Il tormentone lo si ascolta da tempo, reiterato ad nauseam: “oggi le serie tv sono il vero cinema”, alternato indifferentemente a “oggi le serie tv sono meglio del cinema”. Affermazioni spesso provenienti dalle medesime persone, che sorvolano abilmente sulla contraddizione insita nell'alternanza delle due sentenze. Ma anziché soffermarsi sull'opinabilità delle stesse, alimentando il meccanismo, vale la pena invece studiare le nuove frecce in faretra della Tv, tali da portare a determinate dichiarazioni. Che non erano pronunciate con vigore simile nemmeno ai tempi di Twin Peaks, quando era un alfiere del "cinema-cinema" come David Lynch ad adattarsi a esigenze, ritmi e modi della TV (con in mente i white collars in pausa caffè, intenti a disquisire su chi fosse l'assassino di Laura Palmer). E meno che mai in occasione di Lost, che era chiaramente TV portata ai massimi livelli, capace di sfruttare tutti i possibili espedienti concessi dalla serialità: colpi di scena, spostamenti continui di identità tra heroes and villains, nuove strategie credibili (in un contesto incredibile) per introdurre o eliminare personaggi-pedine dalla scacchiera di un demiurgo ignoto. Il trionfo dello script, quindi, che significa (quasi) necessariamente un passo indietro per la regia, o quantomeno un suo contenimento. Basti pensare all'effetto devastante sulla produzione delle serie TV durante il lungo sciopero degli sceneggiatori, un blackout dall'impatto impressionante (benché paradossalmente accolto con gioia dalle moltitudini di serie-dipendenti, finalmente in grado di colmare il gap perenne con la mole di produzioni in circolazione). La transizione di JJ Abrams al cinema, riuscita solo in parte, in fondo sancisce con forza questa diversità e non contribuisce a creare alcun paragone significativo tra i due media.
Ma le cose, negli ultimi anni, sono cambiate, in sintonia con l'evoluzione di una nuova generazione di serie televisive. Dapprima con l'incursione nei territori del noir, che parte dalla commedia, in Breaking Bad, geniale zibaldone di generi degno del cinema dell'Estremo Oriente: ma parliamo ancora di sceneggiatura, soprattutto. Poi oggetti non identificati come Treme, in cui – complice la presenza di New Orleans – l'incessante procedere dello script rallenta, si ferma, contempla. Per alcune non trascurabili time slices non succede niente, o quasi. Lo script tace, l'immagine e l'atmosfera hanno la meglio. Riuscendo a sopravvivere, miracolosamente, allo spietato livello di competizione che caratterizza il mondo delle serie Tv, in cui lo spettatore è disposto sempre meno a concedere chance, pronto ad abbandonare senza pietà, proprio come chi cura i palinsesti. In fondo una natura effimera, una paura costante di turnover, che presuppone uno status "minore", un complesso di inferiorità che costituisce al contempo il bene e il male delle serie Tv. Portando a volte a inseguire vanamente pattern vincenti – Flashforward e il tentativo di ripetere i fasti di Lost e 24 – o alla saturazione – come la proliferazione di serie a tema vampiresco, via via più insulse. Una selezione naturale, una sopravvivenza del più forte che non lascia molti sbocchi, che premia Game of Thrones e misura il suo successo in base alle nudità o alle efferatezze, o al body count che caratterizza i season finale. Ma che non altera la sostanza alla base dell'evoluzione di un format.
Tuttavia qualcosa lavora in controtendenza e porta a esiti inaspettati. Uno in particolare è ormai sulla bocca di tutti nell'eterno duello tra i media, destinato a protrarsi sino all'Armageddon. Ideata da un romanziere mancato come Nic Pizzolatto e affidata alla regia dell'altrettanto sottovalutato Cary Fukunaga, True Detective si pone da subito su un piano di assoluta alterità, con la presunzione di sintetizzare il meglio dei due media, di sussumere i loro punti di forza. Ritorna il Sud degli States, anzi la Louisiana, terra liminare per eccellenza, in cui si mescolano culture antitetiche, in cui vita e morte, grettezza reale e inquietante magia si confondono in un groviglio inestricabile. Un whodunit che tale non è, capace di travestirsi da hard-boiled per approdare su lidi inconsueti e perigliosi, ma perennemente carichi di fascino. Quelli dell'investigazione dell'occulto, cari a H.P. Lovecraft e a una tradizione a lui antecedente, che True Detective ha il coraggio di affrontare di petto: Ambrose Bierce o Il Re in Giallo di Robert W. Chambers, calati in una Erath che un semplice scambio di lettere trasforma in Earth, rendendo assoluto, anzi cosmico, un orrore inquietante già nella sua forma local. Il trionfo del nichilismo, in cui il personaggio di McConaughey, che ha già visto e vissuto tutto, desiderando solo di dimenticarlo, si confronta con l'ipocrita parvenza di normalità di chi preferisce coprire con un sottile strato di carta stagnola i miasmi impossibili da contenere del Male, generato (perlopiù) dall'uomo stesso. Dove True Blood, una serie inizialmente acuta nell'individuare nel southern gothic un fertile terreno di coltura, aveva fallito, tradita dalla tendenza all'accumulo e al ridicolo involontario, True Detective riesce, lavorando sul piano dello storytelling e della regia con uguale grado di anarcoide innovazione. Il piano sequenza dell'irruzione è inequivocabilmente cinema, scorsesianamente o depalmianamente parlando; così come la suspense che gioca con lo spettatore, rivelando a poco a poco per poi smentire ed entrare in contraddizione, confondendo le idee, è tv nel senso migliore del termine (quello di Alfred Hitchcock presenta e Ai confini della realtà). Un coacervo di astuzie non rende necessariamente un'opera innovativa, ma True Detective non ha la pretesa di esserlo come non ha quella di vaticinare l'avvento di un nuovo medium-messia. Si limita a trarre il meglio da ciò che c'era e a dimostrare che “sincretismo” non è una parolaccia, se a pronunciarlo è una lingua pertinente e competente.
Il cinema che avanza inafferrabile, che fa da locomotiva per la nostra sete di conoscenza e di visionarietà, segue un suo percorso a parte, quasi profetico, sia esso declinato nelle immagini abbacinanti di Holy Motors, nel treno della civiltà di Snowpiercer o nella moltiplicazione degli schermi di The Canyons. Ma riflettere sul cinema medio, su quella base solida e sana, quella sicurezza da coperta di Linus che gente come Arthur Penn, Hal Ashby o Alan Pakula ha regalato al nostro immaginario, è opportuno. La solidità del contenuto, l'attaccamento al genere e ai suoi confini, l'intensità del primo piano, il potere della narrazione: quelle che parevano (ri)scoperte nei ruggenti Settanta della New Hollywood e che, in una percentuale costantemente sottovalutata, hanno contribuito alla nostra formazione cinefila. Negare al cesello delle migliori serie TV il merito di aver portato avanti quel verbo e di averlo affinato, fino a renderlo credibile nel terzo millennio, significherebbe affidarsi, ancora una volta, a una logica sterile da guelfi e ghibellini, seguendo la più semplice delle tendenze alla disgregazione e al separatismo. Quando c'è così tanto da costruire e imparare, tra una palude della Louisiana e le lune di Carcosa.