Un aforisma di Cioran che non mi riesce di ritrovare diceva qualcosa come:«Bisogna diffidare di quello che vogliamo essere, perché lo diventeremo». Difficile trovarne una verifica migliore della traiettoria che ha portato George Lucas dalla sua sedia di montatore alla sua attuale situazione di capo di un potente contro-potere hollywoodiano.
In definitiva uno solo dei suoi film corrisponderà a criteri noti, American Graffiti, un film paradossalmente normale nell'opera del più ermetico e del più marginale tra i cineasti che hanno dato l'assalto a Hollywood nei primi anni Settanta. Fin dall'inizio, Lucas non ha voluto fare niente come gli altri. In lui, che appartiene ad una generazione di cineasti-cinefili, sarebbe ben difficile scorgere la minima traccia di fascinazione per la mitologia del cinema, per le sue stravaganze o il suo Pantheon, e, a maggior ragione, il suo sistema. Mentre altri trovarono nella loro ammirazione per il periodo aureo del classicismo un terreno d'intesa con gli studios necessario alla loro integrazione, Lucas respingeva prima di ogni altra cosa strutture, quadri e gerarchie. In un'epoca in cui il radicalismo fu più che altro una posa, oppure un cavallo di Troia per certuni che si affrettarono ad abbandonarlo non appena si furono sistemati, Lucas nel radicalismo trovò un'ideologia del rinnovamento che sintetizzava le sue intenzioni. Tutti si accorgevano che l'industria aveva radicalmente bisogno di redistribuire le carte; Lucas lo viveva quotidianamente, lui che non riusciva a trovare il suo posto né nella scrittura, né nel montaggio o nella regia.
Perché Lucas è prima di tutto il prodotto di un itinerario di sperimentatore, la cui caratteristica è una continua rimessa in discussione, in aperto disprezzo di ogni riferimento storico. Il suo irriducibile, drastico disinteresse per il contenuto a vantaggio delle preoccupazioni formali o strutturali fu tipicamente quello dei ricercatori underground che cita volentieri. Così la macchina gigante che oggi va costruendo si può paragonare ai micro-sistemi dell'avanguardia nel fatto che è destinata non alla produzione di opere cinematografiche ma alla delimitazione di uno spazio autonomo di sopravvivenza.
Tra il regista che Hollywood guardava con sospetto dopo un film come THX 1138, giudicato troppo freddo, nato da un procedimento troppo teorico, e il produttore di Guerre stellari, la sola differenza è quella tra un concetto balbettante e un concerto compiuto. Il suo punto d'arrivo era già il suo punto di partenza. E dal momento che Lucas è quello che è, il suo successo è indubbiamente uno dei fenomeni più stupefacenti della storia recente del cinema americano. Oltre che, proprio per questo, il colpo più profondo ricevuto dall'establishment hollywoodiano. È presto apparso chiaro, non appena uno dopo l'altro Friedkin, De Palma, Scorsese, Schaffner o Spielberg si stabilizzarono ognuno nel proprio mestiere, che Lucas rimaneva il solo, insieme a Coppola, ad essere portatore, e con quale ostinazione, di un progetto che superava di molto i limiti imposti dalle strutture riconosciute. I due uomini si sono uniti per fondare la American Zoetrope non su un progetto di cinema – Il padrino è stato un film su commissione, una sorta di incidente di percorso – ma sulla convinzione che gli stessi fondamenti del sistema di produzione avevano fatto il loro tempo. E se non erano i soli, a quel tempo, ad esserne convinti, erano però i soli a difendere posizioni tanto radicali e a trovarsi nelle condizioni non solo di farsi ascoltare, ma anche di imporle nei fatti.
Gli eccezionali successi commerciali di Lucas e di Coppola, poi la scissione della loro piattaforma in due entità autonome, ambiziose e operative, hanno conferito al loro scontro con Hollywood le sue vere dimensioni. Le idee giuste fanno strada e un sistema arcaico ne farà fatalmente le spese, questa sembra essere l'idea di George Lucas, che da alcuni anni continua a mostrare ad un'intera industria, con svariate lunghezze di anticipo, la strada del rinnovamento. Questo dispositivo, costruito per rendere ed essere efficiente, e che nella precisione del suo funzionamento mette in ridicolo i meccanismi più oliati delle grandi compagnie, porta nella propria natura limiti molto gravi, o addirittura dei pericoli ormai ineludibili. Esso esclude infatti in partenza qualsiasi preoccupazione anche solo lontanamente artistica a vantaggio di una forma mutante, levigata quanto impersonale, che rischia ben presto di imporsi come dominante. Lucas disprezza le majors per buone e cattive ragioni; le rimprovera per essere ottuse, maldestre e fatue, dimenticando che il corollario di tali difetti è di produrre falle – sinistramente assenti nei Lucasfilms – dove hanno potuto inserirsi e maturare alcuni dei più grandi artisti contemporanei. Lucas, così come Coppola, ha capito che la posta in gioco di questi anni era nientemeno che il futuro del cinema, che fatalmente passerà per quella che al momento è ancora solo utopia tecnologica. L'obiettivo primordiale è quindi il dominio dei materiali e soprattutto la riconversione. In questo campo, le loro piccole unità, proprio per la loro agilità, hanno un vantaggio determinante sulle majors. Siamo dunque in tempi di corsa agli armamenti: da una parte e dall'altra ci si attrezza, e mentre Coppola ha scelto di praticare una guerra insurrezionale di movimento, infiltrandosi nel campo del nemico o provocandolo a suon di bravate, Lucas ha scelto di trincerarsi in una guerra di posizione e si ostina metodicamente ad accumulare macchine come – per restare in metafora – l'Armata Rossa ammucchia bombe ai neutroni. Da moderno manager, segue i metodi di punta e si preoccupa delle tecnologie del futuro senza sapere bene che cinema ci vuol fare.
Suscita una certa ironia vedere due registi che vogliono essere prima di tutto degli autori offrire la dimostrazione di quello che sospettavano, cioè che negli Usa tutto il potere fatalmente si concentra nelle mani del produttore. Gestire macchine come le loro significa innanzitutto adottare una strategia commerciale fondata su una certa unità progettuale. Da questo punto di vista, il successo di Lucas parla da solo. Coppola, che è ben più impregnato dei valori tradizionali della cinefilia, tenta di abbracciare contemporaneamente una rimessa in questione delle strutture e una rimessa in questione della scrittura, che egli giustamente vede indissolubilmente legate. Solo che, tra il suo desiderio di mecenatismo e gli obiettivi tattici che l'economia gli impone, finiscono per essere i registi a subire il peso delle contraddizioni. Tanto più che Coppola, contrariamente a Lucas, non ha mai cercato di circondarsi di “spalle”. Non si può non constatare, infatti, che il prestigio su cui in parte si fonda la Zoetrope Studios è stato veicolato unicamente dall'utilizzo – all'epoca privo di conseguenze – di Michael Powell e di Gene Kelly o dalla distribuzione – redditizia – di Sauve qui peut (la vie) e Napoléon, o ancora da quella – meno redditizia – dell'Hitler di Syberberg. Certo è difficile conciliare una vocazione di fondatore di impero con considerazioni etiche. E nel momento in cui si diventa un onnipotente produttore di punta, bisogna scegliere la propria strada: quella di David Selznick o quella di Howard Hughes, a seconda che ci si faccia carico del potenziale creativo prodotto da questa posizione o che ci si tenga solo lo strumento di potere.
Se è questa seconda via quella che George Lucas sembra scegliere, non bisogna però confonderlo con un manipolatore che si sia procurato i mezzi per le sue ambizioni. George Lucas è prima di tutto un artista concettuale. Ha capito ben presto che nel sistema c'era posto per un solo cineasta: lui stesso, un autore che avrebbe avuto come opera prioritaria il proprio dispositivo. Un creatore di macchine, un creatore di oggetti. I film, li facciano gli altri.
(Cahiers du cinéma n. 328, ottobre 1981. Traduzione di Monica Corbani)