Siamo nel web come i pesci nell’acqua? Internet è diventato la nostra materia, il nostro punto di osservazione, il nostro mezzo di comunicazione? Ha distrutto, come fanno le ere glaciali, ogni altra forma di vita possibile? È un’era felice o un’era di decadenza? A giudicare dalle chiacchiere che si fanno in un certo posto che frequento – la critica cinematografica – la risposta a queste domande è sempre e soltanto: “sì!”. Ogni festival, ogni rivista, ogni università si domanda “Quale è il futuro della critica cinematografica nell’era di Internet?”
Da come la vedo io, stanno sopravvalutando la rivoluzione. L’odore della polvere da sparo dà alla testa. La critica riguarda cose di primo ordine come creatività, cultura, espressività, protesta, gioco, militanza, seduzione, passione, attivismo e arte. Nessuna di queste è stata inventata da internet. Anzi, molte di queste sono ciò a cui una cosa di secondo ordine come internet aspira. Per essere più chiaro, vorrei si pensasse alla relazione tra il critico, il testo, la critica e il mondo. Il critico guarda al testo – un film, per esempio –, lo compara con il mondo e poi, fuori da questo paragone, fa della critica. Dice che il testo è di valore perché si accorda bene con il mondo ed è pure in qualche modo – per via dell’acume, o della velocità, o della lentezza, o della profondità, o della sorpresa, o della tristezza – qualcosa di bello in sé.
Se questo critico fosse d’accordo con quel che scrive Terry Eagleton in “The Function of Criticism”, allora potrebbe dire che il testo dovrebbe criticare il mondo per i suoi difetti – o, almeno, non replicare quei difetti. Bisognerebbe essere un po’ più diffidenti del mondo che si sta criticando, ma non fino al punto in cui la diffidenza diventa disillusione. Quindi questo critico, se è un buon critico, avrà capito che non sta semplicemente rispondendo all’arte, sta facendo arte. Più facile a dirsi che a farsi. Come fa un critico a far arte, cioè ad evitare la banalità? Per cominciare indossa gli occhiali a raggi X e con quelli scruta dentro il testo/film. Il giornalista italiano Roberto Silvestri sostiene che il critico dovrebbe “aprire” la scatola nera e vedere cosa ci sta dentro.
In “Visual Thinking” di Rudolf Arnheim c’è una splendida illustrazione che spiega cosa questo significhi. Un dipinto di Corot di una madre e un bambino è affiancato ad una scultura di Henry Moore e il suo accostamento dimostra che a livello compositivo sono esattamente la stessa cosa. È come se Arnheim dicesse che dentro Corot c’è Moore. Ecco, il critico deve vedere quello che sta dentro. Questo è quello che ha fatto l’artista Douglas Gordon con 24 Hour Psycho: ha rallentato il celeberrimo film di Hitchcock – su lentezza e improvvisa velocità – fino alla velocità di un fotogramma a pulsazione per mostrare quanto sia ipnotico.
Così, in quanto critici, noi guardiamo al mondo, vediamo quanto i film gli corrispondano e guardiamo dentro i film. Tutto quello che ci resta da fare è fare critica. E si noti che non ho detto “scrivere una critica”. La critica non è soltanto scrivere, ovviamente. Può essere un evento, un luogo, un film, un modo di pensare, un gioco, una apologia o uno scritto. Ora racconterò qualcosa che riguarda la mia vita e il mio lavoro, ma gli esempi abbondano ovunque. Prendiamo il caso dell’evento: A Pilgrimage, dove Tilda Swinton, gli spettatori del film e io stesso abbiamo trascinato un “cinema ambulante” di trentasette tonnellate in giro per la Scozia, era critica cinematografica. Esprimeva visivamente la nostra idea che il cinema è un’esperienza collettiva, quasi religiosa, che assomiglia ad un road movie. Il mese scorso, al festival di Stoccolma, un altro evento: molti di noi sono stati fotografati con addosso delle mascherine nere per manifestare contro il fatto che il regista iraniano Mohammed Rasoulof non era stato autorizzato a partecipare al festival.
E che si può dire dei luoghi? L’atto più eloquente di critica cinematografica che conosco è il cinema Obala, che era attivo durante l’orrendo assedio di Sarajevo in cui più di 10.000 persone furono uccise. Obala era una sala sotterranea molto frugale, ma che ribadiva senza compromessi che, soprattutto nei tempi più duri, la tremolante vitalità del cinema ti fa sentire vivo. La sua illusione rendeva sostenibile la realtà. Un altro luogo che è, o meglio che sarebbe stato, un grande pezzo di critica, è il vecchio cinema Glen a Paisley, in Scozia. La sera di capodanno del 1929, settantuno bambini morirono stritolati da una folla in preda al panico a causa di un principio di incendio. Qualcuno dovrebbe fare qualcosa di brillante su questo posto di orrore e amore.
Ovviamente, i film stessi possono essere dei superbi pezzi di critica – come per esempio Los Angeles Plays Itself di Thom Andersen, Il mio viaggio in Italia di Martin Scorsese, Devotion: A Film About Ogawa Production di Barbara Hammer o Viale del tramonto di Billy Wilder. Il modo di pensare è cruciale in questo caso. Il filosofo Karl Popper disse una volta, parafrasando: “Se ho torto, ho ragione”. La sua idea era che vale la pena tentare di confutare quel che crediamo di sapere. Come critici dovremmo prendere la nostra ignoranza molto più sul serio. Dovremmo riflettere con la nostra testa su quegli aspetti del cinema che ci sono sconosciuti.
Pensare e giocare vanno bene assieme. I critici dovrebbero combinare, montare e sperimentare come fanno i DJ. Dovremmo far girare i dischi, passare dall'uno all’altro, fare in modo che la pista sia sempre piena di gente. Il critico David Thomson è un grande DJ: riesce a fare sembrare tutto un unico film, così la più piccola dissonanza ha il fragore di una bomba di pensiero. Anche l'apologia può essere giocosa, ma per la critica è l’imperativo morale più serio. L’ho già detto, i critici sono avvocati difensori che in tribunale rappresentano opere che sono state sequestrate. La cultura cinematografica non è meritocratica. Non c'è eguaglianza. Le persone, come i film, sono discriminati per via della loro classe, della loro razza, della loro nazione, del loro budget, del loro genere o della loro forma.
Infine, c’è anche il tipo di critica che sto facendo in questo momento – lo scritto. Tuttavia, anche scrivere di film è una pratica plurale. Uno scritto di critica può essere una recensione, un libro, un saggio, una intervista, ma può anche essere una lettera, una fantasia o un manifesto, e anche molto altro. È quello che cerco di fare persino nel mio lavoro. Il mio prossimo libro, Dear Orson Welles, sarà una serie di lettere a dei filmmaker, molti dei quali morti. Chris Marker mi risponde per dirmi perché gli piace la frase “Mi ha scritto”. Accompagno Orson Welles in giro per il mondo. Una volta ho scritto un saggio su un film che Ejzenštejn ha dedicato a Manhattan (cosa che non ha mai fatto), e ho redatto dei manifesti: sul film-saggio, sulla forma dei festival, sul futuro del cinema. Tutti questi sono tentativi per mettere a fuoco diversamente la critica, il modo di rivolgersi al pubblico, la realtà, la serietà o la leggerezza, le aspettative.
Mescolando la voglia di sperimentare, l'ignoto, la creatività e il desiderio di disturbare, vien fuori qualcosa che assomiglia a ciò verso cui Helene Cixous ci esorta:
"Dovremmo provare a scrivere come i nostri sogni ci insegnano; senza pudore, senza paura, fronteggiando quel che è dentro ogni essere umano – la violenza bruta, il disgusto, il terrore, la merda, l’inventiva, la poesia. Nei nostri sogni siamo criminali; uccidiamo. Ma siamo anche le persone più felici sulla terra".
Internet non porta avanti sogni, paure, invenzioni, poesie o proteste. Li segue. È al loro servizio.
(testo originariamente apparso su Sight & Sound; traduzione di Carlo Mezzasoma)