Breve romanzo riletto, sul finire degli anni 50, dalle immagini in movimento dell'omonimo film di Luchino Visconti e nel 1971 da quelle del Robert Bresson di Quattro notti di un sognatore, Le notti bianche di Fëdor Dostoevskij ritorna al cinema con Paul Vecchiali e il suo Nuits blances sur la jetée, dopo i recenti, seduttivi e repulsivi accostamenti alle sue pagine dell'abbacinante vertigine mélo Two Lovers di James Gray, tragedia piccola e ridicola sull'autismo adolescenziale del contemporaneo, e l'inscheletrito Quattro notti di uno straniero di Fabrizio Ferraro, ulteriore episodio di una pretesa ecologia dello sguardo, sedicente retorica del rigore, letteratura ridotta al baluginar della luce.
Storia di un personaggio che «è tutto nella rassegnazione» (Angelo Maria Ripellino) delle sue prigioni, lontano dall'epilessia emotiva, dall'oscillare nervoso che scuote e strema i personaggi dostoevskijani, il protagonista di Le notti bianche abita la deserta oscurità di Pietroburgo per bramare il crepuscolo del reale, per proiettare finalmente le proprie figure chimeriche, il teatro del suo desiderio disperato d'affetto, del suo romanticismo libresco, e poi dell'intimo masochismo che lo muove, e che incontra nella fine umiliante di un sogno cercato per il fallimento. Una storia, dunque, che è anche quella di ogni fuga da fermo, del fare, e del guardare, il cinema: «Un attimo di vera beatitudine! È forse poco per riempire tutta la vita di un uomo?». Vecchiali – regista da sempre marginale, anarchico e fuori dal sistema industriale, sempre in grado di fare delle secche economiche pregiudiziali stilistiche, contaminando e prosciugando ogni genere, lasciandosi ossessionare dal melodramma in quanto forma di allucinazione emotiva che travolge ogni smaccatissimo artificio teatrale, ogni ricercato distacco brechtiano – gira (come accade frequentemente nel suo ultimo cinema) a pochi chilometri dal luogo in cui abita, con una Canon 5D per la notte e un iPhone per le riprese diurne, e con due soli attori (Pascal Cervo e Astrid Adverbe, gli stessi del coevo cortometraggio La cérémonie) a cui egli s'accosta in principio per un breve cameo. E sulla spiaggia di Saint Martin, tra le luci della città che si riflettono nel mare, con gli strumenti tecnologici di un realismo che si potrebbe sciogliere nel vero, gira come in Femmes femmes un'altra mesta recita allo specchio, cogliendo la timida e misera chiusura, la perdizione frustrante nelle proprie fantasie del suo Fëdor, esasperando il dialogo come dispositivo dostoevskijano non solo di scandaglio interiore, ma anche e soprattutto di autofiction al lavoro, di romanzesca alienazione, di un reale che s'astrae nella nebbia del racconto.
Un paesaggio notturno con figure che sono inermi e tenere ombre di una lanterna magica egoriferita, autocommiserante e decisamente ironica (si senta lo squillo di cellulare che interrompe per sempre l'impossibile incanto), inquadrate da Vecchiali in lunghi e verbosi piani medi, in una forma che intorpidisce lo sguardo dello spettatore nel languore omogeneo di un piano realismo letterario, così che ogni scatto divergente (una parentesi in bianco e nero, un sublime, indimenticabile a parte danzante, l'avvicendamento improvviso di due primi piani) produca un fortissimo senso ulteriore nella calma ipnotica del racconto. Così, con un'economia narrativa sapiente, giocata su un modulare placido e sottile che è proprio di pochi registi europei (DeOliveira, Kaurismaki, Brisseau), Vecchiali certifica in queste notti invetriate e bianchicce, facendone a tratti una conscia caricatura, il cinema digitale come luogo in cui il vero rivela i suoi fantasmi, in cui lo sguardo, troppo prossimo, troppo dentro al reale, non può che allucinarlo, ed estendere sul mondo inconoscibile l'ombra ingombrante del sé, dell'ombelico dell'uomo.