Elias Canetti – da cui traggo il titolo – rinviene nella conversazione la base dei grandi romanzi del secolo scorso. È gioco forza constatare come quella conversazione oggi non esiste: non c’è più “una società in cui si conversa e si comprende ciò di cui si va conversando”, essendo la struttura del dialogo incompatibile con la società dello spettacolo. La struttura dinamica, anche se fortemente normativa – come sottolinea lo stesso Canetti –, della conversazione, capace di ricoprire l’intero spettro delle attività umane, ha lasciato il campo alla chiacchiera, al monologo, alla riflessione. Ciò che è venuto meno non è tanto la parola quanto l’ascolto. La sua possibilità come fase preliminare al rilancio. Come in uno scambio tennistico, la conversazione presuppone un imprescindibile istante di silenzio: il momento in cui la frase dell’uno è terminata e la risposta del secondo deve ancora aver luogo. Questo istante rappresenta l’essenza stessa della comunità: il momento in cui la parola risuona senza appartenere più a chi l’ha pronunciata né a chi la riceverà.
Mi piace rinvenire il corrispettivo di questa conversazione nel “decoupage” del cinema classico, dove appunto lo scambio (di battute o di inquadrature) può diventare frenetico, proprio perché si condivide il presupposto di un istante comune (il concetto di inquadratura o – a un altro livello – il vuoto che collega i due fotogrammi). Il cinema classico presuppone una comunità che nel film arriva a proiettare se stessa, con tutte le ambiguità che collegano star e personaggio, filmico e pro-filmico, spettatore e attore. La condivisione di uno stesso orizzonte è addirittura il soggetto – diretto o indiretto – di molte pellicole. Tra queste la più paradigmatica è senza dubbio La folla di King Vidor che, alla fine del suo percorso narrativo, sancisce la sovrapposizione tra spettatore e personaggio. Questa equazione determina un modo di filmare il personaggio in continuità con l’ambiente urbano da lui abitato. E tale assunto è vero – come bene mostra L'ora di New York di Vincente Minnelli – anche quando il personaggio assume i panni dello straniero (va detto che nel cinema classico lo straniero è sempre tale per finta, visto che condivide il linguaggio – e in fondo la cultura – del luogo che visita). La sala cinematografica brulicante di risate con cui si chiude La folla è allora l’espressione del desiderio di fondo della macchina cinema, ovvero il suo sovrapporsi ad una comunità, dando l’illusione che il personaggio sia ormai fuso con l’ambiente.
Due film presentati a Cannes riproducono l’immagine di una platea. In entrambi i casi essa è silenziosa: ascolta qualcosa che avviene in fuoricampo. Se in Amour tale situazione è realistica e motivata dalla situazione (siamo in una sala da concerto), in Holy Motors il pubblico cinematografico ha un ché di sinistro. I suoni non sembrano diegetici, provengono da un possibile altrove contiguo ma esterno alla sala. La sala è immobile e le teste degli spettatori, illuminate dal fascio di luce, appaiono tutte grigie. Non solo gli eventuali personaggi sono indistinguibili dal resto della sala, ma si ha come la sensazione che essi non ci siano più. Ovvero che la sala – nonostante le persone – sia vuota. La cesura – sempre presente – tra schermo e spettatori si è assolutizzata. Come a dire che il cinema non è più immagine di una comunità, non perché il primo abbia perso la sua funzione, ma perché la seconda non c’è più.
In modo ancor più singolare, due film presentati a Cannes hanno scelto lo spazio – ampio ma circoscritto – di una limousine come luogo d’elezione del racconto. In Holy Motors la “limo” diventa una sorta di atelier, che può ricordare il laboratorio di Méliès. Il personaggio non la abita: la usa, come si usa un camerino (a ben vedere, il film è una visione sul “dietro le quinte”, su quello spazio fluido e modulabile che rende possibile una perfomance). Si denuda, si traveste, mangia, cambia pelle… Al contrario di ciò cui dovrebbe alludere, la macchina è lo spazio della verità, cui si contrappone una Parigi “dal vero” che diventa il teatro di una rappresentazione (questa situazione rispecchia l’ossimoro del titolo, che affianca sacralità a meccanica e così facendo definisce la religione della macchina-cinema, resuscitandola nel momento stesso in cui la dava come defunta). A differenza della fluidità magica tra corpi e luoghi, descritta in Les Amants du Pont-Neuf, la Parigi di Holy Motors è una città attraversata dal corpo mutante di Denis Lavant, ma sempre da lui separata. Una città fantasma che vive sulle sue rovine o nel ricordo di scene già avvenute, come fa intuire la splendida sequenza con Kylie Minogue. Per la struttura stessa della rappresentazione tra città e personaggio, tra comunità e individuo i rapporti sono impossibili. Di qui Carax tira fuori il pathos di cui vibra il personalissimo melodramma che palpita sotto la superficie del suo film. Nessun pathos e nessun melodramma sono invece presenti in Cosmopolis, ritratto di una città esplosa in cui gli individui sono isole. La limousine è solo uno strumento con cui attraversare questo desolante arcipelago. Il carapace della macchina si rivela una membrana fin troppo sottile, che invece di proteggere concede continue via d’accesso. Così il non-spazio della limousine viene di volta in volta occupato/invaso/sfiorato da personaggi tanto eccentrici quanto poco significativi, che finiscono per esaltare l’idea di fondo del passaggio.
Sette erano i film di produzione americana in concorso in questa edizione di Cannes. Tutti sono sembrati invasi dalle parole. Parole melodrammatiche che vogliono esaltare l’epica in minore di una situazione (Lawless), parole che dettano la messa in scena (Paperboy) o che si sostituiscono ad essa (Killing Them Softly). Parole che appaiono come l’ultima disperata opzione con cui proteggersi dal vuoto sociale circostante. Parole che nascondono un silenzio altrimenti insostenibile – non quello di uno spazio condiviso o di una distanza necessaria che separa corpi desideranti. Le parole di cui abbonda Cosmopolis sono l’incarnazione del peggiore degli incubi, la conferma non solo che l’uomo non è più un essere sociale, e che dunque la sala cinematografica in quanto metafora di una comunità non ha più luogo di essere, ma che pure il suo logos si è dissolto in un gioco di probabilità dove l’errore vorrebbe essere bandito. Probabilmente l’avverarsi di quella profezia – “lo sanno che stiamo portando loro la peste” – lanciata nel precedente A Dangerous Method.