Ci sono cani e cani.
Ci sono, ad esempio, i cani da guardia. Tra gli esemplari più buffi di questa categoria, ci sono ad esempio quei giornalisti (che scrivono magari per quotidiani di ispirazione sempre più apertamente fascista – vuoi perché sempre più sfacciatamente leaderisti, vuoi perché salutano con favore i colpi di stato neonazisti nell'Europa dell'Est, vuoi perché la loro coda di paglia fa loro sovente agitare il ditino contro “le derive populiste”) che davanti ad Adieu au langage si limitano ad abbaiare senza ritegno la propria ignoranza. E se ne bullano pure. Da loro, del resto, non si chiede altro che rassicurare i lettori (grazie al cielo in calo) di appartenere a una sorta di improbabile élite illuminata e vagamente radical-chic. E il minimo che si possa dire del nuovo film di Jean-Luc Godard è che non è stato realizzato con questo scopo.
Ma davanti a questi cani conviene passare oltre con giusto un sorriso perplesso sulle labbra. Altri cani sono immensamente più interessanti. Uno di questi è Roxy, protagonista di Adieu au langage. Roxy non fa altro che andarsene in giro per la natura. Ogni tanto si ferma, si guarda intorno, e se ne va. Le sue immagini, nel film, si alternano a quelle di un ménage à trois prevalentemente in interni, e che finisce male. Si assiste alla progressiva integrazione del cane da vagabondo tra alberi e acque, a membro del focolare domestico, cosa che avviene nel finale, sigillato dai vagiti di un neonato. Già, perché Roxy è il Figlio. Come la sinossi dello stesso Godard lascia intendere con una certa chiarezza, il cane occupa il posto che nella metafisica cattolica, a lui sempre molto cara, appartiene al Figlio: quello dell'incarnazione del Divino nell'Apparenza. Come la voce over dice a un certo punto, lo sguardo del cane ha il privilegio di approcciarsi alle cose dal lato della loro radicale esteriorità. Esistendo per loro solo il fuori, amano l'altro più di se stessi (poco prima, un'altra citazione ci ricorda che la filosofia è la scoperta che l'Essere è tale solo in quanto rivolto ad altro da sé). Non c'è dentro né fuori, nel loro orizzonte, e per questo il cane non è mai nudo: è la stessa dialettica tra nudo e vestito, apparenza ed essenza, che è destituita di fondamento.
La donna della coppia, invece, nel suo interno borghese, si veste e sveste continuamente. Il cane è letteralmente la risposta all'impasse della coppia, che è l'impossibilità di essere Uno. Questa impossibilità si riflette nel fatto che Godard pone quale leitmotiv di questa sua opera l'agonia di uno dei due contendenti maschili (ma non sono due anche le donne?), il quale, dopo una revolverata ricevuta all'inizio, letteralmente non finisce mai di morire. Quest'agonia è il tramonto del famigerato “fallo-logocentrismo”, della prospettiva linguistica, per definizione sessualizzata nella misura in cui corrisponde a una presa, da parte del linguaggio, di ció che intrinsecamente gli sfugge (la donna, qui, lo dice a chiare lettere: “io sono qui solo per dirti di no”).
In breve, è l'addio al linguaggio. Ah dieux, oh langage. Se ne va l'epoca del Mito, quella in cui gli Dei vegliavano all'efficacia strumentale del linguaggio degli uomini, e arriva la modernità cristiana, quella in cui il divino è direttamente l'emanazione dell'Apparenza; la potenza espressiva del linguaggio, più che scomparire, viene ora manifestata direttamente sulla pelle delle cose. A poterla cogliere è solo lo sguardo di Roxy: uno sguardo passivo, eppure segretamente attivo. Cartello iniziale: la realtà è il rifugio di chi non ha abbastanza immaginazione. Dice Monet: non si deve dipingere ciò che si vede, né ciò che non si vede, ma si deve dipingere CHE non si vede. I nostri occhi non sono strumenti grazie a cui constatiamo come sono fatte le cose. Ciò che vediamo è il prodotto di un'immaginazione sintetica che ci precede e ci determina: rispetto a questa attività che non ci appartiene, noi siamo passivi. Abbracciare lo sguardo di Roxy significa abbracciare questa passività attiva, arrenderci al fatto che lo sguardo è il sigillo del nostro essere oggetti, e non un alibi per presupporci soggetti. Se in Adieu au langage ha tanta parte Frankenstein è perché quest'ultimo è l'uomo per definizione: un oggetto che prende la parola e si crede tragicamente soggetto. Un'altra citazione: “Io parlo, soggetto. Io ascolto, oggetto”.
Roxy, “oggetto attivo”, ascolta con gli occhi. Il visivo è integro solo in virtù di un atto sintetico che non ci appartiene. Non una novità, per Godard, che già decenni fa disgregava l'univocità della visione con falsi raccordi e procedimenti analoghi. Il cineasta elvetico usa il 3D con il medesimo spirito. Divarica le due macchine da presa, “raddoppiando” in vari e inventivi modi l'immagine, anziché convergerle per fondare l'illusione del rilievo (o meglio: l'illusione del rilievo fornita dal convergere delle due macchine talvolta viene rotta dalla loro divaricazione e dal conseguente sdoppiarsi dell'immagine).
Ma rompere l'illusione del vedere non significa arrendersi alla disillusione. Significa, invece, porre le basi per un nuovo incanto pittorico. Se, sempre secondo l'assioma di Monet, bisogna smontare le pretese degli occhi, è solo per evidenziare il procedere autonomo dello sguardo (ovvero, dell'immaginazione sintetica attraverso cui vediamo). In uno straordinario frammento, una macchina da presa posta su una gru inquadra la propria ombra sull'asfalto. La gru si alza, e dunque man mano non vediamo più l'ombra, ma un parcheggio e infine il cielo. C'è insomma totale continuità tra lo svelamento dell'apparato cinematografico e la semplice ricerca della bellezza. Il digitale viene indagato da Godard precisamente nelle sue potenzialità pittoriche, quale strumento pittorico. Ne enfatizza da un lato la pregnanza cromatica (anche violentemente artificiale), e dall'altra il senso di astrazione che emana dalla sua immediatezza; se un personaggio a un certo punto si mette a sfogliare un libro su Nicolas De Stael, non è per caso. Luci nella notte, la pioggia sul selciato, la luce che filtra tra gli alberi: Godard puntella continuamente il suo densissimo addio al linguaggio di intensità sensoriali allo stato brado, che brillano, nella loro “ottusità”, per felice contrasto rispetto alla sofisticatissima tessitura che va compiendosi nel frattempo.
Perché non solo la rottura dell'integrità è funzionale all'incanto pittorico: è anche l'incanto pittorico a essere funzionale alla rottura. In questi suoi numerosi squarci di pura visualità, Godard non cerca un afflato mistico, al contrario: usa sistematicamente questi momenti come interruzione nel e del tessuto del film. Il sensoriale irrompe e spezza qualsiasi pretesa di unità, nel momento stesso in cui invece si offre come ricomposizione visuale. Il che è possibile principalmente grazie a un incredibile lavoro sul ritmo, forsennato come non mai in Godard, il quale accavalla materiali con inaudita velocità – presumibilmente sacrificando a questo proposito scene pur presenti nella prima (e in seguito modificata) versione del trailer, circolata in rete a partire da una decina di mesi circa prima che questi settanta densissimi minuti venissero presentati a Cannes. In essa, per esempio, si trova l'enunciazione del principio paracartesiano (l'essere oggetto del soggetto che si pensa tale) cui Godard è ricorso più volte nelle opere passate, ma che verrà tagliata nel film finito: “In 'penso dunque sono', l'io di 'io sono' non è già più quello dell''io penso'”. Il che conferma che Godard non vuole “dirci qualcosa”, ma, come Monet, mostrarci il fatto che non vediamo, e a questo fine mobilita soprattutto fotografia, montaggio, ritmo.
Il sensoriale irrompe, e spezza l'Uno. E qui torna in mente un'altra frase ripetuta sovente da Godard (benché non qui, curiosamente): il sogno dello Stato è di essere uno, mentre il sogno degli individui è di essere due. Nelle prime scene, si fa strada con chiarezza una descrizione del nostro presente quale nazismo realizzato, un totalitarismo tecnologico/mediatico in cui nulla scappa dall'Uno. Ma le invenzioni più importanti della Storia, dice uno dei personaggi, sono l'infinito e lo zero. L'Uno si può ancora infrangere, mediante il vecchio sogno che fu del Romanticismo idealista (che Godard non ha mai abbandonato): la potenza sensoriale della Natura quale rivelazione del motore occulto che fa muovere la Storia, e che in quanto tale disgrega qualunque pretesa che essa si coaguli definitivamente in un inamovibile Uno.
In definitiva, dunque, lo sguardo “canino” che rincorre Godard ha anche questo vantaggio: svela quanto siano ridicoli gli sforzi dei cani da guardia di ogni razza di convincerci che l'Uno sia sempre, solo e compattamente Uno.