Could a greater miracle take place than for us to look through each other’s eyes for an instant?
[Può esserci miracolo più grande del guardarci l’uno attraverso gli occhi dell’altro per un istante?]
Ci sono film che non chiederebbero tanto critiche, nel senso di commenti e speculazioni, quanto interpretazioni, disamine accompagnate da una seconda o anche terza visione e magari anche dal supporto di qualche libro per approfondire determinate questioni. Che li si voglia definire film modernisti o film d’avanguardia, film per “osservatori attenti” o per “spettatori pensanti”, il fatto stesso che alla dicitura standard di “film” si debba sempre affiancare un aggettivo che ne identifichi la peculiarità, per non dire l’anomalia, tende a identificarli come corpi estranei su cui dover esercitare un altro sguardo e un’altra postura. Non sempre lo scambio di sguardo comporta un’esperienza appagante, ma, quando succede, quei film sono capaci di ridefinire (almeno per qualche giorno) le nostre funzioni vitali.
Upstream Color è uno di questi film. Opera seconda di Shane Carruth (regista autarchico e autodidatta che, oltre a dirigere, scrive, interpreta, produce, monta e compone le musiche) è uno di quei film che chiama verso di sé quell’aura di culto che il precedente Primer, con quel suo look grezzo e artigianale da opera prima costata appena 7000 dollari e la capacità di dire qualcosa di originale sul tema dei viaggi nel tempo, aveva saputo conquistare grazie a un innesto fra materiale di genere e serie riflessioni sui paradossi temporali (al punto da chiamare interpretazioni e infografiche da parte di appassionati esegeti). Ora, dal momento che il culto è una pianta che predilige l’innesto, Upstream Color si costruisce come un film concettualmente complesso a partire da un assunto fantastico che mescola thriller e romance. Quindi il massimo del genere che incontra il massimo della riflessione artistica. Che è un incrocio assai complesso da realizzare efficacemente, come testimoniano alcuni capolavori come 2001 di Kubrick, Stalker di Tarkovskij o, più di recente, Tree of Life di Malick. Ed è proprio a Malick che rimanda in prima istanza questa opera seconda di Carruth. Non solo perché distante ben nove anni da quella di debutto, ma perché la continua ricerca della luce e delle armonie cosmiche in Upstream Color ricorda facilmente lo stile del misterioso regista texano.
Fin dalla prime inquadrature, la relazione fra uomo e natura è messa al centro dell’immagine. Dettagli di mani e volti intenti ad allevare e sperimentare su un parassita dalle proprietà telepatiche che si sviluppa nelle radici di una pianta rara. Attorno a questo nematode si costruisce un reticolo narrativo articolato in tre momenti principali legati ad altrettante regole “di genere”, anche se sublimate da un linguaggio ellittico ed ermetico. Il verme viene infatti utilizzato da un misterioso Ladro per sottomettere delle persone, assoggettandole psicologicamente e obbligandole a cedere allo sconosciuto tutti i propri beni mentre il verme si sviluppa all’interno dell’organismo. La seconda parte racconta l’incontro fra due vittime di questa truffa (guarite da un altrettanto misterioso Fattore appassionato di suoni della natura) e del loro lento convergere verso una storia d’amore fatta di memorie condivise e oscillazioni emotive. L’ultimissima parte chiude il cerchio con la prima e ricompone il destino delle varie vittime dei furti e dell’intossicazione con quello di un allevamento di maiali a cui il Fattore ha trasmesso i loro parassiti.
Quella del cerchio è una figura cui Carruth tiene particolarmente ed è forse l’unica vera costante che tiene assieme stile e racconto, forma e sostanza del film. Il cerchio, già presente nella forma del paradosso temporale in Primer, è disseminato in forme esplicite e implicite in questa opera seconda. Prima di tutto nella forma di anelli di carta incatenati su cui le vittime del Ladro sono costrette a ricopiare a mano passi del Walden di Henry David Thoreau. Poi nel torchio con cui il Fattore trasmette il parassita dagli uomini ai maiali nella sua fattoria-laboratorio. E poi, via via, in forme sempre più astratte che fanno coincidere il ciclo della vita dell’ontogenesi con quello della filogenesi (e forse è in questo che Upstream Color si avvicina di più al film-Palma d’Oro di Malick). Ogni elemento in natura è connesso: l’evoluzione delle piante blu con quella dei loro parassiti, la proliferazione dei nematodi “telepatici” con la vita degli uomini “infettati”, la guarigione delle vittime con la cattività dei maiali e, infine, il sacrificio dei maiali contaminati con la crescita di nuove piante blu. Ma, come detto, c’è anche un ciclo che riguarda più strettamente gli esseri umani nei loro rapporti e relazioni che riporta su un territorio più terreno e sensuale l’enigma di Carruth. Le vite dei due protagonisti si intrecciano attraverso una sorta di telepatia emotiva e una serie di ricordi d’infanzia che tendono a confondersi e sovrapporsi.
A legare questa dimensione biologica ed esistenziale di rapporti e contaminazioni sono le parole di Thoreau e della sua opera incentrata sul vivere in modo autosufficiente nei boschi. Il Walden è uno dei pilastri della controcultura americana, riferimento principale di tanti autori, dalla Beat Generation fino a Into the Wild di Sean Penn. In Upstream Color, i passi di Walden non chiudono solo gli anelli di carta che tutte le vittime sono costrette a fabbricare nel loro periodo di prigionia, ma anche il cerchio di tutte le varie dualità toccate dal film (civiltà e natura, futuro e passato, umano e animale, spirituale e sensuale, sogno e realtà). Ognuna di queste si circuita attraverso le idee sulla causalità universale e sulla scoperta dell’altro come scoperta di sé del filosofo americano. E attraverso una sintassi dal ritmo sostenuto che segue la progressione elicoidale del montaggio secondo Ejzenstejn. Carruth costruisce infatti tutto il film attraverso brevissime inquadrature (per lo più dettagli e primi piani) e continue ellissi e sovrapposizioni temporali che danno alla linearità del racconto la potenza ciclica ed evolutiva dei vari elementi che lo compongono. È dunque attraverso un linguaggio propriamente poetico – quindi non diretto, non immediato, ma affascinante, suggestivo ed evocativo – che si realizza fra film e osservatore quello scambio di sguardi che, per dirla con Thoreau, costituisce il miracolo più grande.
Upstream Color, regia di Shane Carruth, USA 2013, 96'.