“Questa storia è la storia di un cataclisma, questa storia è un ricordo del mio paese”. Con queste parole si conclude il potente affresco Mula sa kung ano ang noon (From What Is Before), ambientato nei primi anni settanta del secolo scorso, realizzato dal cineasta filippino Lav Diaz. La questione coloniale sembra torturare all’infinito intellettuali e artisti delle Filippine, ma il grande irrisolto non lascia tranquille le nostre coscienze, come dimostra l'opera di Pedro Costa, e in particolare l'ultimo film di Cavalo Dinheiro (Horse Money) presentato anch'esso al Festival del Film Locarno. Perché fino a quando non ci sarà un'assunzione chiara di responsabilità delle nostre colpe coloniali come il più grande misfatto del Novecento dopo l'Olocausto – sul piano concettuale il misfatto inarrivabile, anche al di là della quantità di vittime – allora sarà anche più difficile difendere il primato da noi elaborato della democrazia, contrariamente a quanto credono i difensori della Realpolitik, quelli palesi e quelli più o meno nascosti, e quindi i più pericolosi di tutti, perché subdoli.
Evidenziare con nettezza questo aspetto può sembrare eccessivo, ma seguendo il discorso fino in fondo apparirà come un'affermazione logica, poiché il cinema, nel corso del '900, è stato il mezzo principale d'interpretazione della realtà e al tempo stesso della sua falsificazione, paradossalmente, ma non troppo, proprio per il suo rapporto privilegiato con il reale. Il punto chiave è che il colonialismo diretto europeo, e poi quello odierno indiretto, ha proprio negli Usa il suo emblema paradigmatico: la visione del recente documentario di Joshua Oppenheimer The Look of Silence, al di là delle diverse opinioni, ne è l'ulteriore conferma “indiretta”.
Osservando la vicenda coloniale del popolo filippino – oppresso dagli spagnoli, poi, prima di un break giapponese, dagli americani con Marcos – possiamo vedere con chiarezza il passaggio degli Usa (e quindi, in estensione, dell'Occidente nella sua globalità) dal colonialismo diretto a quello indiretto, attraverso le operazioni clandestine, i ricatti finanziari di governi e grandi istituzioni finanziarie come FMI e Banca Mondiale. Nel lungo poema di Lav Diaz i rapporti umani sembrano essere stati divorati fin nelle province rurali, lo stesso sogno di indipendenza autoctono pare esserlo stato (Independencia, recitava, non a caso, il titolo di un altro film filippino, opera del giovane Raya Martin presentata a Cannes nel 2009), la capacità di un intero popolo di sognare utopicamente un mondo “altro”. Perché, come già detto, prima gli spagnoli, poi gli americani (oltre ai giapponesi), quindi la religione, quella cristiana, più normale ma comunque invasiva, e infine quella islamica dei guerriglieri fondamentalisti che Diaz rappresenta come crudeli fanatici, se non psicopatici, hanno divorato tutto, lasciando il vuoto intorno. In questa grande, enorme foresta (il respiro del film pare rispecchiarne la vastità), non compare mai in campo un solo animale selvatico. Se ne favoleggia ma non se ne vede uno. “E delle nostre radici pagane malesi cosa resta?”, ci si chiede – sconsolati – verso la fine. Nulla, pare la risposta spontanea.
Il film dell'ex (?) colonizzato Lav Diaz e quello dell'ex colonizzatore portoghese Pedro Costa sono l'uno lo specchio dell'altro, come nel finale di Tropical Malady di Apichatpong Weerasethakul, in cui l'amante è l'amato e viceversa, il militare inseguitore è l'inseguito e viceversa, il militare tailandese è lo zombie-negroide – si veda: Ho camminato con uno zombie di Jacques Tourneur – e lo zombie-negroide è la tigre e la tigre è la foresta che tutto divora, compresa la prima parte del film ambientata nella capitale. E infine, come sempre in Weerasethakul fin dal suo film d'esordio, questo è valido anche per le due parti antinomiche su cui il film è strutturato: due macro-specchi contenenti gli altri micro-specchi-antinomie sopra citati: la prima parte è la seconda e la seconda è la prima. Ad aeternam. Così, guardando i due film di Diaz e Costa, l'opera dell(ex?)'oppresso e dell'(ex?)oppressore sono intrise, pervase, habiteés – come si dice in francese in un'accezione usata anche per le abitazioni “infestate” dai fantasmi –, dal medesimo malessere.
In generale, i film più belli, innovativi e intensi del cinema odierno sono spesso opere sulla memoria, film di fantasmi e ombre dolenti. Film attraversati, se non travagliati, dalla questione identitaria. Perché? Se ci si impegna ad analizzare questi due film, la loro dimensione poetica si fa avvolgente, intensamente pregnante. I due lungometraggi, uno davvero lunghissimo (cinque ore e mezza), l’altro nella media (un'ora e tre quarti), sembrano rincorrersi e sostenersi vicendevolmente. Uno è appunto di un ex “colonizzato”, l’altro è di un ex colonizzatore. Uno datato precisamente, l’altro no, ma con riferimenti storici alla "rivoluzione dei garofani" che portò il Portogallo alla democrazia. Uno, quello di Diaz, quasi tutto in esterni, l’altro quasi tutto in interni. Interni catacomba, da camera mortuaria, o da convento: si parla quasi sussurrando. Nel film di Costa, che vede ancora il “negro” Ventura nel ruolo del protagonista, c’è una potenza poetica e un malessere, un languore pervasivo dall’inizio alla fine. Costa parla del passato per parlare del presente. Finché il rapporto Nord-Sud del mondo resterà irrisolto (e con esso la questione ambientale, strettamente collegata), questo malessere, che è la coscienza che ci bisbiglia sulla nostra ignavia – ogni giorno che passa sempre più inaccettabile –, resterà, persisterà, come uno “spirito”, uno zombie morale, emanazione dei marginali dimenticati da tutti, appartenenti a tutte le latitudini e a tutti i tempi.
Decisamente, solo il cinema portoghese – basti pensare a Tabù di Miguel Gomes, film inedito da noi e tuttavia centrale – pare interrogarsi in maniera forte sulla questione irrisolta della colonizzazione, e pare farlo anch’esso, come tanto cinema d’autore più avanzato, soprattutto d’Estremo Oriente, mediante la poesia. Interrogandosi sul mondo e sul cinema, legando l’uno e l’altro in maniera indissolubile.
Il punto nodale però, resta quello di chiedersi perché solo alcuni film portoghesi abbiano questa caratteristica; una domanda che poniamo proprio mentre il grande cinema d'autore del Portogallo sta subendo i colpi di scure del nuovo colonialismo dei mercati che vuole spezzarci tutti, dividere e imperare generando una nuova guerra tra poveri e quasi poveri, tra ex colonizzati poveri e ex colonizzatori sempre più impoveriti, triste vicenda di un capitalismo internazionale sempre più subdolo e come sempre spietato, ma che cerca di rivenderci noiosi tecnocrati affamatori spacciati dalla stampa d'opinione (?) internazionale come salvatori. È un altro paradigma (e assieme paradosso) significativo, quello portoghese. Un altro esempio di specchi a confronto.
Una domanda direttamente consequenziale della prima: perché nessun cinema europeo, nemmeno quello portoghese, riesce a coniugare in un'osmosi così perfetta l'interrogazione identitaria con la reinvenzione delle forme? Ovvero la prigione rabbiosa del passato con l'apertura verso il futuro, come riesce invece in maniera lampante, nei suoi esempi più originali e d'avanguardia, al cinema d'Estremo Oriente: da Apichatpong Weerasethakul a Vimukthi Jayasundara, passando per Raya Martin. Senza dimenticare Jia Zhang-ke, dove un palazzo incompiuto dalle forme irregolari nella notte si muta in astronave in partenza verso la volta celeste (Still Life) o dove un parco dei simulacri si trasforma di notte in un luogo sospeso e magicamente evocativo, ricordando il Fellini delle finzioni notturne ambientate a Cinecittà (The World), dimostrando così che dal caos dell'ibridazione delle forme si possono generare cristalli puri.
Quando Weerasethakul reinventa Tourneur – regista riconosciuto come fondamentale dallo stesso Weerasethakul – e lo fonde con le leggende orali, il cinema e i fumetti tailandesi (soprattutto in Zio Boonmee), dimostra una freschezza, una gioia creativa fanciullesca che non ha equivalenti in Europa e nemmeno negli Stati Uniti, e che non troviamo nemmeno nel film di Lav Diaz e in quello di Pedro Costa. Eppure, in ambedue, vi è una dolcezza unica nell'evocare una memoria arcaica, ancestrale. I toni sepolcrali e funerei che lasciano un forte disagio nello spettatore, celano una forma che sembra anch'essa potenzialmente foriera di generare forme nuove, di conseguenza capace di dare forma al futuro. Sono dunque due fratelli spirituali estremamente preziosi.
Poiché è soltanto fondendo la memoria del cinema con le memorie culturali autentiche espresse da paesi lontani se non agli antipodi che daremo un futuro ad un mondo globalizzato saturo di visioni omologate, ancora imprigionato dal postmoderno stantio della “memoria facile”, vuota quanto l'estetizzazione: il postmoderno dei tic esasperati di citazionismo e autoreferenzialità. Un mondo, pertanto, sempre più annoiato dal fatto di non aver nulla davvero di nuovo da scoprire. E dunque incapace di reagire allo stato attuale delle manipolazioni e delle oppressioni. Quando rileggiamo: “Questa storia è la storia di un cataclisma, questa storia è un ricordo del mio paese”, la sentiamo come una profezia che ci riguarda tutti, forse annuncia un giorno triste e non lontano in cui quello che Lav Diaz constata sul proprio paese sarà la condizione di noi tutti se non sapremo reagire per tempo nel difendere la memoria identitaria di noi europei. E il film di Pedro Costa pare esserne il fratello spirituale, l'amante segreto, inseguitore nella foresta della memoria, la memoria che si sta perdendo del cinema e di quella di un mondo dall'umanità perduta: due elementi, come detto più sopra, inseparabili, inscindibili.
Nel difendere la nostra memoria identitaria bisognerà recuperare un senso cristallino della poesia, reinventarne le forme ritrovando la profondità delle arti di un tempo, dimenticare l'estetizzazione facile di marca pubblicitaria, e ricombinarla con le forme delle arti antiche e moderne (non postmoderne) degli altri, aprendoci al mondo circostante con la consapevolezza del nostro grande, mutevole quanto vampiresco passato. Un passato generoso e geniale quanto criminale e violento, che sia colonizzatore o meno.