sembrano allontanati da quel potere di scrittura e inscritti in una storia di cui sono quasi spossessati.
Anche qui, come in Juventude em Marcha (2006), vediamo Ventura intento a scrivere una lettera, di cui però non sentiremo leggere il contenuto – forse in un altro film, dice Costa; quello che ascoltiamo, insistentemente, è invece un linguaggio burocratico che sciorina certificati e documenti, atti di nascita e di morte, recitati dagli attori come una strana e tragica epica personale. “Non scordare il passaporto, Ventura” dice uno del gruppo venuto ad accoglierlo nell’ospedale da cui non finirà di uscire e rientrare. Un passaporto «può sempre servire»: a fini identificativi, certo, ma anche perché Ventura, in questo limbo di degenza o detenzione, non smette di varcare confini e incappare in un groviglio di tempi e luoghi che nessuna anagrafe saprebbe districare. Perché Ventura è vecchio e percorso da tremiti, ma più volte dice di avere 19 anni, e infatti siamo anche nel marzo del 1975, alle soglie della liberazione dal regime dell’Estado Novo, mentre Ventura è internato in un ospedale, con un pigiama concentrazionario, ma anche nascosto tra i cespugli del Jardim da Estrelha, reduce da una storia cupa, un duello di camicie sfarzose e coltelli luccicanti, terrorizzato dai soldati e dall’incombente Rivoluzione, perché la rondine di primavera, di quella primavera dei garofani, appare a Ventura come un grande uccello nero, che si posa con enormi ali sulla sua baracca.
Per il cinema di Costa, che col tempo si è affermato come esplorazione di un territorio definito, lo spazio astratto in cui si muove Cavalo Dinheiro corrisponde a un passo nell’abisso, la camminata di uno zombie in un’oscura vastità, percorsa da corridoi comunicanti e vicoli ciechi, dove le coordinate storiche e geografiche collassano. Il film si apre non a caso su una serie di fotografie di fine Ottocento: lavoratori, vagabondi, criminali, corpi stesi dall’alcool e dalla fatica. Sulle prime verrebbe da pensare siano portoghesi, immagini di una Fontainhas d’altri tempi; e invece sono gli scatti del danese Jacob Riis, cronista delle misere condizioni di vita dei lavoratori immigrati a New York, spinto verso la fotografia dall’esigenza di portarle a visibilità e, proprio per questo, tra i primi a usare il flash per squarciare l’oscurità di quei tuguri.
Immerso in una tenebra altrettanto fitta, anche il film di Costa fa dell’illuminazione (come del resto di ogni aspetto ‘tecnico’) una questione morale oltre che estetica, qui rinnovata ad ogni passo del montaggio, nella tensione tra la meticolosa composizione del quadro e un nero che erode ogni cornice, annegando le linee nella propria massa densa. Il presunto formalismo di Costa non è mai arbitraria marca stilistica, ma un marchio di grazia o dannazione: il rigore geometrico che articola i quadri di Cavalo Dinheiro diventa indice della ripetitività infernale della storia, in un film di identità ritornanti e da sempre disperse, umiliate e negate dall’architettura sociale e materiale che le racchiude e le amministra. E se qui la penombra che aleggiava Nella stanza di Vanda (1998) invade il quadro, quello che non si trova è la stessa idea di una stanza, di un’abitazione: non ci sono più le baracche di Fontainhas, già in demolizione al tempo di quel film, ma nemmeno i nuovi asettici quartieri, dove gli abitanti di Fontinhas furono trasferiti e dove Ventura si aggirava disperso in Juventude em Marcha.
Ci si ritrova invece in un altrove catacombale, al tempo stesso caverna preistorica e spazio istituzionale polimorfo, che assume facce diverse (ospedale, prigione, caserma, fabbrica) e si estende ovunque, per rinchiudere e inchiodare a un identico presente. Solo a un certo punto, verso la metà del film, Costa concede una sortita e la tensione si scioglie in una sequenza di ritratti che sembrano arrivare dai loculi ormai distrutti di Fontainhas, dove le figure ritrovano la stessa fissità e la spoglia durezza delle fotografie di Riis, qui ammantata della malinconia di una canzone di Capo Verde, un testo che parla di immigrati che svendono la propria terra per una paga da fame nei cantieri e nelle fabbriche di Lisbona. Per il resto si continua a peregrinare attraverso vani che echeggiano di passi pesanti puntellati da stampelle, cigolii e clangori, respiri e rantoli. Ambulatori, corridoi, refettori: spazi metonimici, contigui, eppure mai comunicanti, come le inquadrature che li fissano in angolazioni di opprimente coerenza, ma che emergono dalla profonda convinzione che ogni giunta di montaggio sia un atto di rottura, che sia paradossale congiungere un’inquadratura con un’altra, il passato con il presente. Blocchi non riconciliati, non componibili, come del resto i due sostantivi che formano il titolo del film, fra cui si possono intravedere relazioni possibili e significanti, ma che restano una specie di concreto ossimoro, impossibile da inquadrare come una totalità.
Nelle variazioni interminabili di questo budello di tempi e spazi, il film resta così incuneato in un presente popolato da fantasmi, da un’umanità che non smette di ammalarsi e di morire, perché «continueremo a cadere dal terzo piano, a essere tranciati dalle macchine, con lo stesso male in testa e nei polmoni… siamo sempre vissuti e morti così, è questa la nostra malattia.» Perché non esiste che il presente e ogni film è al presente; ogni film è come l’ascensore in cui Ventura sale nel segmento finale del film (già comparso, in una versione differente, Lamento da vida jovem, nel film collettivo Centro Histórico del 2012). Il paradosso di una mobilità immutabile si materializza in quel cubicolo metallico, in cui ci si sposta da un piano (spaziale, temporale) all’altro a patto di rimanere chiusi tra quattro pareti, che fanno da cassa di risonanza a un coro di voci infere, un ultimo esorcismo in cui demoni e posseduti si confondono, non appartengono più ad alcun corpo, a quello di Ventura o a quello del soldato che si ritrova al suo fianco, corazza cristallizzata che pare rimbombare di ogni voce, ma resta impassibile, come una maschera.
Per quanto non finisca di rovistare tra i detriti di catastrofi personali e collettive, Cavalo Dinheiro, raccomanda sempre Costa, «non è un film di rovine»: è un film che crolla su se stesso nel tentativo di dimenticare, senza fissarsi su alcun passato, senza cedere a una retorica della rovina sin troppo diffusa. Il film se ne tiene lontano come una costruzione solidamente instabile e sicuramente inservibile a scopi monumentali, come le statue che vediamo in un’altra sortita notturna dall’ospedale, come l’orrore cavo di quel soldato pietrificato. La figura imponente di Ventura è scossa continuamente da un tremore, segno tangibile della sua indefinibile malattia: per questo la sua statura tragica non può ridursi a statuaria celebrativa, non sarà mai il monumento di un cinema politico che si limita a produrre figurine umanitarie (l’Immigrato, il Lavoratore), ma un corpo posseduto, attraversato e squassato dagli eventi, gravato dal peso di una storia individuale e universale che nessuna cornice e nessun piedistallo possono comprendere o sostenere.