Victor Hugo, in una pagina del romanzo I lavoratori del mare (1866), indugiando brevemente sulla descrizione di tre passanti per la strada,  definisce l’adolescenza come la più delicata delle transizioni. Si potrebbe sostenere che l’occhio di Leonardo Di Costanzo, filmmaker diviso tra Napoli e Parigi, sia uno dei pochi in grado di offrire una panoramica lucida di un momento difficile per qualsiasi essere umano. Raccontare l’adolescenza, al cinema, è difficile. In Italia ci continuano a provare da anni, con risultati vieppiù discutibili: in pochi sono in grado di stabilire rapporti coerenti con la contemporaneità, di connettere credibilità narrativa a tessuti filmici innovativi ed elaborati, di ricercare equilibri vitali in grado di fuggire ogni pretesa di autorialità fine a sé stessa.

Le tre opere che Leonardo Di Costanzo dedica alla cosiddetta «età di mezzo», A scuola (2003), Cadenza d’inganno (2011) e L’Intervallo (2012), seguono invece sentieri poco battuti, prendendo l'avvio a partire da un contesto sociale e civile in apparenza più che usurato: la Napoli giovane rionale degli ultimi ventenni, dilaniata da riflessioni, analisi e squadrismi mediatici di ogni tipo. Quella delle gang e degli scugnizzi, ormai entrata di diritto nell’immaginario cool di un’Italia che si rivolge in maniera indulgente e confessionale ai quartieri meno felici delle sue grandi città. Tutto questo sostrato, nel cinema di Di Costanzo, relativamente assente,: si insinua ogni tanto, come punto di partenza imprescindibile, generativo – più che altro – nell’ambito di un discorso altro. L’autore non si limita a raccontare i ragazzi dei quartieri meno abbienti di Napoli, ma li inserisce in contesti su cui, a seconda dei casi specifici, viene applicata una poetica precisa eppure liberissima, in grado di legarsi con incredibile poliedricità a dinamiche politiche, civili, morali e – soprattutto nel caso de L’Intervallo – mitiche, drammaturgiche, positivamente derivative.

Nel 2003, con A scuola, Di Costanzo tallona gli studenti e gli insegnanti dell’istituto Nino Cortese del rione Pazziano a Napoli per un intero anno scolastico, fino ad arrivare agli afosi giorni di giugno: sullo sfondo, un ambiente – come sappiamo già – non facile, ragazzi dalle biografie non proprio esaltanti e un corpo docenti d’altalenante lena. Il lavoro dell’autore non si limita a riprodurre la realtà in maniera delicata (compito che comunque riesce a svolgere con invidiabile sicurezza), ma persegue una ricerca raffinata di uno stile preciso, completo ed esauriente, rilevato attraverso scelte di regia mai convenzionali, senza marcare mai una linea definitiva e rigorosa tra documentary in sé e libertà da concedere ai soggetti inquadrati attorno allo spazio filmico. Una sorta di accordo simbolico grazie al quale la macchina da presa è piazzata in campo e insegue – mai morbosamente – le vicende individuali di alunni malmostosi e insegnanti affatto in grado di imporsi, lasciati liberi di improvvisare, soffrire e parlare: l’autonomia dei loro movimenti e dei loro pensieri è assoluta, incontestabile. Il reparto tecnico rivela l’utilizzo di scelte notevoli: di Costanzo gioca con le dissolvenze, evita l’eccesso di campi e controcampi durante i dialoghi, lavora sul sonoro in modo che la colonna audio sia in grado ovattare gli ambienti, definendoli quel minimo per stabilire che ci troviamo tra i corridoi di una scuola. Lo strumento non è mai oggetto estraneo: più volte i giovani alunni – e qualche docente – guardano in macchina, mentre ogni tanto fa capolino un microfono dall’alto. Scelte che potrebbero sembrare ingenue, ma che in realtà racchiudono la volontà – da parte del regista – di sciogliere i meccanismi ormai obsoleti del documentario TV e quelli, spesso patetici, di certo cinema che si occupa di scuola con l’indulgenza insopportabile di cui sopra. A scuola è, soprattutto, uno dei film europei più politici degli ultimi anni,  per più motivi; su tutti, quello di ragionare sensibilmente sul crollo e sul declino delle nostre istituzioni scolastiche. Le riflessioni della Preside sul ruolo dell’insegnamento come atto civile di sopravvivenza («Se non capiamo che spiegare la geografia non vuol dire solo spiegare quale sia la capitale della Spagna, qui chiudiamo») rappresentano, per il film, un momento elevato, quasi straziante, rivelatorio. «Chiedo a te come persona…» «Cosa vorresti tu dalla scuola?» sono solo alcuni degli input e degli interrogativi proposti agli studenti: produrranno risultati? O dimostreranno d’essere ulteriore strumento del crac d’imposizione e retaggi degli adulti sui più giovani? In fondo, seguendo Goffredo Fofi, «Di Costanzo finisce per parlarci di ogni adolescenza italiana e di ogni violenza degli adulti compiuta a suo danno». E se il rione, che dovrebbe costituire il blocco a qualsiasi slancio ottimistico, diventa – nel pensiero della Preside – un potenziale sentiero a un futuro di conoscenze in grado di creare «rapporti con le persone, il regista ritaglia intanto uno spazio importante, legato a un periodo storico di decadenza imminente, servendosi di un linguaggio che concede libertà per chi viene inquadrato.

Il lavoro sull’adolescenza prosegue – se vogliamo, linearmente – con Cadenza d’inganno (2011), dalla gestazione parecchio complicata: cominciato nei primi anni Duemila, si è interrotto quando il piccolo Antonio – scelto come protagonista del film, che decide di seguirne le vicende dopo aver inizialmente coinvolto anche altri giovani personaggi – ha stabilito di non voler più continuare le riprese, per poi ricontattare l’autore quasi dieci anni dopo e invitarlo a filmare la sua cerimonia di nozze. In overture suona il Concerto n.1 in Fa Minore di Alessandro Scarlatti: l’irruzione in una Napoli universale e non più banalmente ghettizzabile è immediato. La città, catturata al tramonto o all’alba, è futuristica e parimenti arroccata a una tradizione di livelli, gradoni e scaloni; la voice over dell’autore presenta a uno a uno i personaggi coinvolti nel suo lucido racconto. I sogni – e soprattutto gli incubi – del piccolo Antonio, che divora la macchina da presa con occhi da cerbiatto, si impongono presto al centro degli interessi del film. E l’intervento dell’autore – che nel precedente A scuola non entrava direttamente all’interno della vicenda – dimostra un coinvolgimento, se possibile, ancora più intenso: «Sembrava un mondo senza adulti, o senza bambini». A voler essere convenzionali, si potrebbe asserire che Cadenza d’inganno è ipotetico trait d’union tra un esercizio di solido impianto documentaristico (A scuola), e l’avanzata al cinema di fiction de L’Intervallo. Quanto, tuttavia, è lecito operare tali distinzioni nel progetto di ricerca tracciato da Di Costanzo? L’interesse, semmai, è quello di proiettare luminosamente la difficile vicenda del piccolo Antonio, frammentata e catturata in diversi momenti delle sue giornate, nell’universo di Napoli. I suoi coetanei – e anche lui – giocano e riflettono tra le ombre, mentre la città, carica di immagini, si illumina e si spegne, gravida di racconti che sarebbe riduttivo circoscrivere a quello che, nell’accezione comune, sconfina presto in un folklorismo – alla luce della glocalismo baumaniano– ormai praticamente inesistente. E le strade, impietose, si nutrono dei loro sentimenti e delle loro ambizioni azzerate: «Tutta la vita che i ragazzi riversano nelle strade non basta», mentre il tempo passa e Antonio si rifiuta di continuare il film, privando momentaneamente il regista del suo perfetto protagonista in waiting. Che però poi ritorna, cresciuto e maturo, quasi dieci anni dopo. E la richiesta è chiara: vuole che la macchina da presa di Di Costanzo fissi per sempre le immagini del suo matrimonio. Come a testimonianza involontaria e incontrollabile non solo di un profondo legame umano, ma di una continuità logico-temporale legata inevitabilmente allo scorrere del tempo e al flusso degli eventi che si riversano, giorno dopo giorno, anno dopo anno, nelle strade della città.

La ricerca di Di Costanzo trova nuove, efficaci forme d’espressione nell’esordio dell’autore in quello che convenzionalmente potrebbe definirsi «cinema di fiction», avvenuto con L’Intervallo, nel 2012. Ed è fondamentale, restando bene ancorati al percorso compiuto fino ad ora dall’autore, quanto non sia la frattura dal passato documentaristico del suo autore a fare de L’Intervallo non sia uno dei film europei più riusciti degli ultimi anni, ma l’impressionante sicurezza – e in parte già sperimentata su A scuola e Cadenza d’inganno – con il quale Di Costanzo maneggia il materiale di base, intrinsecamente intestino all’universo delle lotte tra gang, gli scugnizzi, e le realtà napoletane, accostandole, più che a un gomorrismo interessante ma già ampiamente frequentato, a un’evoluzione stilistica (se possibile) lieve e quasi fiabesca. Sbaglia chi pensa di leggere l’opera quale esclusivo veicolo di denuncia e indignazione; tali elementi, pur essenziali, difficilmente si mantengono uniche chiavi d’interpretazione per analizzarne struttura e risultato. L’Intervallo racconta della giornata di prigiona cui è costretta la giovane Veronica: colpevole d’aver mancato di rispetto a Bernardino, giovane proto-boss della zona, viene rinchiusa nei locali di un ospedale abbandonato, e affidata al diciassettenne Salvatore, orfano di madre e improvvisato carceriere della ragazza. Ripetutamente invitati a lanciare lo sguardo al cielo, dove possono più volte sentirsi le manovre di decollo di alcuni aerei di passaggio in zona, i due ragazzi vengono inseriti e proiettati senza indulgenza o pietismi in una scena smantellata, in un luogo dismesso e diroccato, rosicchiato dai topi ed emblema dalla deriva culturale che sono costretti a vivere.

Leonardo Di Costanzo non si limita all’inchiesta, e alla rabbia; ma li immerge in un universo parallelo alla loro realtà, intrecciato tuttavia a contesti e riflessioni legate al mito, alla leggenda. I fantasmi e i racconti si connettono in maniera vibrante agli stati d’animo – afferenti a inclinazioni diverse – dei due giovani, catapultandoli in un limbo altro, in cui l’attesa diventa un ulteriore modo per allontanarsi da una realtà dura, difficile e limacciosa. Salvatore pensa molto, e Veronica cammina incessantemente nell’ombra, anticipata dal rumore dei tacchi che porta con una maestria quasi insolita per una ragazza della sua età, ignara del destino che l’attende eppure consapevole del proprio coraggio. E L’Intervallo, magnificato dalla fotografia oculata di Luca Bigazzi e dall’abilità di Di Costanzo, si trasforma presto in un kammerspiel svuotato di ogni nevrosi borghese, immerso in una temporanea magia di suggestioni e situazioni, di pioggia battente e tetti che avvicinano al cielo. Straordinario innesto di generi, pertinente evoluzione dei traguardi raggiunti da Di Costanzo con gli esperimenti pregressi, l’opera evocativa si concede più d’un momento straordinario, come quando – ancora una volta in ombra – arriva per Veronica il momento dell’incontro con Bernardino, colui che – molto più di Salvatore – è suo effettivo carceriere. È il mondo delle lotte tra gang, delle intimidazioni, delle strade assassine; ma il dialogo tra i due, foriero di smottamenti ed esplosioni sentimentali in pochissimi minuti, ricorda il memorabile confronto finale tra Elena e Menelao in Troiane, Euripide, poco prima che lei faccia ritorno a Sparta. Non sappiamo cosa le accadrà, ma quando la vediamo allontanarsi sul motorino capiamo che la sua storia, perlomeno ne L’Intervallo, si è conclusa. Ed è interessante ricordare che, nello stesso periodo, è stato distribuito nelle sale Io e Te, di Bernardo Bertolucci, che presentava, più o meno, una certa afferenza nei temi e nei rapporti tra i due protagonisti, trincerati anch’essi in un non luogo in grado di sviscerare insicurezze, paure Se il film del maestro di Novecento, tuttavia, non va oltre a una timida resa dei conti con I 400 colpi di François Truffaut,  il film di Di Costanzo apre la strada a un modo diverso, coraggioso e selvaggio di intendere il cinema che parla di età di mezzo. In barba a indulgenze, timori e convenzioni. 

L'ETÀ DI MEZZO. TRE FILM DI LEONARDO DI COSTANZO (Cineteca di Bologna)
 
A SCUOLA, regia di Leonardo Di Costanzo, Italia/Francia, 2003, 60'
 
CADENZA D'INGANNO, regia di Leonardo Di Costanzo, Italia/Francia, 2011, 55'
 
L'INTERVALLO, regia di Leonardo Di Costanzo, Italia/Svizzera/Germania, 2012, 86'