L'estate in cui a dominare è la parola selfie, talmente in voga da farci dimenticare gli altri potenziali formati delle immagini fotografiche e talmente autoritario da rendere possibile il controllo totale della costruzione della nostra effige, è stata aperta – oserei dire illuminata – dal talento visionario di un venticinquenne che ha operato una riduzione del campo del visibile, imprigionando i suoi protagonisti in uno strano formato per il cinema contemporaneo e sprigionando la forza ontologica dell'immagine cinematografica, in un grido lacerante nei confronti del reale.
Quando, in una delle tante file del festival di Cannes, mi è arrivata all'orecchio la voce di una ragazza che, avendo visto Mommy di Xavier Dolan in una proiezione anticipata per il mercato, sosteneva che fosse un po' come guardare un film dal buco della serratura, ho sperato che la scelta (sempre diversa) del formato cinematografico per il giovane Dolan non fosse diventata ormai una maniera. La mente è corsa al voyeurismo di un figlio nei confronti della madre, già tematizzato in altri suoi film, ma anche a una suggestione forte che aveva dettato la scelta dello splendido quattro/terzi di Laurence Anyways: stare vicini ai personaggi, permettere loro di non annegare nel paesaggio, nella società, nel mondo, ma trovare il giusto modo per viverlo, abitarlo, farne parte seppure restando sempre ai margini.
Laurence Anyways, uno dei più intensi e complessi melodrammi degli ultimi anni, capace di rivelare la maturità del regista più di tutti gli altri film, è la ricerca non tanto d'identità quanto di un legame/rapporto come unica apertura verso il mondo. Solo apparentemente la vicenda segue la trasformazione di una costruzione del sé: il fascinoso poeta Laurence che diventerà all'apparenza una donna dal look sempre più ricercato. In realtà, la forza narrativa del film, la sua apertura, sta nell'impossibile conciliazione tra un'identità trans (che Laurence ha sempre avuto e avrà sempre) e l'amore nei confronti della estroversa Fred, bellezza solfurea e fragile, che continua a desiderarlo come uomo. Un legame impossibile, in cui si concretizzano le diverse tensioni tra maschile e femminile: Laurence intento a razionalizzare l'irrazionale e a indicare la società e i suoi pregiudizi come antagonista; Fred pronta a far esplodere queste semplicistiche convinzioni, portando alla ribalta le sue pulsioni profonde e i suoi desideri radicali.
La profondità dei sentimenti messi in campo diventa una rosa di possibilità espressive, al cui centro stanno i personaggi, con i loro volti e le loro nuche, esaltati sia dalla scelta del formato sia dai costumi eccentrici che sembrano farci dimenticare i loro corpi, incorniciando ed esasperando i loro stati emotivi. É infatti la nuca china del professore Laurence a segnare il punto di svolta nella sua scelta di rendere evidente la sua diversità: mentre segue annoiato i suoi studenti intenti in un compito in classe, gioca con delle graffette, trasformando le sue unghie corte in artigli felini che dilaniano il suo collo contrito. Da quel momento iniziano i travestimenti: gli orecchini e le giacche di Laurence, i maglioni eccentrici di Fred, in un gioco – contenuto già nei loro nomi – che valica i gender e per un po' nasconde i turbamenti della coppia. Insieme sono cool, e non è un caso che i picchi del loro amore siano coronati da una pioggia sgargiante di vestiti al vento: senza corpi, solo abiti e stoffe dai colori fulgenti, in un trionfo della leggerezza che dura solo qualche istante (eterno nella memoria e nell'immagine).
Una liberazione della moda dal corpo (con un curioso rimando alla teoria sottesa a un altro grande film, molto sottovalutato all'ultimo Festival di Cannes, Saint Laurent di Bertrand Bonello, che dietro l'alone glamour solleva una riflessione articolata sul genio artistico nella società del consumo), che in maniera inquietante rende possibile ricordare la coppia protagonista, alternativamente grazie ai loro volti o grazie al loro look (la bruna chioma sfilata e il tailleur femminile di Laurence, i capelli con chatouche rosso fuoco e le linee minimali blu elettrico degli abiti di Fred): quasi fossero due istanze separate, a sottolineare le dicotomie persona/personaggio, individuo/società, essenza/apparenza. Nella liberazione dell'apparenza, e nell'esibizione del simulacro (direbbe l'Yves Saint Laurent di Bonello), il nuovo personaggio cinematografico ritorna a vivere le sue pulsioni viscerali, torna a interrogarsi sul mondo più che sulle sue sembianze, a metterci di fronte all'intimità e alle scelte esistenziali come dimensione complessa da esplorare sullo schermo, facendoci tornare a credere a un impossibile legame tra cinema e mondo.
Non è un caso che nonostante la passione esibita per Gus Van Sant, Xavier Dolan metta in scena personaggi e non fantasmi, uomini e donne scossi da desideri e passioni, pulsioni terrene e aspirazioni ideali, scelte concrete e gesti disperati, impossibili da nascondere e imbrigliare nelle loro fantasiose vestizioni. La pulsione scopica, che tanto ha segnato il cinema postmoderno, nel giovane autore canadese è quasi assente: laddove c'è, è esibita (il cambiamento di Laurence, guardato da colleghi e studenti nel corridoio della scuola, piuttosto che l'attrazione del protagonista di Mommy per un bello skater), ma non assume mai una statura simbolica importante. Attraverso le occhiate (“il buco della serratura”), si rivela la pura superficie; la strada per entrare in se stessi e nel mondo sta invece nell'incontro. Non a caso la particolarità del formato sempre più verticale supporta Dolan nel tenere separati i personaggi dei suoi melò, quasi potessero procedere per singole “arie” prima del tripudio del duetto, come insegnano le partiture di opera lirica. C'è dialogo tra loro, pura parola, raramente (e in momenti fortemente incisivi) si trasforma in scontro o in abbraccio: allora i vestiti possono volare via per dare vita ad un superamento del reale traumatico, verso una possibilità di conoscenza del mondo, attraverso – potremmo dire – il tatto.
Di fronte a Mommy, vincitore in pectore di questa edizione di Cannes e sicuramente opera con cui confrontarsi non tanto per la potenza espressiva quanto per la novità sottesa, non si può parlare di “buco della serratura” ma di “campo escludente” che Dolan mette in atto strizzando l'occhio ai nostri quotidiani modelli di rappresentazione. Il film “formato selfie” diventa l'opera che sintetizza l'impossibilità di una relazione (e di un'unione, un ritornare tutt'uno) tra una madre e un figlio, che si scambiano il posto nel risicato quadro attraverso cui lo spettatore ricostruisce la loro vicenda. Un gioco di spazi, uno scambio di volti, pensieri e collanine, che rendono reale un rapporto difficile tra un adolescente con un forte deficit d'attenzione (che sotto stress si trasforma in pura violenza distruttrice) e una madre sola e caotica che si ritrova a scegliere se tenerlo con sé o affidarlo all'istituzione pubblica.
Il processo di allontanamento da se stesso (dalla sua vicenda personale, da cui prendeva spunto sia il primo che il secondo film) e dal punto di vista giovanile attraverso cui filtrare il racconto, sembra aiutare Dolan ad avere più fiducia nei propri personaggi: in Mommy si affida all'andamento nervoso di una donna di mezza età che accelera e rallenta la narrazione a suo gradimento, e persino quando dedica spazio a Steve, lontano dalla casa, la sua immagine è filtrata dall'occhio materno (o comunque adulto) che conferisce all'adolescente il sapore mitico della giovinezza, come epoca delle infinite possibilità. E sta, ancora una volta, in questo conflitto tra l'indeterminatezza del tempo e la forza del destino, il cuore dolente e tragico di un'opera che si presenta soltanto apparentemente come una denuncia concreta a una legge entrata in vigore in Quebec. Legge che frattura i rapporti, in nome della “giustizia”, e che isola i diversi dalla possibilità di trovare un proprio spazio, una casa, un amore. Una poetica che porta Dolan a essere pre-politico, lontano dal credere in una struttura condivisa, ma non per questo avverso o poco incline a cercare una possibile comunione tra i suoi personaggi, che appaiono troppo fragili persino per dar vita a una comunità marginale (derisa da Fred quella dei trans in Laurence Anyways, divisa al suo interno quella creata in un momento d'utopica unione dalle due madri sole in Mommy).
Nel disperato grido di Mommy sta la difficoltà di trovare uno spazio all'altro in noi stessi. È la sfida troppo grande di fronte a cui è posta Diane che sovrappone i suoi desideri con le possibilità di Steve: un amore da mamma capace di trasformare in cinema-scope una vita in formato selfie. Ed è proprio qui che Dolan innalza il suo racconto a una riflessione sulle possibilità del cinema, come macchina cristallizzatrice dei desideri e al contempo in grado di sintetizzare i conflitti dell'animo umano. E il vero gesto politico, da parte di questo ragazzo troppo modaiolo per piacere a chi ha scordato la fragile assolutezza dei suoi vent'anni, sta nell'utilizzare il formato del simulacro per eccellenza (nella precarietà dei miti e dei tempi) per donargli un nuovo senso, trasformandolo in un cinema dell'intimità, potente e selvaggio.