Il mondo di Roy Andersson è compatto e impenetrabile. Si è andato costruendo pian piano, inquadratura dopo inquadratura, film dopo film, un mattoncino alla volta. Incurante delle mode, meticolossissimo, Andersson progetta, disegna, prova, corregge, riprova. Tre film negli ultimi quattordici anni: più che un regista, forse, è un pittore (una qualifica mai rifiutata, peraltro: “I miei punti di riferimento sono più pittorici che cinematografici”), oppure, più probabilmente, un architetto.
Che cos'ha di diverso questo A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence (titolo surrealista, quasi à la César Vallejo) rispetto ai due film precedenti? Proprio nulla, verrebbe da dire. Forse è per questo motivo che la sua vittoria all'ultima Mostra veneziana ha sollevato più di un malumore. Qualcuno ha parlato di “soluzione di compromesso”, altri di “premio alla carriera”, altri ancora hanno stigmatizzato l'ossessiva “chiusura” del cinema di Andersson, ormai compiaciuto del proprio ilare nichilismo. Certo, questa Parte finale di una trilogia sull'essere un essere umano, come recita il sottotitolo, potrebbe essere tranquillamente una postilla, un commento, una nota a piè pagina, una provvisoria divagazione di un progetto più ampio, tutt'ora in corso di elaborazione. Per rimanere nella metafora di Andersson-Architetto, un edificio di scandinava solidità cui aggiungere ancora un fregio, e un comignolo, e un abbaino… Insomma un'opera, checché se ne dica, tutt'altro che chiusa.
Non che l'idea di “chiusura” sia assente nei film di Andersson, anzi. In un testo scritto di suo pugno qualche anno fa, il regista afferma: “Lo spazio non è qualcosa di cui possiamo liberarci, che possiamo scuoterci di dosso”. L'individuo “prigioniero” dello spazio, insomma. E in A Pigeon, il concetto è subito chiarissimo, fin dal primo piano-sequenza. Davanti a ogni inquadratura del film si ha davvero la sensazione di trovarsi in un museo, a osservare uno di quei diorami nei quali, accompagnati dall'apposito cartiglio esplicativo, gli animali imbalsamati ci scrutano immobili, da sempre e per sempre, con i loro occhi di vetro. Chi osserva chi, dunque? Come il titolo suggerisce, è l'animale uomo, l'Homo Sapiens, a essere l'oggetto di uno studio “scientifico” serrato e implacabile: “Non riusciamo a vederci nello spazio in cui siamo”, scrive ancora Andersson, “eccetto quando ci vediamo rappresentati”.
Accanto allo spazio, il tempo. Tempo che è un presente perenne, congelato. “Ho capito male il giorno e forse anche l'ora dell'appuntamento. Dev'essere stato un malinteso da parte mia”, dice un personaggio in uniforme, parlando al cellulare. Gli fa eco, nel finale, uno dei passanti in attesa dell'autobus: “Se non si tenesse il conto del tempo, l'esistenza sarebbe un caos”. Il tempo, in questo museo delle cere, è per forza di cose una dimensione indifferente (come potrebbe non esserlo?). Non sorprende perciò più di tanto che in un bar del XXI secolo faccia la sua apparizione un sovrano del XVIII, Carlo XII di Svezia, con tanto di esercito al seguito, in marcia verso Poltava. Né sorprende l'intromissione della Storia con la maiuscola, magari sotto forma di incubo. Come il gigantesco cilindro rotante, sorta di toro di Falaride del colonialismo euroccidentale, con il quale Andersson, nell'unico controcampo del film, costringe gli spettatori a guardarsi in faccia. E forse a guardare in faccia anche se stesso: “È giusto utilizzare gli esseri umani solo per il proprio divertimento?”, domanda uno dei personaggi, quasi a chieder conto (anche lui!) al regista del suo pessimismo co(s)mico nei confronti dell'umanità.
E tuttavia in questo spazio-tempo sottovuoto esiste ancora qualcuno che cerca in tutti i modi di sottrarsi a questo delirio d'immobilità, sforzandosi di vivere. È la sfortunata insegnante di Flamenco, per esempio, con il suo amore non ricambiato per un allievo; oppure Jonathan e Sam, “strana coppia” di venditori al dettaglio di scherzi di carnevale che richiama un po' Laurel e Hardy e un po' Vladimiro ed Estragone e che, nel tentativo di piazzare qualcuno dei loro patetici articoli (“Vogliamo aiutare la gente a divertirsi!”), finisce per perdere tutto.
Nessuna via d'uscita quindi? Forse sì. Basta saper spostare lo sguardo altrove. Non verso l'Aldilà prospettato dalla canzonetta che Jonathan ascolta ossessivamente sul suo piccolo giradischi, ma verso i piccoli spiragli su una felicità possibile che Andersson dissemina lungo tutto il film. Verso uno spazio lontano, come quello delle due bambine che giocano con le bolle di sapone, o quello della coppia di giovani sulla spiaggia (un rimando a A Swedish Love Story?); oppure verso un tempo lontano, come nell'anno di Grazia e disgrazia 1943, quando Lotta la zoppa, nella sua taverna, offriva baci in cambio di un bicchiere di liquore.
D'altronde, “che cosa sarebbe la vita senza un bicchierino o due?”