Black Coal Thin Ice è come il suo titolo, fatto di contrasti, di ossimori: il nero del carbone e il bianco della neve; la solidità della terra perforata e la leggerezza sottile del ghiaccio; la grandezza dell’amore e la sua dannazione. È un film di genere, per quanto decisamente sui generis, e per questo non si preoccupa delle contraddizioni che lo attraversano, ma ne trae addirittura la propria struttura.
Prima di essere un film su un nazione, la Cina, e il suo continuo mutamento (la storia si ambienta in due momenti diversi, 1999 e 2004, e il salto temporale sembra il salto di un abisso); prima, ancora, di essere un noir che si presta a inevitabili letture autoriali, Black Coal Thin Ice è un film di persone, di accidenti – violenti, dolorosi, grotteschi – e di luoghi. Attraverso la caccia a un serial killer che smembra i corpi delle sue vittime e, grazie al sistema di smistamento del carbone di una miniera, dissemina frammenti di cadaveri in tutto il Paese, Diao Yinan riesce a parlare la lingua del cinema puro, preciso nelle ambientazioni e nella descrizione dei personaggi.
Il film è ambientato in una città che fa da sfondo perfetto a una storia di omicidi e amor fou: tranquilla e notturna, ammantata di neve ma annerita dal carbone, congelata da un ghiaccio che sembra perenne e spezzata nella sua sonnolenza da continui omicidi. I suoi protagonisti sono figure tipiche – un serial killer, una femme fatale, un ex poliziotto alla deriva – ma sofferenti e misteriose, ambigue e in fin dei conti incomprensibili.
Black Coal Thin Ice è insomma un film inafferrabile, così ricco di elementi da sfiorare la confusione; o forse semplicemente così innamorato del proprio racconto, della sua anima nera e insieme mélo, da procedere per situazioni quasi indipendenti, momenti comici (la sparatoria nel bordello, il furto della moto al protagonista ubriaco), passaggi tragici (le cerimonie funebri per i poliziotti uccisi in servizio), improbabili scene d’amore (gli inseguimenti sul ghiaccio, di memoria quasi hitchcockiana), e incerte scene di disperazione (il magnifico finale con i fuochi d’artificio, che si presta a mille possibili letture). Squarci di bellezza o di orrore, insomma, che aprono un film all’apparenza controllato e cupo alla dimensione della grazia e dell’imprevisto.
Di sicuro, di assodato, in questo sorprendente Orso d’oro 2014 c’è solo la precisione del cinema quando racconta e non si fa troppe domande, lasciando che qualsiasi tentazione autoriale o lettura metaforica viaggi sottotraccia, come la terra che riposa sotto la neve.