Prosegue il meritorio lavoro di restauro della Cineteca di Bologna sui materiali forniti dalla Fondazione Chaplin. Dopo le comiche targate Keystone (distribuite in dvd nel 2011), e in attesa dei corti del periodo Essanay, sono finalmente disponibili i dodici cortometraggi prodotti da Chaplin alla Mutual: si tratta, con molta probabilità, delle copie migliori attualmente in circolazione[1], ricostruite con pazienza nei laboratori dell'Immagine Ritrovata, con il contribuito della Lobster Film e della Film Preservation Associates, nonché di innumerevoli archivi e finanziatori privati quali Martin Scorsese, George Lucas e Alexander Payne.

Il periodo Mutual (primavera 1916 – autunno 1917) costituisce uno snodo fondamentale nella carriera di Charlie Chaplin, la cui fama presso il pubblico e la critica è già enorme. Mentre in Europa infuria la Grande Guerra, e David Wark Griffith traghetta il cinema verso l'età adulta con Nascita di una Nazione e Intolerance, Chaplin è ammirato in tutto il mondo con un entusiasmo che va ben al di là dell'ambito cinematografico. Gli vengono dedicate strisce a fumetti (Charlie Chaplin Comic Capers, disegnate da E.C. Segar, futuro creatore di Popeye), una serie a disegni animati, libri e giocattoli. Produttori di pochi scrupoli tentano di emularne il successo proponendo imitatori (il più famoso è Billy West)[2], mentre nelle città di tutta l'America si indicono concorsi a premi  per trovare il miglior sosia dell'omino con i baffi: «When you see Charlie Chaplin you can't help but get the habit», canta Lupino Lane in That Charlie Chaplin Walk, una delle più famose tra le numerosissime canzoni ispirate all'attore inglese. [3]

Nei primi mesi del 1916 Chaplin chiude fra le polemiche[4] il contratto che lo lega alla Essanay: forte del proprio successo, vuole condizioni produttive più favorevoli e una maggiore libertà creativa. Le offerte non mancano, ma è la Mutual Film Corporation ad assicurarsene le prestazioni, alla cifra (esorbitante per l'epoca) di 670.000 dollari l'anno. Per Chaplin è il primo passo verso il controllo assoluto dei propri film, come dimostra il drastico rallentamento del regime produttivo, che passa da una comica ogni due settimane del 1915 ad una al mese nel 1916, per scendere ulteriormente nel 1917, con quattro film in dieci mesi. Un calo dovuto al peculiare metodo di lavoro chapliniano, estremamente lungo e costoso, eppure indubbiamente efficace, che proprio alla Mutual prende forma. In un'intervista degli anni Settanta, il suo direttore della fotografia, Roland Totheroh, ricordava che «[Chaplin] non aveva un vero script a quell'epoca […] la sceneggiatura si sviluppava man mano che andavamo avanti. Molte volte, dopo aver visto la mattina successiva il materiale girato, se non lo persuadeva ci inseriva qualche altra sequenza e lavorava su quella invece di continuare secondo i piani. Non avevamo mai un vero e proprio piano di lavorazione. Chaplin aveva un'idea e la sviluppava. Aveva uno schema preciso in mente, ma niente sulla carta. […] Decine di volte faceva costruire dei set prima di avere veramente deciso cosa voleva».[5]

Chaplin porta sul set cinematografico la sua esperienza di meticoloso performer teatrale, e non esita, ripresa dopo ripresa, a perfezionare le proprie trovate[6], seguendo l'estro del momento e l'immediata risposta del pubblico (è infatti molto attento alle reazioni della troupe). I principi della regia chapliniana sono per il resto improntati a una programmatica semplicità: «Cerco sempre di disporre la macchina da presa in modo da favorire la coreografia, i movimenti dell'attore – scriverà mezzo secolo più tardi – La macchina da presa non dovrebbe mai far sentire la sua presenza».[7] Chaplin regista propone quindi una concezione “centripeta” della messa in scena, al servizio di Chaplin attore: l'omino coi baffi diventa il perno attorno al quale ruota tutto il resto, dagli interpreti al décor

Il periodo Mutual costituisce infatti l'autentica “seconda nascita” di Charlot: «Ai tempi della Keystone […] funzionavano solo i suoi istinti, che miravano all'essenziale: un po' di cibo, un' po' di calore e un tetto sulla testa. Ma ad ogni comica successiva il vagabondo divenne più complesso. Nel personaggio cominciava a filtrare il sentimento».[8] Già una manciata di film realizzati alla Essanay[9] avevano contribuito a precisarne la fisionomia, trasformando il monello dispettoso degli esordi in un reietto che si batte contro la società. Al termine dei venti mesi alla Mutual la maturazione si può dire completa, anche se il cambiamento non sarà repentino né radicale.[10]

Una caratteristica rimane tuttavia costante: la totale, conflittuale estraneità del personaggio all'ambiente intorno a lui. Che  vesta i panni del proletario affamato (come in The Count, settembre 1916), quelli del borghese (in One A.M., agosto 1916, e in The Cure, aprile 1917) o addirittura del poliziotto (in Easy Street, gennaio 1917), egli è e rimane il grande intruso, l'elemento che porta scompiglio semplicemente attraverso la propria presenza[11]. Ingaggiato come comparsa in una farsa slapstick, finisce per coinvolgere l'intero studio cinematografico in una battaglia a colpi di dolci alla panna (Behind the Screen, novembre 1916); assunto come cameriere in un ristorante, serve in tavola un gatto (vivo!) al posto dell'arrosto (The Rink, dicembre 1916); intrufolatosi nei palazzi dell'Alta Società, riesce a trasformare la sala da ballo nel teatro ideale per una rissa (The Count, settembre 1916) o a rovesciare il gelato nel decolletè della padrona di casa (The Adventurer, ottobre 1917).

L'incompatibilità di Chaplin si manifesta in primo luogo attraverso il suo corpo d'attore, nei suoi gesti scomposti, fuori controllo, segmentati, per dirla con Benjamin, “in una serie di piccolissime innervazioni” e “particelle separate di moto”[12]. In Easy Street, l'omino finisce col sedere sulla siringa di un tossicomane e, come attraversato da una scarica elettrica, sbaraglia tutti gli avversari rimbalzando da una parte all'altra dell'inquadratura come una marionetta impazzita. Ma Charlot è anche duttile e proteiforme: può mimetizzarsi da lampadario a piantana, come in The Adventurer, o assumere le sembianze di un istrice, come in una celebre sequenza di Behind the Screen. Non a caso Tom Gunning definisce il corpo chapliniano «A body in process, in transformation, an incomplete body able to merge with other body  – or other things – and create new bodies, grotesques apart human part something else».[13]

Piuttosto che adattarsi, il vagabondo preferisce tenersi ai bordi di questo universo che lo rifiuta, sforzandosi di piegarlo ai propri desideri, di trasformarlo. È probabilmente André Bazin il primo a intuire questa caratteristica dell'eroe chapliniano quando osserva: «Sembra che gli oggetti accettino di aiutare Charlot solo al margine del senso che la società aveva loro assegnato»[14]. Abbondano in questi film le gag di “trasposizione”: in Easy Street un lampione a gas serve per addormentare un nemico all'apparenza invincibile; la cisterna dell'autopompa diventa, in The Fireman (giugno 1916), una caffettiera; in The Pawnshop (ottobre 1916) le focacce sono usate a mo' di pesi, i piatti vengono asciugati con lo strizzatoio per i panni e una sveglia diventa, di volta in volta, scatoletta di tonno, manufatto prezioso, cadavere da dissezionare.  

Dove affondino le radici dell'inadattabilità chapliniana non è facile dirlo. In un cortometraggio come One A.M. – nel quale il solito gentiluomo ubriaco cerca di raggiungere la propria camera da letto duellando con gli oggetti di casa, improvvisamente divenuti ostili – il conflitto fra il personaggio e il mondo assume dimensioni quasi ontologiche; mentre in The Immigrant (giugno 1917), esso scaturisce da precise ragioni sociali: difficile dimenticare gli sguardi del vagabondo e della sua compagna di viaggio rivolti alla Statua della Libertà, un attimo prima che i funzionari dell'ufficio immigrazione li sbattano insieme ad altri sventurati dietro a un cordone di sicurezza, «quasi si trattasse di bestiame».[15]

L'omino coi baffi  come artefice di una rivincita degli “ultimi”, dunque? Può darsi, ma bisogna tenere presente che il cinema chapliniano è più poetico che politico, e che la sua critica sociale – soprattutto in questa fase – ha come riferimento precipuo, più che il Daumier citato da Bazin,[16] le illustrazioni di Cruikshank e il music hall vittoriano, con i suoi cattivi tutti baffi e sguardi truci, i suoi scioperanti muniti di cariche di dinamite, sue virago grasse e brutte,[17] gli inevitabili stereotipi etnici (gli zingari di The Vagabond, l'usuraio ebreo di The Pawnshop).

Nelle fasi successive della sua opera, Chaplin renderà sempre più chiare le proprie ambizioni sociali, allontanandosi sempre più dall'ingenua – ma non per questo meno “eversiva” – anarchia dei primi film. Eppure sarebbe profondamente sbagliato considerare queste comiche, già formalmente compiute, come meri “abbozzi” preparatori per i grandi lungometraggi degli anni Venti e Trenta. Molto rimarrà di essi nella produzione chapliniana, tanto a livello narrativo quanto a livello visivo (la fusione tra commedia e melodramma ne Il monello e in Luci della città, la metamorfosi uomo-animale ne La febbre dell'oro, il corpo meccanizzato in Tempi moderni), e lo stesso Chaplin, a distanza di molti anni, conserverà dei giorni alla Mutual un ricordo estremamente positivo: «Fu, credo, il periodo più felice della mia carriera. Mi sentivo libero e leggero[…] quella vita sembrava percorsa da un pizzico di follia».[18]

Quasi un secolo dopo, per nostra fortuna, quella brezza di “follia” soffia ancora.

 

CHARLIE CHAPLIN. LE COMICHE MUTUAL, regia di Charles Chaplin, USA 1916-17, 305' ca. (Il Cinema Ritrovato)

 

[1] Dispiace rilevare, tuttavia, come nel primo dvd del cofanetto, alcuni momenti di The Pawnshop e The Count presentino una forte pixellatura, probabilmente a causa di un errore nella compressione dei file durante il riversamento. Un difetto tecnico difficilmente ammissibile per quella che ambisce ad essere una editio princeps delle opere chapliniane.

[2] Su Billy West e gli altri imitatori (Billy Ritchie e Bill Reeves in primis), si legga in particolare Davide Turconi, Riflessi di Chaplin. Plagi, parodie, contraffazioni, in Cinegrafie n.3, I semestre 1991, pp. 129-41.

[3] David Robinson, Chaplin. La vita e l'arte, Marsilio, Venezia, 1987, pp. 162-63.

[4] Il casus belli fu la distribuzione di un'edizione parzialmente rigirata e rimontata dai produttori della rivisitazione in chiave chapliniana della Carmen di DeMille. Il regista fece ricorso in tribunale, ma perse la causa. Per maggiori dettagli, si veda Robinson, op. cit., pp. 158-61.

[5] Intervista di Timothy J. Lyons a Roland Totheroh, originariamente pubblicata su Film Culture nel 1972. Citata in Robinson, op. cit. pp. 178-79.

[6] Come testimonia il documentario di Kevin Brownlow e David Gill, Unknown Chaplin (1983), la cui prima puntata, dedicata interamente al periodo Mutual, è inclusa negli extra del dvd.

[7] Charles Chaplin, La mia autobiografia, Mondadori, Verona, 1964, p. 302.

[8] Chaplin, op. cit., p. 250.

[9] Il riferimento è a The Tramp (aprile 1915), Work (giugno 1915), The Bank (agosto 1915), Police (maggio 1916). Cfr. Giorgio Cremonini, Charlie Chaplin, Il Castoro, Milano, 2004 [1995], pp. 22-26.

[10] Se da una parte film come The Vagabond o Easy Street si rifanno alla tradizione del melodramma o dell'apologo morale (seppure in chiave parodistica), sviluppando una varietà di toni insolita per la slapstick dell'epoca, altri, ad esempio The Cure, pur rifacendosi a schemi collaudati, portano l'arte della pantomima comica a livelli di eccellenza.

[11] Non è un caso se, come rilevano Robinson, Brownlow e Gill, durante la lavorazione di The Cure, Chaplin scartò una gag assai divertente in cui l'omino si metteva a dirigere il traffico delle carrozzelle nella hall della stazione termale: «Charlot poteva portare solo il caos, mai l'ordine» (Robinson, op.cit., p. 209)

[12] Walter Benjamin, Appendici [1935] a L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, in  id., Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, Einaudi, Torino, 2012, pp. 51-52. La gestualità di Chaplin, del resto, era l'aspetto che doveva aver colpito di più le avanguardie europee: fra i tanti, Jean Epstein, che parla di "nevrastenia fotogenica", e Fernand Léger, che inserisce nel suo Ballet mécanique (1924) uno Charlot "cubista" pronto a disfarsi in mille pezzi.

[13] Tom Gunning, Chaplin and the body of modernity, in Early Popular Visual Culture, vol. 8, n.3, august 2010, p. 243 (disponibile in pdf).

[14] André Bazin, Introduzione a una simbolica di Charlot, in id., Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano, 1999 [1973], p. 55.

[15] Robinson, op. cit., p. 214.

[16] Bazin, op. cit., p.61.

[17] Non di rado interpretate, come vuole la tradizione, da uomini en travesti (Henry Bergman in The Rink, ad esempio).

[18] Chaplin, op. cit., p. 226.