Negli anni Novanta (e oltre), alcuni buontemponi prestati alla teoria, probabilmente sulla scia di un po’ di Baudrillard mal digerito, si misero a profetizzare il declino del “referente indexicale”, la fine dell’aggancio fotografico con il reale che è prerogativa dell’immagine cinematografica, per mano delle sempre più pervasive tecnologie digitali. Grazie alle sempre più vertiginose possibilità pittoriche che il digitale ci mette in mano, ben presto, secondo costoro, non avremmo saputo più che farcene della riproduzione “lumieriana” della realtà: Brandon Lee, o chi per lui, avrebbe potuto risorgere in mille altri film post-mortem, rendendo inutile che ci si prendesse ancora la briga di piazzare degli attori davanti a una macchina da presa.
C’è voluta la motion capture per sconfessare una volta per tutte questa inconsistente angolatura teorica. La punta più avanzata, ad oggi, della tecnologia digitale al cinema (ne è la prova l’infatuazione che i sommi tecnologi holywoodiani Zemeckis, Cameron, Spielberg, Jackson hanno avuto per lei) non va affatto in direzione del priapismo pittorico, della possibilità di creare ex novo qualsiasi immagine si voglia. Ritorna, invece, verso la fotografia: si tratta infatti, pur sempre, della captazione (a suo modo) fotografica del movimento (in vista naturalmente del suo innesto su immagini digitali).
Ecco perché, nel suo magnifico Holy Motors, Carax fa entrare Denis Lavant in uno studio di motion capture e gli fa indossare i sensori. La “mocap” non può mancare in un film che celebra, con immensa malinconia e altrettanta libertà, la presenza residuale del cinema all’ombra della minaccia della sua morte. Il digitale, ciò che fa rimpicciolire gli obbiettivi, ciò che avrebbe dovuto sancire la morte del cinema e della sua base fotografica, ne garantisce invece un’inattesa resurrezione. Anzi: ne riscrive retroattivamente il passato. Perché la motion capture anziché portare il cinema in un futuro immaginato da teorici frettolosi, lo riporta indietro scavando un tunnel anacronistico che arriva fino alla “cronofotografia” di Etienne-Jules Marey, cruciale pioniere cinematografico di fine Ottocento per il quale l’apparecchio in questione era, innanzitutto, preziosissimo strumento di analisi del movimento.
“La bellezza è nell’occhio di chi guarda”, dice con sufficienza il personaggio di Michel Piccoli: tutto Holy Motors prova a smentire questa vulgata, a dimostrare che no, la bellezza è nelle cose, non nel piccolo potere del soggetto di crearsi una bellezza su misura per il proprio occhio (magari con i nuovi strumenti messi a disposizione dal digitale). Il problema è cosa intendere con questo “nelle cose”. Carax scarta la soluzione più facile e ingannevole: la riproduzione “lumieriana” della realtà. No, non è questione di riprodurre la realtà, non è questione di Lumière: è questione di movimento, è questione di Marey. E infatti sono di Marey, e non di Lumière, gli spezzoni che saltuariamente interrompono il film.
Carax insomma traccia un’asse Marey/motion capture sulla base della supremazia del movimento come quintessenza cinematografica, la quale se ne frega che ci sia o meno un occhio a guardare un corpo o un corpo a esibirsi per un occhio. È ciò che spiega Lavant a Piccoli: lui continua a cercare la bellezza del gesto anche se gli apparecchi di ripresa si sono rimpiccoliti fino a scomparire, anche se appunto non c’è più un occhio che la guarda. Basta il movimento, basta esserne posseduti, basta che il corpo si esaurisca in esso (nel gesto, appunto), incurante dell’occhio: ecco perché il regista sceglie un attore dalle movenze violentemente inconsulte (un corpo selvaggiamente subordinato al movimento) come Lavant, uno che non ci meraviglieremmo se venissimo a sapere che abita insieme a delle scimmie (come ci suggerisce il finale). L’occhio e il corpo spariscono entrambi nella medesima reciprocità che li stringe: resta il movimento, che non è poco, è anzi quasi tutto. Già la prima scena lo mette in chiaro: Carax in persona viene seguito dalla cinepresa mentre cammina circospetto dentro un’affollata sala cinematografica nel corso di una proiezione, senza che gli spettatori né lo schermo vengano inquadrati troppo frontalmente – insomma: la dialettica guardante/guardato non è affare del cinema, il quale è invece fatto per marcare da presso il movimento in tutto il suo inesauribile mistero.
Tornando infatti a questo asse Marey/motion capture, che cosa ci troviamo in mezzo in una ipotetica linea del tempo? Georges Franju. Uno che sapeva trasmettere inquietudine senza nessun trucco, con gli oggetti più ordinari del mondo: gli bastava farli muovere. Oggetti inerti all’Hotel des Invalides nel suo film omonimo: alla macchina da presa bastava muoversi per inquadrarli, ed eccoli caricati di un miliardo di incandescenti implicazioni e stratificazioni. Edith Scob (coprotagonista, appunto, di Holy Motors) con una maschera non fa nessuna paura: appena si mette a camminare nel suo Occhi senza volto, con la macchina da presa che la segue in un certo modo, è il terrore totale. C’è molto Franju nello stile che qui impiega Carax, nella sua inquieta nonchalance, nello strano torpore con cui impasta insieme i movimenti degli attori (lasciati dipanare con un ritmo disteso fino all’opacità) e i movimenti lenti, discreti, insinuanti della cinepresa.
In altre parole, Franju, del mistero del movimento, fu tra i sommi sacerdoti. La parola “mistero”, qui, non ha nulla di gratuitamente mistico, ma, se vogliamo, ha persino fondamenti scientifici. Non c’è verso di riuscire a scomporre il movimento in una serie di pose statiche tra le quali sarebbe estraibile una continuità mobile. No: il movimento (secondo Bergson/Marey/Deleuze) eccede sempre i tentativi di scomposizione analitica, c’è sempre una qualche discontinuità che complica le cose. E Holy Motors è costruito precisamente in questo modo: il movimento liscio e continuo di una limousine, che penseremmo equivalere al risultato composito di una sequenza di pose statiche (le singole maschere che il personaggio di Lavant interpreta e avvicenda) se non fosse, invece, attraversato da mille discontinuità, invenzioni improvvise, tangenti pazzoidi, imprevedibilità assortite, deviazioni inattese. In questo senso, il piccione che dal nulla si fionda sulla vettura è la cifra fondamentale di un film tempestato da continue, irresistibili discontinuità a sconvolgere il liscio fluire che ne sta alla base – quasi a ricordarci che il movimento è fatto di discontinuità. Non c’è digitale che tenga: il movimento non lo si può davvero creare a tavolino, lo si può solo ricalcare, riprodurre, rincorrere.
Un posto speciale, in questo unico e franto movimento ideale che è Holy Motors, ce l’ha l’episodio con la vecchia amante del protagonista da un passato che non ci è dato conoscere. Anche qui è ben presente sullo sfondo la motion capture. Perché in quest’ultima, la matrice del movimento, ovvero il corpo, c’è ma non si vede, perché l’unica cosa che si “vede” (si fa per dire) è il suo movimento. Anche l’amore tra i due, sappiamo che c’è stato ma non lo vediamo, è un’origine perduta, proprio come il corpo nella motion capture. E infatti nella sequenza in cui Lavant recita in uno studio di motion capture, c’è anche una scena di sesso – ma senza penetrazione, dunque sterile: l’origine viene ancora una volta tenuta fuori. L’immensa malinconia del film sta proprio in questo: sappiamo, soprattutto grazie alle allusioni a quell’amore passato, che Lavant un tempo fu “una persona vera”, non condannata come ora a passare di maschera in maschera. Questa “persona vera”, però, è definitivamente inattingibile (per quanto “ci sia stata”, a tutti gli effetti): per lui non c’è più corpo, ma solo il movimento che di volta in volta “veste” le successive metamorfosi. Come nella motion capture.