«La tua immaginazione deve far sì che quei rapporti non si trasformino i cacce o tormenti. Come le persone che si lamentano della loro vita quotidiana, ma senza la quotidianità cos’è la loro vita? Dov’è? Dopo la vita di tutti i giorni? Prima? Non lo so».
Una provocazione lanciata ai tre quarti del film da un collega di lavoro, personaggio secondario il cui ruolo si esaurirà in quest’unica scena e in cui Laetitia si imbatte casualmente, di ritorno a casa dopo una giornata di lavoro estenuante. Una massima alla Rohmer da cui nasce una riflessione che si presta come una delle possibili chiavi di lettura de La bataille de Solférino. Per di più, la sola a essere resa esplicita da una macchina da presa che adotta un punto di vista esterno, riluttante all’introspezione psicologica e da una sceneggiatura scevra di ogni tocco esistenzialista.
Primo lungometraggio di Justine Triet che, dopo un esordio segnato dall’interesse per il documentario, viene introdotta nella nouvelle génération alla quale i Cahiers du Cinéma hanno di recente dedicato uno speciale, accomunando giovani cineasti francesi (Yann Gonzalez, Guillaume Brac, Helena Klotz, tra gli altri altri) in pole position per il rinnovamento del cinema francese.
La giornalist aLaetitia (Laetitia Dosch) è incaricata di seguire le ultime ore della campagna presidenziale in diretta dalla sede del Partito Socialista di Rue Solférino. Qui, un assembramento di militanti e simpatizzanti della gauche française, attende animoso e pieno di speranza il verdetto finale, confidando nell’unica alternativa al conservatorismo del presidente uscente Sarkozy. A Solférino le aspettative e le attese – stigmatizzate nel coro di «le changement, c’est maintenant» trasformatosi, a soli due anni di distanza, in amarezza e scetticismo – non escludono scontri e dibattiti accesi fra i sostenitori delle opposte fazioni. Diatribe che sono testimonianza autentica di un pezzo di storia francese, ma anche della presa di posizione politica dell’autrice, schierata ma non dottrinaria. Azzeccata la scelta di filmare gli eventi "dal vero", in continuità con il precedente lavoro documentario, che se da un lato pongono il racconto su un piano universale e collettivo, dall’altro fanno da sfondo e si intrecciano al dramma di famiglia, generando così, oltre a un continuo slittamento tra pubblico e privato, un rapporto ambiguo tra il reale e il fittizio.
Questa bipartizione, a livello microscopico, riflette l’esistenza di Laetitia, divisa tra la sua vita pubblica di giornalista e i doveri di donna. Il tentativo unificatore fra i due ruoli è il ricorso a Marc (Marc-Antoine Vaugeois), giovane e inesperto studente, chiamato a occuparsi delle due figlie nate dal matrimonio fallimentare con Vincent (Vincent Macaigne): un uomo inconcludente, violento, reduce dall'internamento in una clinica psichiatrica.
In questo prologo l’autrice rivela una spiccata abilità a ottimizzare i tempi con pochi mezzi. Macchina a mano dai movimenti volutamente percettibili, inquadrature brevi, dialoghi serrati e un montaggio che infonde un ritmo frenetico a tutto il film; sono questi gli espedienti che permettono di restituire il ritratto fedele di una famiglia della capitale francese, in cui una buona dose di energia (notevoli le due bambine dal pianto e dalle grida inarrestabili) e spirito per le gag (esilarante la trovata di Virgil [Vernier], compagno di Laetitia, che prova a calmare una delle piccole offrendole una sigaretta) accrescono la comicità senza eludere l’assoluta fedeltà al reale, dichiarazione programmatica della cineasta.
Il film prosegue con l’immistione del privato nel pubblico. Se in un primo tempo l’appartamento a Belleville e le vie di Parigi coesistono autonomamente, pur intrecciandosi in un montaggio parallelo, in seguito l’ostinazione di Vincent, al quale non è permesso di vedere le sue figlie se non in presenza della madre, crea un movimento centripeto nell’andatura del film. La caparbietà dell’ex-marito, non esente da una certa morbosità, si somma all’inesperienza di Marc e alla mancata capacità di controllo di Laetitia; Solférino diventa luogo di incontro e scontro tra i personaggi, che si perdono e si ritrovano nella mischia della folla per mezzo di zoom ripetuti e insistenti: accentuando un effetto di saturazione, si anticipa così una riflessione sulla solitudine che acquisterà maggiore visibilità nella parte finale.
L’irruzione notturna di Vincent, accompagnato dal suo amico e avvocato Arthur (Harari), riunisce di nuovo la coppia nell’appartamento di Laetitia, ma ogni tentativo di conciliazione non fa che inasprire le divergenze tra i due. Esausti si arrendono, infine, al silenzio: in piedi, l’uno di fronte all’altro, sulle note di Chopin appaiono in tutta la loro fragilità, non da inetti o anti-eroi, ma da semplici esseri umani intrappolati sotto lo stesso tetto fatto di errori, rimorsi e rimpianti.
LA BATAILLE DE SOLFÉRINO, regia di Justine Triet, Francia 2013, 94'.