È appassionante osservare come Jean-Marie Straub reagisca alle sollecitazioni dell’era cosiddetta digitale, offrendoci il piacere di una prolificità nel segno del piacere del cinema e della riscoperta delle immagini. Passando, per forza di cose, dalla pellicola al digitale, è come se anche Straub avesse avuto modo di ripensare il campo della battaglia. Disseminando i suoi lavori attraverso formati e durate minime, Straub di fatto reclama con urgenza ancora più netta la propria posizione nel mondo. Ed è in questa direzione, riteniamo, che vada letto il suo ultimissimo lavoro, quel Kommunisten presentato a Locarno in agosto come un work in progress.
Introdotto da un sorprendente e spiazzante “pezzo” di cinema “nuovo”, Kommunisten non è tanto un’antologia del cinema della coppia Straub-Huillet, quanto un tentativo di dare, ancora una volta, forma al mondo, raccontandolo non attraverso la presunta neutralità delle immagini di repertorio (ossia immagini delle quali ci si dimentica quasi che sono state filmate e pensate proprio come memoria futura del mondo), ma come tentativo dichiarato di fare del proprio archivio un’altra memoria del mondo. D’altronde, con Goethe, quando ricordiamo è perché qualcosa è rimasto fuori dal campo di quanto è effettivamente ricordato. Qualcosa è stato dimenticato, quando si ricorda. In Kommunisten – soprattutto nel primo segmento, la scena inedita e primaria dell’interrogatorio -, Straub, con la sua voce fuoricampo, pone il problema forte del dove ci si trova in un dato momento della Storia, per provare a pensare dove si sarà domani.
Nelle immagini dei suoi film, che ormai possiamo iniziare a pensare come una memoria alternativa del mondo, si materializza un mondo che non è stato, oppure che, se è stato, non è stato visto abbastanza per essere anche ricordato. Kommunisten, quindi, proprio nel senso della radice comunitaria della parola, rimanda a uno spazio, a un campo, da abitare. Rivedere, quindi, attraverso le immagini del mondo, l’uomo (esemplare il frammento scelto da Operai, contadini e la commovente reinvenzione dell’uscita dalla fabbrica degli operai dei Lumiere di Trop tôt, trop tard). Non semplicemente riproporre cose già viste, dunque, ma ripensare le immagini di ieri, ammesso che sia pensarle come “di ieri” e calarle nell’oggi.
Kommunisten dimostra chiaramente che Straub ha compreso non solo il valore politico del frammento e della sua utilizzazione, ma anche come a partire dalla ricomposizione del frammento si possa pensare una riorganizzazione dell’archivio delle cose viste. Curioso notare come dal Brasile, Andrea Tonacci, figura di spicco del “cinema marginal” con il suo Jà visto jamais visto si muova nella medesima direzione di Straub: il mondo diventa così una sorta di contro-archivio, una memoria alternativa delle cose, se si vuole, persino una cosa mai vista.
In Kommunisten quindi, la storia diventa anche la Storia delle immagini. Straub, ovviamente, non crede alle sorti magnifiche e progressive; il lavoro necessario per immaginare un altro mondo e ancora tutto da fare. I frammenti di un lavoro già fatto, contenuti nel suo film archivio, non sono tanti momenti esemplari quanto vertigini di tempo che ancora chiedono di essere pensate e, a partire da questa elaborazione critica, rimesse in scena. Viste e partecipate. L’archivio delle immagini del mondo è il luogo stesso nel quale, a partire dal quale, si racconteranno le immagini del mondo di domani.
Con uno scarto strategico di rara e icastica lucidità, Straub mette in discussione le immagini esistenti del mondo, disseminando il proprio lavoro e conferendogli, letteralmente, un’immagine mai vista. L’interrogativo finale di Danièle Huillet, in merito alla presunta novità del mondo nuovo, conferisce a Kommunisten una pregnanza sconcertante, proiettando così in una luce rinnovata quanto abbiamo appena visto, un attimo prima che il film finisca. Si tratta quindi di rivedere le immagini del mondo. Probabilmente perché il cinema è già finito e al mondo non manca poi tanto.
Ciò che sorprende, invece, è lo scarto poetico-politico di Straub che restituisce a un altro mondo – quello di oggi, che non lo/non ci contempla – le sue immagini di ieri, offrendogliele, ancora, consapevole che questa possibilità di rivedersi – e non un’altra – è la sola speranza di salvezza. L’archivio, dunque, diventa vera e propria arma politica in grado di ripensare lo ieri per preparare un altro domani.
Il mondo deve ancora venire. E non lo abbiamo mai visto.