Il cinema di Eugène Green è ancora capace di dividere il pubblico e la critica, tra aperti sostenitori e accaniti detrattori. Da una parte ci sono le sue scelte estetiche forti, capaci di reiventare l'ormai codificato linguaggio cinematografico quanto le pratiche di recitazione, dall'altro la sua voce fuori dal coro, che prova a riflettere e mettere in scena nuovi percorsi umani, alla ricerca di un “Bene” individuale che possa aprirsi a una dimensione collettiva. La Sapienza, film girato in Italia con (produzione La Sarraz) e presentato in concorso dell'ultimo Festival del Film Locarno, è un Viaggio in Italia aggiornato ai nostri tempi, in cui il Barocco e la fascinazione per Borromini offrono la strada verso la comprensione più profonda di se stessi e della possibilità di rigenerarsi come coppia.
È raro che un autore francese riesca a realizzare film in Italia, soprattutto nel caso di un'opera come la sua, non facilmente riducibile a un'operazione commerciale.
Sì, molto. I produttori di La sapienza sono stati davvero coraggiosi, perché trovare i finanziamenti non è stato facile. E non perché il mio film sia particolarmente complesso, piuttosto perché è mutata la mentalità del pubblico. Per me l’epoca d’oro del cinema europeo è stata quella compresa tra la fine della Seconda guerra mondiale e il 1980 circa. In questo arco di tempo i film più belli non erano più difficili dei miei, ma il pubblico era interessato a vederli perché era più aperto, cercava di scoprire delle cose, voleva intraprendere nuovi cammini e nuove esperienze. Attualmente viviamo in un’epoca in cui la televisione e quello che io non definisco cinema ma “prodotto audiovisivo barbaro” hanno dato una certa forma fissa alla mente. Il pubblico si è abituato a vedere storie dove dopo dieci minuti si assiste a una decapitazione, dopo venti a una scena di sesso… Sembra quasi che rimanga sorpreso se non trova questi elementi. È molto importante, di fronte a questo imbarbarimento, fare un lavoro pedagogico, dare di nuovo al pubblico il gusto di altri modi di sentire e di esprimersi. Mi è già capitato di vedere spettatori all’apparenza meno colti reagire e interessarsi attivamente ai miei film, al contrario di persone che si credono parte di un’élite intellettuale. Questo per dire che La Sapienza non è un film “difficile” se ci si lascia andare alle immagini e alla narrazione.
In La Sapienza interpreta il ruolo dello straniero, una figura grazie alla quale si riapre il dialogo tra i personaggi.
Il dramma dell’Europa è che i suoi abitanti hanno perso la loro cultura. Credo che chi arriva da lontano rappresenti un’energia nuova che permette agli europei di riappropriarsi della loro identità culturale, riscoprendone il senso. È per questo che mi interesso anche al passato. Non è un pensiero museale, il mio, ma un’indagine su come gli stranieri e quello che c’è stato prima ci permettono di ritrovare quello che siamo. Il cinema, in tutto questo, è un mezzo di rigenerazione per la nostra epoca, perché permette di dare una nuova vita alla cultura europea e di non farla morire.
Il passato in La Sapienza è evocato dalle geometrie imperfette del barocco. Da dove derivano la fascinazione e il profondo interesse per quest’epoca?
Ho fatto molte ricerche sul barocco, ma non tanto per il piacere della ricostruzione storica: volevo trovare nel passato una risposta a domande essenziali della vita presente, perché mi sembrava che nel Seicento l’uomo europeo potesse ancora vivere quello che chiamo “ossimoro barocco”. L’ossimoro è una figura retorica che consiste nel riunire due concetti che la ragione ritiene contraddittori, per esprimere un’idea che va al di là della ragione stessa. Se una persona dice qualcosa e subito dopo afferma il contrario, si dice che sia totalmente irrazionale. Ma questo è vero solo se assumiamo che la verità sia una sola. Io penso invece che nel nostro mondo sia necessario poter vivere due verità che sembrano contraddirsi, come avveniva in epoca barocca. Allora, infatti, l’uomo aveva già sviluppato il pensiero moderno razionalista e quindi aveva costruito un modello del cosmo secondo il quale l’universo funzionava come una macchina, seguendo delle regole precise. Questo avrebbe potuto far credere inutile o impossibile l’esistenza del divino. Ma l’uomo barocco credeva ancora in Dio, in quel dio nascosto di cui parlava anche Pascal. Un’entità che non si poteva vedere nella Creazione, ma che manifestava la propria presenza solo in momenti particolari come i miracoli, quando il funzionamento naturale delle cose si arrestava e avveniva qualcosa che non si poteva spiegare attraverso la ragione o la scienza. L’uomo barocco, dunque, poteva vivere allo stesso tempo nel razionalismo e nella ricerca spirituale. Ed è la stessa per me. Per questo mi sono interessato alla cultura barocca.
Perché ha scelto proprio l’architettura come luogo di incontro tra presente e passato?
Trovo che esista un legame molto solido tra cinema e architettura: in entrambi i casi l’artista crea uno spazio e lo spettatore è invitato ad abitarlo. Inoltre, entrambe queste arti sono un’apertura sulla luce. L’architettura come il cinema si basa sulla luce: quella che arriva dall’esterno e quella interiore, che viene liberata. Nel Settecento la luce diventa semplicemente un’immagine della Ragione, che viene concepita come un’entità a sé stante, quasi indipendente dall’uomo e dal mondo. Ancora oggi viviamo in questo tipo di concezione. C’è una vera e propria frontiera culturale tra il Seicento e il Settecento.
Borromini è il filo rosso della narrazione, e questo l’ha condotta a effettuare le riprese nei territori del Ticino e di Stresa. In che modo questi paesaggi e queste luci hanno influito sulla concezione del film?
Conoscevo la zona del Lago Maggiore soprattutto grazie al Festival del film Locarno, dove sono stato spesso invitato. Devo dire che mi sembra quasi naturale e automatico che chi vive in questi paesaggi di specchi d’acqua e montagne abbia una forte propensione al misticismo, perché è forte la presenza della natura e dello spirito. Non è un caso che i più grandi artisti barocchi – Borromini e Caravaggio – siano nati nel Nord gotico e abbiano lavorato prevalentemente a Roma e al Sud. C’è infatti una tensione molto interessante tra l’intuizione mistica del Nord – delle montagne, della nebbia, dei laghi – e la luce dorata di Roma e del Sud Italia. Anche questo è un ossimoro, e credo che sia stata proprio questa tensione a stimolare l’energia creativa dell’epoca barocca. Nella sceneggiatura originale tutto quello che si svolge a Stresa doveva essere girato a Locarno. Ma i produttori hanno provato due anni a trovare un finanziatore svizzero, senza successo. È lo stesso lago, sono le stesse montagne e sono contento di aver girato a Stresa, ma devo dire che non era questa l’idea originale.
Quest’ultimo film rappresenta una sorta di “viaggio in italia” rosselliniano, in cui si assiste a un miracolo e in cui la coppia torna a essere protagonista, anche a livello drammaturgico. È qualcosa che oggi non si vede spesso sul grande schermo.
Mi è venuto spontaneo, perché la coppia è un modello dell’armonia universale e nel nostro mondo è molto difficile per due persone trovare tale armonia. Il cammino della coppia portagonista del film si dispiega come un percorso di ricerca che, da uno stato di crisi e di assenza di affetto e comunicazione, conduce, anche grazie alla presenza del Borromini, alla riscoperta del senso dell’esistenza e dell’armonia. La storia si basa dunque sull’incontro, e viene detto che quest’ultimo non è mai frutto del caso. Noi spesso pensiamo sia così, mentre in realtà ogni incontro è inscritto in un destino. Non è un pensiero molto di moda, questo, ma credo che il mondo abbia un senso: non esistono casi, ma forze che fanno sì che gli incontri avvengano e che i destini si compiano. In quasi tutti i miei film i personaggi seguono un cammino che pare casuale ma non lo è, e arrivano a un punto dove trovano una luce, un’apertura su qualcosa di più alto.