«Sto preparando per la tv un film che è l'adattamento del racconto di Stevenson Lo strano caso del Dr Jekyll e di Mr Hyde. Ho spostato la storia ai nostri tempi, a Parigi e in periferia, perché ho pensato che certi sobborghi, di notte, sono più impressionanti che le vie di Parigi».[1]
Così, in un'intervista rilasciata ad André Bazin, Renoir annuncia il suo esordio televisivo. E poco dopo, quando il critico gli domanda il perché di tale scelta, il regista risponde, quasi con noncuranza: «Perché mi sono straordinariamente annoiato alla proiezione di moltissimi film, e mi sono invece annoiato meno a certi spettacoli della tv»[2].
Attratto dalle possibilità che il nuovo mezzo gli mette a disposizione (rapidità nella lavorazione, utilizzo contemporaneo di più macchine da presa)[3], Renoir vorrebbe sulle prime realizzare una sorta di “diretta”, filmando Le testament du Docteur Cordelier (più pedestre il titolo italiano: Il testamento del mostro) come se si trattasse di un autentico fatto di cronaca; in seguito, le perplessità della produzione lo riconducono a più miti consigli, anche se l'idea della “diretta televisiva” non viene del tutto abbandonata: «Vorrei girare una volta sola ogni scena, e vorrei che gli attori immaginassero ogni volta, mentre recitano, che il pubblico segua direttamente i loro dialoghi e i loro gesti. Gli attori, così come i tecnici, sapranno che si gira una volta sola e […] mai più».[4]
Giustamente Bazin fa riferimento allo «spirito della “commedia dell'arte”»[5]: l'antico amore per il teatro e, più in generale, per la messinscena, che ha sempre nutrito il cinema di Renoir, fa capolino già all'inizio del film, con l'anziano cineasta che arriva negli studi della televisione e ci lascia spiare un poco, da dietro le quinte, il lavoro dei tecnici e i “trucchi” del mestiere. Più che una trovata metalinguistica[6], si tratta piuttosto del piacere del racconto – del mettersi in scena mentre si racconta – che caratterizza tanta parte dell'opera renoiriana, sempre impegnata, se non proprio ad abbattere, perlomeno ad assottigliare la distanza fra grande schermo e spettatore. Una cornice che, se da un lato rimanda al passato (il balletto faunesco di Boudou, il teatrino dei burattini ne La cagna), dall'altro sembra gettare lo sguardo in avanti, forse al Petit theâtre di dieci anni dopo, forse persino alle presentazioni televisive degli anni Settanta, nelle quali Renoir introduceva il pubblico casalingo alla visione dei propri film.
In questo caso, la voce del regista non si limita ovviamente a introdurre, bensì addirittura a “creare” lo spazio della vicenda: “La storia si svolge in uno di quei quartieri periferici di Parigi che servono da abitazione più che da luogo di lavoro…”, e immediatamente un camera car ci conduce lungo le strade delle banlieue (Pigalle, Montmartre) ben note al giovane Renoir, i cui «muri trasudanti muschio» e «cancelli arrugginiti»[7] sostituiscono le «belle case antiche, per la maggior parte cadute dell'antica gloria»[8] descritte da Stevenson nel romanzo.
A questo proposito vale la pena aprire brevemente un inciso sul rapporto fra Renoir e la fonte da cui attinge. Pur prendendo rispettosamente le distanze da Stevenson fin dal titolo, il regista francese riesce mirabilmente, attraverso il bianco e nero «astratto e rarefatto»[9], a trovare un personalissimo equivalente visivo dello stile secco e realistico dell'autore scozzese, dal quale riprende fedelmente anche la costruzione (perfetta) dell'intreccio, delegando ai comprimari (il notaio Joly/Teddy Bilis e lo psicanalista Séverin/Michel Vitold) il compito di portare avanti la narrazione, e affidando alla confessione finale del dottor Cordelier (stavolta registrata su nastro) la risoluzione dello “strano caso”.
La creatività di Renoir e del suo protagonista Jean-Louis Barrault si manifesta invece appieno nella ben più ardua raffigurazione dell'alter ego di Cordelier, qui ribattezzato Opale. Com'è noto, Stevenson si guarda bene dal fornire una descrizione fisica del “suo” Hyde: «Fui colpito, oltre che dalla terribile espressione della sua faccia, dalla notevole mescolanza di grande forza muscolare e di grande debolezza di costituzione, e, cosa non meno notevole, dalla strana e soggettiva sensazione di disagio che mi provocava la sua vicinanza. […] Era vestito in maniera capace di rendere ridicola ogni persona normale […]: i pantaloni gli pendevano sulle gambe ed erano rimboccati per non toccare terra, la vita della giacca gli arrivava sotto i fianchi […]. Strano a dirsi, questo grottesco abbigliamento era ben lontano dal farmi ridere».[10]
L'Opale di Barrault e Renoir, uomo “libero dalle limitazioni, con diritti illimitati”, è al contempo ridicolo e orrido, infantile e feroce. Ha i vestiti eccessivamente larghi e le movenze burattinesche di un Charlot sadico[11] che usa il bastone da passeggio per aggredire bambine, anziani e invalidi[12] come stesse eseguendo un balletto, sottolineato dalle musiche di Joseph Kosma. Grande ammiratore dell'attore-regista inglese, Renoir trasforma l'implicito sentimento antiborghese del vagabondo chapliniano in un “irresistibile bisogno di crudeltà”.
“Diritti illimitati”, “bisogno irresistibile”: rispetto a Stevenson, Renoir sembra meno interessato a indagare il dissidio interno a ogni individuo fra il Bene e il Male. La sua attenzione si concentra semmai – non sorprendentemente – sul conflitto fra libertà e doveri sociali, fra istinto e regola. A poco a poco diventa chiaro che gli autentici “doppi” di Cordelier sono l'amico Joly e il collega-rivale Séverin.[13] Joly è il solerte portavoce della morale cristiano-borghese, che davanti ai propositi suicidi di Cordelier/Opale, ormai incapace di controllare i propri cambi di personalità, gli rimprovera la sua “faustiana” temerarietà, l'Hybris di chi vorrebbe farsi Dio: “Soffrite sotto i tratti di Opale, che avete scientemente disegnato. Subirete così sulla terra una parte del castigo per questo terribile errore: aver osato intaccare la l'Opera del Creatore”. Dall'altra parte, Renoir sbeffeggia, per bocca dello stesso Cordelier, lo scientismo volgare e ottuso di Séverin: “Da perfetto sofista, si rifiutò di ammettere che l'anima potesse essere cambiata, perché pensava che essa non fosse altro che la coscienza”. Non a caso, lo psichiatra morirà d'un colpo apoplettico per aver assistito (fuori campo) alla trasformazione di Opale in Cordelier: ucciso dalla propria incredulità?
Nell'ultima inquadratura, sul corpo ormai senza vita del protagonista, è la voce dell'autore[14] a tirare le fila di questo conte moral: “Cordelier, che aveva pagato con la sua stessa vita per la tragica euforia della sua ricerca spirituale, non era forse stato il più fortunato?”. Insinuando nello spettatore il dubbio, Renoir sembra suggerire che è il desiderio di conoscenza, la libertà (anche rischiosa) di sperimentare nuove strade, magari a costo di un rovinoso fallimento, ciò che rende «pienamente vissuta»[15] l'esistenza di ciascun individuo.
Una morale che forse non stonerebbe a suggello dell'intera opera di Jean Renoir.
IL TESTAMENTO DEL MOSTRO (Le testament du Docteur Cordelier), regia di Jean Renoir, Francia, 1959, 95' (Sinister Film)
[1] Noi e la televisione, conversazione con André Bazin e Roberto Rossellini, in Jean Renoir, La vita è cinema. Tutti gli scritti 1926-1971 (ed. it. a cura di Giovanna Grignaffini, Leonardo Quaresima), Milano, Longanesi 1978, p. 306.
[2] Id., p. 309.
[3] «Lavoravo in genere con tre o quattro macchine da presa. Per potermi garantire i primi piani necessari, mi è successo di utilizzare fino ad otto macchine che riprendevano contemporaneamente» (Jean Renoir, La mia vita. I miei film., Venezia, Marsilio 1992, p. 232).
[4] Renoir, La vita è cinema, cit., p. 307.
[5] Id., p. 311.
[6] Cfr. Giorgio De Vincenti, Jean Renoir. La vita e i film,Venezia, Marsilio 1996, p. 283.
[7] L'Avant-Scène du Cinéma n.6, 15 luglio 1961, ora in Renoir, La vita è cinema, cit., p.321.
[8] Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, a cura di Oreste Del Buono, Milano, Rizzoli, 1996, p.45.
[9] Cfr. Jean Douchet, Le testament du docteur Cordelier in André Bazin [et. al.] Jean Renoir, Milano-Udine, Mimesis 2012, p.239.
[10] Stevenson, Op. cit., pp. 106-7.
[11] Riguardo alle possibili “fonti” del personaggio di Opale, De Vincenti rimanda giustamente alla figura “eversiva”del “fauno-clochard” ricorrente nei film di Renoir (cfr. De Vincenti, Op. cit, pp. 62-63 e 282), mentre Douchet richiama esplicitamente il Boudou di Michel Simon: «Boudou era il sogno gioiosamente anarchico del signor Lestingois […] Opale è il prodotto, o più esattamente il residuo patetico della concezione mortale della vita, della severa grande borghesia» (Douchet, in Bazin, Op. cit., pp. 241-42).
[12] Di questo particolare si ricorderanno il Moretti di Sogni d'oro per gli incubi di Michele Apicella (cfr. De Vincenti, op. cit., p. 288); e il Carax di Tokyo! e Holy Motors, nel modellare il personaggio di Monsieur Merde.
[13] Cfr. Douchet, in Bazin, Op. cit. p.240.
[14] La solerte censura italiana è intervenuta, qui e altrove, per rimuovere dalla colonna audio le implicazioni, ritenute evidentemente “sconvenienti” della posizione di Renoir. Per una lista delle manipolazioni, si veda De Vincenti, op. cit., pp.289-90.
[15] De Vincenti, op. cit., p. 290.