In un saggio di un paio di decenni fa, ancora utilissimo, Fredric Jameson sottolineava che se la narrazione è la degradazione moderna del mito, la forma narrativa della nostra epoca postmoderna, tanto più quanto la globalizzazione trova sempre meno limiti, è la cospirazione. In essa, una totalità abusiva si instaura per sintetizzare elementi troppo dispersi e troppo frammentari per poter stare “organicamente” insieme. Non sorprende che Lav Diaz, cineasta da sempre attento al legame tra locale e globale, afronti con questa sua ultima opera proprio la forma della cospirazione.
From What Is Before copre, grossomodo, i due anni precedenti l'instaurazione della legge marziale nelle Filippine ad opera di Ferdinand Marcos (1972). Si concentra su alcuni abitanti di una piccola località, tra cui l'orfano Hakob e zio Sito che ha cura di lui, il produttore di vini Tony, la giovane Itang e la sorella disabile Joselina, alla quale vengono attribuiti poteri taumaturgici. Strane cose succedono: capanne bruciate, vacche assassinate, un uomo anziano trovato morto con strani segni addosso, un altro più giovane ucciso di lí a poco, un presagio negativo avuto da Sito in sogno. Joselina, poi, viene ripetutamente violentata da Tony. La sorella lo viene a sapere, ma non dice nulla. E quando la situazione degenera, la sua omertà viene moltiplicata da quella dei compaesani: tutti, in un verso o nell'altro, nascondono qualcosa. Viene a formarsi dunque un tessuto di reticenze, di segni misteriosi, di interrogativi che, anche quando trovano risposta (Hakob finisce effettivamente per scoprire il bovinicida – che pare non abbia rapporti col resto delle disgrazie) non riescono a fugare il sospetto (che Diaz stesso, in parte, sottilmente fomenta) che tutte quelle domande, una a fianco all'altra, suggeriscano una spiegazione ulteriore, superiore, totalizzante. Il nome arcaico di questo fenomeno (ancora ben vivo, in quel barrio, all'inizio degli anni '70) era “magia”; quello moderno, appunto, “cospirazione”. Nel film, queste due cose trovano una convergenza assolutamente nitida allorché il villaggio finisce per essere occupato dai militari, in cerca di un più che mai pretestuoso “nemico”. In altre parole, esiste una zona oscura dovuta a un'impossibilità di fondo di “unire i puntini”, di collegare fra loro fenomeni tenacemente opachi, ed è dunque un'incapacità propriamente narrativa, non da parte del film (che anzi ci gioca deliberatamente), ma dei suoi personaggi; chi capitalizza, attecchendo su di essa, questa zona oscura, che tutti contribuiscono a ingrandire con le proprie reticenze, è l'élite militare che si viene ad insediare.
Diaz va in direzione risolutamente contraria rispetto a questa capitalizzazione che caratterizza il potere autoritario. Davanti ai buchi di una narrazione di se stessa che questa piccola comunità non riesce a compiere, Diaz non si copre gli occhi (come fanno appunto i suoi personaggi, cacciandosí cosí in un circolo vizioso di cecità e di impotenza di cui il potere ha buon gioco ad approfittare), ma guarda dritto proprio dentro a quei buchi, scoprendo che in realtà sono pienissimi. Essi infatti sono vuoti solo se si persevera nell'ottica narrativa, quella della concatenazione temporale. Ma questa dimensione, in realtà, Diaz la approccia (e non c'è dubbio che la tenga ben presente) principalmente per aggrapparvisi, compiere una torsione a 180 gradi e andare a vedere il suo “lato B”, la sua altra faccia, che è eminentemente spaziale.
Questa dimensione spaziale è in definitiva il “respiro” del cinema diaziano. Consiste innanzitutto nel suo affiancare blocchi di durata tendenzialmente autonomi, che spesso si richiamano l'un l'altro attraverso connessioni evenemenziali disposte a una distanza reciproca anche molto grande all'interno delle ore di proiezione richieste dal film. Di norma sono piani-sequenza – anche se, rispetto al solito, abbiamo in From What Is Before un buon numero di cambi di angolazione dentro una medesima scena (persino uno stacco sull'asse, in quello che è forse il momento più emotivamente incandescente di tutte le sue quasi sei ore). In ognuno di questi blocchi, si tratta innanzitutto di trovare l'angolazione giusta affinché l'inquadratura, spesso larga (oltre che lunga), fissa, tutt'al più “aggiustabile” tramite qualche leggero movimento laterale, raggiunga una sorta di soglia minima di compostezza e stabilità figurativa. All'interno di essa, gesti, spostamenti, parole, ambienti, trovano nel tempo non una camicia di forza, ma un'occasione di reciproca coordinazione – anzi: coreografia – e di scansione ritmica. Il tempo insomma è assai meno il veicolo della storia che una diversa dimensione di quest'ultima: la dimensione dello spessore, che la trasfigura trasfigurando la nostra percezione di essa, immergendoci in una congerie organica di dettagli che merita ancora il vecchio nome di “romanzesca” (oltre che l'abbandono a 5, 6, 11 ore o più di attenzione spettatoriale). Il tutto con la massima naturalezza e fluidità possibili – o meglio: compiendo senza darlo a vedere tutti i salti mortali necessari per attenersi alla seguente, semplicissima regola aurea: l'azione ha un ritmo suo, e bisogna assecondarlo, e aiutarlo a formarsi, senza curarsi troppo degli imperativi drammaturgici, ma con due, tre occhi invece sulla situazione che la ingloba. In questo modo, si trova il suo ritmo, la sua forma – meglio: la sua cristallizzazione. Se servono anche parecchie dozzine di secondi per vedere arrivare i personaggi dal fondo dell'inquadratura (in modo da evitare il senso di teatralità che conseguirebbe dall'abuso delle entrate in scena laterali – che pure ci sono), ci si soffermi pure. Non che non ci sia una certosina alternanza tra tagli sull'azione e sequenze più distese: non siamo insomma di fronte alla pedissequa applicazione di un metodo rigido. L'importante è trovare la giusta segmentazione del presente, e la giusta articolazione del flusso, ricostruito qui più che mai dal punto di vista del Tutto che la ingloba: la natura.
Mai come in From What Is Before è riconoscibile l'attenzione al dato naturale: la pioggia (che più di una volta inizia a scrosciare nel bel mezzo di una scena), le onde contro le rocce, il vento, i repentini cambiamenti di intensità della luce naturale all'interno di una stessa inquadratura… è in ogni caso una natura “matrigna”, che si dà come discontinuità (il rischio di epidemia dovuto alla morte violenta dei bovini…) e non come totalità semplicemente trascendente. Il centrale personaggio di Joselina, disabile con (presunti?) poteri curativi, periodicamente portata dalla sorella a offrire doni votivi e preghiere su uno scoglio sul mare perennemente agitato, indica con chiarezza che la potenza della natura non deriva da una qualche sublime pienezza, ma da una intrinseca inconsistenza. Superstizione o meno, è Joselina, incarnazione della frattura in seno alla natura, ad essere l'unica speranza nel villaggio. E a un livello appena ulteriore, la stessa cosa vale per il “respiro” cui dà forma il cinema di Diaz. Il tempo non scorre liscio, una fessura si apre al suo interno, ed è lí che il cinema ha la chance di esercitare/trovare la sua azione maieutica. È lí che, con un lavoro registico paziente, certosino e capace di cancellare le proprie tracce, c'è la possibilità di rinvenire la compatibilità miracolosa tra il darsi amorfo, insalvabile del tempo, e la cristallizzazione che lo salva. Quando la fessura si richiude, e Joselina viene restituita al ventre onnipotente della natura, tutto è perduto, e la dittatura militare ha la strada spianata. Il formicolio di concause possibili, nessuna davvero esclusiva o risolutiva, lascia il posto a un effetto reale e irreversibile, che colma abusivamente questo scarto.
L'indiretta inclusione di Diaz stesso nel cast è un altro segno difficilmente equivocabile di questa importanza data alla natura a patto che venga concepita come frattura e non come mistico ventre materno. La madre di Hakob, appunto, muore dandogli la luce. E Hakob non è un personaggio qualsiasi: ha pressappoco l'età che aveva il regista tra il 1970 e il 1972, e come lui lascerà la sua isola natale. Hakob se ne va per cercare le sue origini, i suoi genitori. Speranza vana, perché essi sono morti, anche se lui non lo sa. Ma non è l'unico alter ego del cineasta. Ce n'è un altro (esplicitamente associato al primo da Sito stesso in una breve scena): un vecchio poeta che dopo quarant'anni torna nella sua terra d'origine, vanamente nostalgico di un paradiso che non c'è mai stato ma che era comunque tale semplicemente perché era l'età della sua infanzia: un'epoca in cui (come nelle prime, quasi idilliache scene del film) lo squilibrio interno alla natura veniva sedato con il toccasana del rito, e in questo modo si scongiurava quella disgregazione che From What Is Before mostra, e che il potere autoritario capitalizza. Uno parte in cerca di ció che l'altro, che proprio in quel momento ritorna, non ha mai trovato, se non in ció che il primo non sa di avere già: sdoppiandosi in questa maniera, Diaz confessa che l'utopia in cui bisogna rintracciare la resistenza innanzi allo sfacelo è una ricerca dell'origine, di ció che precede la Caduta, che si sappia già persa nel momento stesso in cui la si compie. Poco prima dei titoli di coda, vediamo infatti il ritualissimo funerale del vecchio poeta, ed è un commiato con cui al contempo si abbandona e si rivendica la ricerca dell'origine, il rito con cui si mette una pietra sopra alla nostalgia del rito.
Il rito che viene sognato è insomma un rito sganciato interamente dal mito, la cui illusoria consistenza appare in definitiva come la truffa di un potere abusivo. È un rito celibe, squisitamente cinematografico, che coincide con ció che si intende per mise en scène, e assomiglia semmai alla ripetizione articolata e strutturata del trauma come paziente percorso terapeutico per neutralizzarlo. In un micrometraggio di una novantina di secondi commissionato nel 2013 dalla Mostra del Cinema veneziana in occasione del suo settantesimo anniversario, Ang Alitaptap (La lucciola), si sentivano in voce over questi versi (composti dallo stesso Diaz): “arriverà il giorno in cui prenderemo il largo dai misteri della mitologia. Allora canteró delle canzoni che ti renderanno libero”. La cospirazione, intesa come forma narrativa, non è che la più recente discendente del mito. E in From What Is Before, effettivamente, seguiamo il compiersi di una cospirazione, ovvero dell'instaurazione abusiva di una totalità che sussume un insieme di frammenti che non stanno insieme. Diaz mette inoltre bene in chiaro che questa dinamica, che caratterizza tipicamente la globalizzazione, altro non è (cfr. il personaggio dell'ambulante, o lo sprone all'incremento di produzione subito da Tony) che imposizione su scala capillarmente locale dell'economia di mercato: praticamente, colonialismo con altri mezzi. Se dunque la sua (lo dice lui stesso in voce over) è un'elegia per una nazione, la propria, definitivamente perduta, non dobbiamo pensare che la sua elegia non ci riguardi tutti, ovunque noi siamo. Tuttavia, proprio mentre riproduce questa china rovinosa culminante nella legge marziale imposta da Marcos, Diaz cerca di prendere il largo dalle opacità della cospirazione locale/globale, e tenta di andare in direzione contraria, di innestare una sorta di contromovimento. Se concede che il telos, il fine della narrazione sia nefasto (perché le sue smagliature vengono capitalizzate dalla stretta cospirativa), suggerisce anche che la redenzione stia nel mezzo anziché nel fine. Globalizzazione è trionfo dello spazio: simultaneità compiuta. La sua arma è il digitale: riduzione del mondo a dati numerici passibili di immediata trasmissione. Lo sforzo titanico di Diaz è quello di usare il digitale senza farsene usare, ma per dimostrare invece con splendida flagranza che la parola “spazialità” non indica solo l'annullamento delle distanze possibile attraverso la smaterializzazione numerica, ma anche qualcosa di molto più antico e preziosamente persistente: la relazione tra uomo e ambiente. Saper cantare quella “analogica” relazione, attraverso il digitale, vuol dire sapere cantare canzoni che ci renderanno liberi.