L’opera di Jean Epstein è rimasta quasi nascosta per molti anni, spesso sepolta negli archivi della Cinémathèque Française (e di altre istituzioni) e raramente esposta al pubblico, se non in retrospettive incomplete e in brevi cicli tematici (periodo Albatros, film bretoni). Basti pensare che la prima retrospettiva completa del suo lavoro in Francia si è vista solo quest’anno, 2014, a più di sessant’anni dalla morte avvenuta nel 1953. Nonostante l’importanza e l’interesse che rivestono i suoi scritti teorici per numerosi e importanti studiosi di cinema (Richard Abel, David Bordwell, Jacques Aumont), la sua opera filmica ha ricevuto raramente le attenzioni necessarie per essere presentata e diffusa in maniera adeguata al pubblico. Le eccezioni più importanti in questi ultimi anni sono state quelle di Nicole Brenez e di Joel Daire per la programmazione della Cinémathèque Française e, in Italia, di Laura Vichi, prima con la retrospettiva di Bologna nel 2000 e poi con la monografia Jean Epstein per Il Castoro cinema nel 2003 in cui, per la prima volta, si analizzano tutti i suoi film. Il paradossale luogo comune che circola su Epstein è infatti quello di essere un grande teorico il cui lavoro cinematografico non rende giustizia e non è all’altezza delle promesse e dei propositi concepiti in fase di riflessione estetica sul medium. Eccetto qualche “classico” del periodo muto, infatti, come La caduta della casa Usher, i suoi film non sono conosciuti o, qualora visti, non sono molto considerati per i loro, spesso validi, risultati ottenuti, né si tiene sufficientemente in conto le condizioni storiche e produttive in cui Epstein li realizzò.
Per colmare questa lacuna, e riequilibrare l’asimmettria che si è venuta a creare in favore dell’aspetto teorico, è allora decisiva l’uscita del cofanetto triplo “Jean Epstein” per le edizioni Potemkine films (in collaborazione con la Cinémathèque Française) che raccoglie una parte importante, seppur non esaustiva, della sua opera filmica. Si tratta di 14 film, la maggior parte dei quali restaurata dalla Cinémathèque, che percorrono le tre fasi principali della sua carriera, dal 1924 al 1948. Il primo volume raccoglie tre film del periodo Albatros, casa di produzione fondata dagli esuli russi a Montreuil, vicino a Parigi: Le lion des Mongols (Il leone dei Mongoli 1924), Le double amour (Nel vortice di Parigi 1925) e Les aventures de Robert Macaire (Il cavaliere della notte 1925). Si tratta di tipici prodotti commerciali dell’industria cinematografica dell’epoca, lavori su commissione in cui la personalità e gli interessi sperimentali del regista non trovano la possibilità di concretizzarsi compiutamente. Sono film di genere – rispettivamente un film fantastico, un melodramma e un cinéroman d’avventura – in cui Epstein limita il suo intervento restando all’interno di schemi e codici già collaudati senza mai metterli radicalmente in discussione. Vi sono in ogni caso dei buoni momenti, aperture che segnalano la volontà del regista di aprire l’orizzonte del cinema verso nuove piste di ricerca, per costruire un immaginario filmico finalmente libero dall’oppressione del racconto, dalla coerenza spazio-temporale e da quei momenti di facile spettacolarizzazione che lui definiva “cinema-caleidoscopio”. Sono i momenti in cui utilizza la dissolvenza e il montaggio rapido, come nella sequenza di maggior pathos di Le double amour in cui la protagonista Marie pensa di suicidarsi. Soluzioni espressive, insomma, che alterano la continuità rappresentativa del racconto, producendo un salto qualitativo sul piano formale. Epstein non ama raccontare attraverso le immagini, sviluppare gli intrecci, è insofferente nei confronti degli attori professionisti (come ricorda anche Henri Langlois) e delle situazioni dialogate. Predilige invece le riprese in esterni, la relazione tra corpi umani e il paesaggio, specie se marino. Le Double amour, il migliore dei tre film Albatros proposti, è a questo proposito emblematico, poiché le scene in studio, dai décor molto sofisticati, appaiono fredde e soffocanti, mentre i pochi momenti en plein air sembrano appartenere a un altro film, più libero e più vitale. Epstein mostra chiaramente, e senza retorica, di essere uno dei cineasti che si avvicina di più all’idea di poesia filmica, ovvero di un cinema pensato per creare brevi attimi di sublime intensità emotiva, momenti che egli definisce pienamente fotogenici, e che a suo dire non durano meno di un minuto.
Il secondo volume raccoglie quattri opere fondamentali per la comprensione del lavoro di Epstein, lavori realizzati con la propria casa di produzione, “Les Films de Jean Epstein”: Mauprat (1926) opera in costume ancora legata sul piano espressivo e tematico al periodo precedente, Six et demi onze (Sei e mezzo per undici 1927), La glace à trois faces (Lo specchio a tre facce 1927) e il più celebre La chute de la maison Usher (1928). Questa fase segna la ripresa del regista dell’interesse verso le sperimentazioni formali dei primi film, come Coeur fidèle e La Belle Nivernaise (1923), in cui si vede più concretamente in atto la ricerca di una terza via tra il cinema astratto delle avanguardie storiche e il cinema narrativo popolare di marca hollywoodiana. Lo storico Richard Abel, a questo proposito, ha parlato di avanguardia narrativa, come per Abel Gance e Marcel L’Herbier. Si tratta di un cinema votato alla sperimentazione di tutti gli strumenti espressivi antinaturalisti di cui è dotato il médium, quali il primo piano, la sovrimpressione-dissolvenza, il montaggio rapido, il ralenti, il flou e tutte quelle manipolazioni del racconto e del punto di vista che creano una rottura, uno scarto fra la mimesi realista e l’immagine artificiale prodotta. Tutto questo senza mai abbandonare definitivamente l’impianto diegetico e la restituzione analogica del visibile, come accade invece nel caso dell’astrazione (Fernand Léger, Man Ray). Epstein intendeva forzare il reale per meglio esprimerlo, non per cancellarlo, non volendo privarsi della sua essenza, della sua verità intrinseca, che solo la macchina-cinema poteva, a suo dire, portare alla luce. Il suo è a un tempo un cinema organico, con personaggi e una storia che si dispiega orizzontalmente, e un cinema della fotogenia, cioè della rottura formale, che spezza e increspa questo scorrere lineare del racconto opponendo un movimento verticale, costituito da immagini fortemente patetiche e di grande intensità plastica. Un cinema bipolare, antinomico, in cui un polo necessita sempre dell’altro aspetto, pena non mostrare più in atto tale conflitto espressivo.
Tale tensione estetica è perfettamente espressa dal finale di La glace à trois faces in cui il protagonista, in una delle sue fughe solitarie in automobile, (immagine ricorrente del cinema di Epstein), avanza a tutta velocità, e insieme a lui accelera la rappresentazione per mezzo del montaggio rapido. Il movimento estatico del personaggio che sembra voler “uscire da sé”, per fuggire da un’identità stabile che nel corso del film si rifiuta di assumere, si verifica anche sul piano della messa in scena, che si deforma e si esaspera al punto da divenire quasi astratta. Improvvisamente, una rondine lo colpisce in piena fronte stordendolo al punto da fargli perdere conoscenza e farlo uscire fuori strada. Come afferma giustamente Laura Vichi, qui “la rondine incarna l’agente di giustizia”, ristabilendo l’ordine morale all’interno del racconto, ma anche sul piano della rappresentazione, che stava pericolosamente cadendo nell’astrazione e dunque nella perdita della vitalità insita nel conflitto tra figurazione e deformazione del visibile propria dell’immagine fotogenica. La rappresentazione filmica in Epstein manifesta dunque la necessità di un limite, costantemente messo alla prova, trasgredito, ma comunque sempre ristabilito. Questa scena rende forse più chiara l’affermazione del cineasta, altrimenti ambigua, che definisce la fotogenia ciò che permette agli “aspetti mobili del mondo, delle cose e delle anime” di accrescere “il loro valore morale” grazie all’azione della riproduzione cinematografica.
Ancora più essenziale è il terzo cofanetto, che raccoglie le migliori opere del regista, le principali fra quelle realizzate negli ultimi venti anni di attività, facenti parte del “ciclo bretone”. Affascinato dai luoghi selvaggi delle isole al largo della costa bretone e libero dalle costrizioni di sceneggiature articolate, Epstein realizza concretamente quella terza via che gli sembra emancipare il medium cinematografico dai suoi limiti e dai suoi debiti verso le altre forme artistiche (teatro, romanzo, pittura). I film, i più difficili da reperire e finalmente visibili in copie eccellenti, sono Finis Terrae (1928), Mor’Vran (Mare dei corvi 1930), Les Berceaux (Le culle 1931), L’Or des mers (L’oro dei mari 1932), Chanson d’Armor (La canzone dell’Armor 1934), Le Tempestaire (1947), Les feux de la mer (I fuochi del mare 1948). Sono film a metà tra il documentario e la finzione, tra l’esplorazione del reale e l’introspezione psicologica dei protagonisti, che sfruttano con un’intensità estrema, mai raggiunta prima, il mezzo filmico e le sue possibilità. Le sequenze più celebri, come l’allucinazione di Ambroise, il protagonista febbricitante di Finis Terrae, in cui si destruttura l’insieme della percezione ordinaria del visibile, o il momento della tempesta e l’intervento del vecchio con la sua sfera magica ne Le Tempestaire, in cui ad alterarsi e trasformarsi in senso fotogenico non è più solo il visibile ma anche il sonoro, deformato dal ralenti, rappresentano un apice all'interno della sua opera in fatto di ricerca espressiva, e tra i più decisivi per la storia del cinema sperimentale. Questa prima raccolta di film è dunque un punto di partenza essenziale per scoprire e lavorare sul cinema di Epstein, a cui speriamo si aggiungano presto altre opere altrettanto importanti, ancora pressoché invisibili, come La Belle Nivernaise, L’affiche (Il manifesto 1924), Les bâtisseur