La critica cinematografica francese degli anni Cinquanta è una realtà che va molto al di là dei Cahiers du cinéma, molto al di là di Positif. Sebbene, e sempre più nel corso del decennio, queste diventeranno le due riviste principali e nella memoria della Storia del cinema le due più conosciute e studiate (soprattutto la prima, per ovvi motivi). Attorno a loro, che in ogni caso sono centrali nei discorsi che propongono, c'è un piccolo mondo di riviste, più o meno piccole, più o meno conosciute. Qui si vuole ripercorrere brevemente alcune di queste, tenendo come riferimento il cinema italiano. Una cinematografia nazionale che in qualche modo si dimostra una fonte di riflessioni e indagini, qualche volta in maniera più marginale, altre volte in modo più corposo. Una cinematografia che sembra essere cartina tornasole dell'evoluzione della critica francese del tempo, proprio per le sue peculiarità: da un lato un'essenza fortemente popolare e dall'altro un vigore autorialista che sta emergendo più che mai in questi anni. Così, l'atteggiamento della critica francese nei confronti del cinema italiano è molto particolare: una corda tesa tra puro autorialismo e un fascino social-cinefilo per un cinema nuovo e molto diverso da quello che si stava facendo in Francia.
Proprio per questo, gli articoli più interessanti sembrano essere quelli che trattano di un cinema più “popolare” ma da una prospettiva “autoriale”. È questo il caso degli articoli che sono qui proposti. Il primo è un pezzo scritto da Luigi Zampa e pubblicato nel 1951 nella rivista L'age du cinéma in occasione dell'uscita del film Signori in carrozza!. Zampa parla della situazione del cinema italiano dell'epoca: neorealismo, realismo, cinema popolare. Il fatto di aver concesso uno spazio in una rivista fortemente marxista e militante a un regista come Zampa (per un film come Signori in carrozza!) sembra essere già interessante di per sé: film “popolare” ma al regista è concesso lo spazio per raccontare le sue idee sul cinema italiano. Il secondo e il terzo compaiono nel numero 6 della rivista Raccords, un'intervista con Luciano Emmer e una recensione del suo film Domenica d'agosto. Questi rappresentano un curioso ritratto di regista-autore, la nuova speranza per un cinema italiano che sta prendendo la via del realismo in maniera sempre più pronunciata. Una entretien che, almeno nel tono amichevole e nell'elogio della personalità dell' “autore”, ricorda lo stile di quelle che saranno fatte dai jeunes turcs in seno ai Cahiers; una recensione carica di enfasi, di entusiasmo, certezza di essere di fronte a un film davvero importante. Il quarto è un articolo di Claude Beylie (collaboratore anche degli stessi Cahiers) uscito in Cinéma 59, dal titolo: “Cottafavi ou le neo-melodramme”. Un ritratto autorialista (su modello, in qualche modo, macmahonien) di un cineasta che diventa un caso di studio approfondito, pur essendo fortemente legato al cinema di genere. Un pezzo, quest'ultimo, che dimostra una certa evoluzione della critica francese nel corso degli anni Cinquanta. Una critica che, verso la fine del decennio, è sempre più portata a riscoprire un cinema (e degli “autori”) che era stato messo in secondo piano nei tanti discorsi fatti negli anni precedenti. Il finale di questo saggio sembra essere sintomo di una maturazione critica che solo alcuni anni prima era impensabile:
Esatto? Che bel sogno! Quanti tentativi ancora da fare! Verrà un giorno in cui tutto sarà chiaro. Quando i credi autentici saranno etichettati e assaporati senza il rischio di sbagliare, di confusione con le denominazioni volgari. Per adesso ancora tutto scorre, pressapoco indistintamente sulla nostra tavola.[1]
Ma prima di proporre questi articoli significativi, si vuole presentare una piccola indagine (di cui filo conduttore è il cinema italiano) in queste realtà critiche, meno celebri dei Cahiers du cinéma e di Positif, che in qualche modo ne sono satelliti.
Prima dei Cahiers, influenzati o paralleli
Abbiamo il piacere di annunciare ai nostri lettori che la Gazette du cinéma unisce le sue forze alle nostre, a partire dal prossimo numero, per difendere la causa di un cinema migliore.[2]
Nell'analisi delle diverse realtà critiche che giravano attorno alle due più “cinefile” riviste di cinema degli anni Cinquanta francesi, è difficile fare dei veri e propri raggruppamenti o trovare degli orientamenti precisi. Possiamo, alle volte, vedere delle filiazioni dirette, dei richiami espliciti oppure dei nomi che ritornano. Spesso, però, è la promiscuità ad essere dominante. Critici che scrivevano o andranno a scrivere per i Cahiers du cinéma che firmano articoli in riviste nelle quali erano presenti anche molti dei futuri “positivisti”. Oppure una rivista ad inclinazione comunista (L'écran français) che in qualche modo è anche tra i punti di riferimento per quelli che saranno i “quaderni” di Bazin. Malgrado questo si è voluto, orientativamente, dividerle in “riviste satelliti”: quelle più vicine ai Cahiers e quelle più associabili all'idea Positif. Questo per sottolineare come, in ogni caso, molte delle riviste cinematografiche francesi dell'epoca non si possono che ritenere collegate a quelle due realtà. Cahiers e Positif saranno, per alcune che le hanno precedute, una prosecuzione futura dei loro intenti critici e, per altre a loro contemporanee, un punto di riferimento o fonte d'ispirazione.
I Cahiers du cinéma sono stati, alla loro nascita, la continuazione del lavoro de La revue du cinéma. Conclusa l'esperienza voluta da Jean-Georges Auriol, alla fine degli anni Quaranta, sembrano tre le tendenze della critica in Francia: una più progressista e sociale, una legata maggiormente all'idea di realismo e una terza più estetica e autoriale.[3] Queste avevano portato alla frantumazione della critica cinematografica in tante piccole riviste. Diversi orientamenti critici e politici. Tentativi di creare delle riviste di cinema nuove, non solo nei nomi ma nei contenuti, oppure di provare a ripercorrere la strada gloriosa della Revue di Auriol. I Cahiers con André Bazin riescono a farsi da un lato continuazione di quel progetto e dall'altro provano ad unire le diverse tendenze all'interno di un'unica rivista. Perciò possiamo notare legami, flussi, idee e nomi comuni tra questa rivista e altre più piccole, in questo senso suoi satelliti. Tra i legami più facilmente rintracciabili, c'è quello che i Cahiers intrattengono con la piccola e di vita breve Gazette du cinéma. Rivista che dura meno di un anno, solo cinque numeri, tra il maggio e il novembre del 1950. Composta, nei primi tre numeri, da sole quattro pagine e, nei successivi due, da otto pagine, sempre grande formato. Il nome più importante è quello di Eric Rohmer, che in tutti i cinque numeri è il directeur (prima come Maurice Schérer, poi sotto pseudonimo). Ma anche altri nomi importanti hanno a che fare con questa piccola realtà critica. Al di là delle partecipazioni prestigiose di personalità come Jean-Paul Sartre o Paul Valery, quello che più la caratterizza è l'essere stata la culla di quelli che saranno, con l'aggiunta di Truffaut e Chabrol, i futuri jeunes turcs: Eric Rohmer stesso, poi Jacques Rivette e Jean-Luc Godard.[4] Ma anche Jean Douchet e Jean Domarchi scrivono nella Gazette, oltre a due aînes che saranno alla base, almeno nella prima fase, della rivista baziniana: Jacques Doniol-Valcroze e Alexandre Astruc. Per quanto riguarda il cinema italiano, ne ritroviamo solo poche tracce nel numero quattro e nel numero cinque. Molto improntata sul cinema americano, la rivista concede briciole a tutte le altre cinematografie. Colpisce, però, un intervista a Michelangelo Antonioni che appare nel numero quattro dell'ottobre 1950, non firmata, in occasione della presentazione di Cronaca di un amore al Festival du film maudit de Biarritz. Pubblicare una lunga intervista ad Antonioni nel 1950 non è certo una cosa così scontata, anche nel contesto di un festival. Il perché di questa scelta ce lo fornisce Rivette, in un articolo che fa il punto su questa manifestazione cinematografica: “Cronaca di un amore, di Michelangelo Antonioni, è senza dubbio l'opera più completa che ci fu dato di vedere”.[5] Nell'ultimo numero, il cinque del novembre 1950, viene dedicata una pagina intera al film Stromboli di Rossellini.[6] Schérer tesse un elogio a colui che qualche tempo dopo sarebbe diventato il suo génie du christianisme. Gli uomini che saranno i protagonisti della politique des auteurs, facevano quindi parte di una piccola rivista, la Gazette du cinéma, che già aveva in Rossellini uno dei suoi “autori” da celebrare.
Prima di analizzare le altre riviste “piccoli satelliti” dei Cahiers, è giusto fare un accenno anche a L'écran français, settimanale che è pubblicato tra il 1943 e il 1952. Probabilmente è la rivista francese di cinema più letta della sua epoca e la redazione è composta da personalità critiche molto importanti che finiranno per scrivere sui Cahiers. Su tutti: Bazin, Astruc, Kast, Nino Frank, Sadoul, Louis Daquin. Dimostrando come la rivista fondata da Bazin aveva nella promiscuità e nella diversità la sua vera forza. L'écran français era una rivista ascrivibile a quelle sotto l'influenza del partito comunista, influenza che diviene con il passare del tempo sempre più una “sottomissione”, nel senso che si fa voce di un partito politico.[7] Un esempio su tutti, nel numero 281 del 30 novembre 1950, abbiamo delle interviste a una serie di registi provenienti da varie parti del mondo e riuniti a Varsavia per un congresso sul “cinema di guerra”. L'unico italiano è Giuseppe De Santis, che prima dichiara al suo intervistatore che “su cento film girati l'anno scorso in Italia, molto pochi sono di buona qualità”.[8] Poi, dice le sue prime impressioni sulla “democrazia popolare sovietica” (dove prima d'allora non era mai stato), confessando che lo vede come il “paese della giovinezza” e che questo congresso aiuterà molti registi a capire quale dev'essere “la loro via”. Malgrado questo atteggiamento, come abbiamo annotato, molti critici che facevano parte della redazione de L'écran français prenderanno parte all'esperienza della rivista fondata dallo “spiritualista” André Bazin.
Ma il sistema delle promiscuità e dei nomi che “girano e ritornano” non si conclude certamente con L'écran français e la Gazette du cinéma. Lo stesso Bazin scriveva anche, ad esempio, per una piccola rivista organo della federazione francese dei ciné-clubs. La rivista si chiama, appunto, Ciné-club, e viene pubblicata dal 1947 al 1954. Anche qui, oltre Bazin, molte le firme dei Cahiers: Amengual, Agel, Kast, Lo Duca, Mitry, Sadoul. E un numero intero sulla cinematografia italiana. Siamo nel gennaio-febbraio 1950, il numero due della nouvelle serie avviata nell'ultimo mese dell'anno precedente. I protagonisti che ci parlano di questo cinema sembrano essere sempre quelli. Come nei primi anni dei Cahiers abbiamo Cesare Zavattini che in prima persona firma articoli, “regala” soggetti inediti oppure dispensa idee. In questo caso propone (tradotta da Sadoul e Di Pucao) il soggetto che ha ricavato dal libro di Luigi Bartolini e che è poi stata la base della sceneggiatura di Ladri di biciclette.[9] Come nel Numéro spécial sur le cinéma italien de La revue du cinéma (numero 13, maggio 1948) ritroviamo Lo Duca e Mario Verdone. Quest'ultimo scrive a proposito dello stesso sceneggiatore, parlandone come “l'esempio di uno scrittore completo al servizio del cinema”[10] ed elogiandolo con l'appellativo di “Prévert italien”.[11] Lo Duca va poco lontano da questo tema; il suo articolo si concentra su Vittorio De Sica che dopo una brillante carriera come attore: “È divenuto l'essenza stessa del cinema italiano del dopoguerra”.[12] Ma l'articolo più interessante lo troviamo in apertura di questo numero e lo scrive un altro dei “soliti”, Georges Sadoul, che indaga nel cinema italiano del neorealismo dalla prospettiva di uno spettatore francese. Dalla scoperta del “nuovo” cinema italiano al Festival di Cannes del 1946, con Il bandito e Roma città aperta, fino alle considerazioni a distanza di qualche anno che gli fanno dire che “ciò che fa per noi la grandezza del cinema italiano è che esso è direttamente, profondamente del suo tempo. Amiamo vederlo superare la semplice descrizione, elevarsi fino alla critica sociale, superare le facilità e le convenzioni del verismo, raggiungere così un realismo vero”.[13] Da una prospettiva, quindi, “sociale”, sulla scia di una delle tendenze che si stavano sviluppando in quegli anni nella critica francese.
Ciné-club pubblica fino al 1954, anno nel quale cessa di esistere perché la Fédération Française des Ciné-clubs decide di puntare su una diversa proposta editoriale. Nuovo formato e nuovo nome, il suo seguito diretto si chiamerà Cinéma e durerà fino al 1999. Da non confondere con un'altra rivista, legata anch'essa alla realtà dei ciné-clubs e dal nome uguale di facciata (Cinéma) ma in realtà da leggersi come “(association française des amis du) Cinéma”. Rivista che durerà dall'ottobre 1952 al gennaio 1955, che era davvero poco più di un foglio mensile che raccoglieva la programmazione dei ciné-clubs e scriveva poche righe sui film mostrati. Molto più interessante, invece, è appunto quest'altro Cinéma nato nel 1954. I collaboratori nel corso degli anni Cinquanta, anche in questo caso sono dei “volti noti”. E la rivista si configura, come non mai, sotto il segno del mescolamento di idee e prospettive. Nella stessa rivista compaiono degli uomini Cahiers (ad esempio: Henri Agel, André Bazin, Claude Beylie, Louis Marcorelles, Jean Wagner) così come degli autorevoli esponenti di Positif (ad esempio: Robert Benayoun, Raymond Borde, Bernard Chardère, Ado Kyrou, Roger Tailleur). Alle volte con dei pezzi inediti, alle volte con articoli semplicemente ripresi da altre riviste. Il tutto sotto il controllo, almeno all'inizio, del direttore Pierre Billard, a capo della F.F.C.C. (Fédération française des ciné-clubs), che collaborava lui stesso con i Cahiers du cinéma per i quali aveva scritto due articoli (a riguardo del rapporto tra il pubblico e i ciné-clubs) e anche redatto una classifica dei migliori film dell'anno[14], interpellato in quanto amico della rivista. In questo senso ecco la vicinanza, ancora una volta, di questo “satellite” al “pianeta Cahiers”. Anche se, malgrado le grandi firme al suo interno, questa Cinéma non è certo la rivista cinefila che potrebbe sembrare. Non nel senso di una forte idea teorica sul cinema, non nella ricerca di peculiarità critiche. È, anche se più evoluto, un bollettino dei ciné-clubs con articoli di spicco che, seppur non cercando delle personali linee guida dalle quali guardare il cinema, propongono discussioni e riflessioni interessanti anche a riguardo del cinema italiano. Al quale è concesso molto spazio nelle sue pagine. A partire dalle copertine dedicate alle dive nostrane come Alida Valli (numero 3, gennaio 1955)[15], Silvana Mangano (quarta di copertina del numero 17, aprile 1957)[16], Gina Lollobrigida (numero 30, settembre-ottobre 1958).[17] Poi, la presenza nei primi numeri di una piccola rubrica che si chiama Le journal de Zavattini[18] e di diversi saggi più o meno approfonditi sui film, sulle cinematografie di alcuni registi ma anche su temi che abbracciano idee in qualche modo sociali, allo stesso tempo in un idea “nazionale” e allargata anche alle realtà “minori”, al cinema di genere, alla “serie B”. Questo non può stupire se pensiamo che, essendo l'evoluzione di un “bollettino” dei ciné-clubs, ci riporta le notizie anche minime del maggior numero di film possibili. È una rivista solo in parte “teorica”, che di conseguenza non può che segnalare anche film assolutamente ignorati da altre riviste specializzate e orientale “ideologicamente”. Così, puntualmente, troviamo in Cinéma segnalazioni e brevi, o brevissime, recensioni di film italiani che decisamente non erano diventati nemmeno lontanamente dei casi critici. Tra i più sorprendenti potremmo citare la coproduzione italo-giapponese Madama Butterfly con alla regia Carmine Gallone[19] di cui si parla malgrado sia da “sconsigliare totalmente ai cinefili”.[20] Ma anche Orlando e i paladini di Francia di Francisci[21], I misteri di Parigi di Fernando Cerchio[22], L'ultimo paradiso di Folco Quilici[23], I colpevoli di Turi Vasile[24]. Oppure l'esempio di “néo-réalisme sordide”[25] rappresentato da Londra chiama Polo Nord di Duilio Coletti[26], o ancora Terrore sulla città di Anton-Giulio Majano[27] nel quale “vediamo le possibilità di una tale sceneggiatura. Majano ha saputo sfruttarla con vigore e sobrietà. Questa non è evidentemente grande arte, ma dell'eccellente cinema estivo”.[28] Invece, sulla questione del cinema italiano più in generale, abbiamo diversi articoli d'interesse. Prima di tutto, ci colpiscono quelli “autoriali” presenti negli ultimi numeri degli anni Cinquanta. In particolare due dedicati a De Santis nel numero 35 dell'aprile 1959 e un altro dedicato a Cottafavi nel numero 40 dell'ottobre dello stesso anno. Giuseppe De Santis, che era stato uno dei nomi chiavi della rivista Positif, diminuisce sempre più la sua presenza (e quindi importanza) con il passare degli anni. Nel 1959, anno della consacrazione interna di Antonioni, il regista di Riso amaro non era nemmeno più per i “positivisti” un nome centrale nella discussione sul cinema italiano. Così, l'intervista che gli viene fatta, a cura di Michel Delahaye e Jean Wagner[29], ci sembra essere qualcosa di abbastanza singolare. Che poi si faccia di De Santis, sia in questa intervista che nell'altro articolo presente nello stesso numero[30], l'oppositore per eccellenza di Rossellini dal punto di vista “materialismo vs spiritualismo”[31], appare più che altro come della retorica stantia piuttosto che una vera e propria considerazione estetica. Invece, sicuramente più efficace è un articolo di Claude Beylie (autore anche del precedente pezzo su De Santis) a riguardo di Cottafavi. Evidente l'influenza della scuola del Mac-Mahon: Beylie scriveva nei Cahiers du cinéma e proprio il 1959 è l'anno in cui emerge questa scuola all'interno della rivista. Ancora più facile è capirne l'influenza leggendo nello stesso articolo nomi di registi come Lang e Preminger. Beylie arriverà a dire nei confronti di Cottafavi che lui possiede “l'arte del 'recitato' che nessun italiano – tranne Rossellini – possiede fino a questo punto”.[32] Oltre ad essere uno dei maggiori maestri del melodramma nel cinema: “il più singolare, e senza dubbio il solo veramente geniale, di questi cineasti oscuri: l'italiano Vittorio Cottafavi”.[33] Ma, per concludere con Cinéma, altri articoli interessanti sul cinema italiano riguardano la questione del “realismo”. Soprattutto i due che troviamo nel numero nove del febbraio 1956. Il primo, Introduction au cinéma italien, parte da un'analisi storica dell'arte in Italia, soffermandosi sul rinascimento italiano, per far capire le basi del realismo da cui parte l'Italia. Così se ne studia la tradizione nei vari campi artistici, dopo aver parlato della pittura rinascimentale affronta il romanzo ottocentesco, Manzoni e Verga, Fogazzaro e Nievo. Per infine arrivare agli scrittori contemporanei: Silone, Pratolini, Moravia. Nella tradizione, si dice, deriva un atteggiamento particolare da parte degli italiani nell'affrontare anche il cinema, nel rapportarsi alla questione del realismo:
Oggi, si dice Italia e si pensa “Cinema”. Quest'arte è quella del suo tempo nata da esso, richiesta da esso, aperta da esso. Non sono, difatti, né la pittura, né la letteratura italiana che, dal 1945, assicurarono una qualsiasi supremazia all'Italia agli occhi del popolo italiano stesso e dello straniero. Rossellini, De Sica, Zavattini, Lattuada, Zampa, De Santis, Germi, Visconti e, molto recentemente, Fellini, hanno fatto più in questo senso che i pittori del Quattrocento, Dante e Benedetto Croce, Manzoni e Leopardi messi assieme. Non parlo, volontariamente, di Gina Lollobrigida o Sofia Loren che lasciano in lontananza dietro di loro, nell'ammirazione delle folle, il sorriso di Monna Lisa o il viso puro della Lucrezia di Fra Filippo Lippi.[34]
L'altro articolo, sempre nello stesso numero, è una raccolta di testi sul tema del “realismo” al cinema in riferimento al rapporto che intercorre tra questa parola e le cinematografie italiana e francese. A confronto testi di Bazin, Doniol-Valcroze, Sadoul e Tallenay e frammenti dell'inchiesta su tale tema che era uscita sulle pagine della rivista italiana Cinema Nuovo. Anche qua, il realismo è da intendersi soprattutto in chiave di tradizione, nel sangue degli italiani. Nel caso nel neorealismo, poi, c'è anche la guerra ma, in ogni caso, la “spinta realista” è qualcosa di ancora precedente, sottopelle:
È inesatto, per esempio, sostenere che Zavattini è il padre e il profeta del neorealismo. Il padre del neorealismo è la guerra e la presa di coscienza che ha suscitato presso una parte dei registi italiani, suo nonno è una vecchia tradizione realistica italiana (soprattutto del Sud) che risale, tra gli altri, a Verga e molto al di là.[35]
Qualità innate, o comunque figlie di tradizione molto forte, che involontariamente negano, anch'esse, l' “autorialità” di tali o altri registi. Un'idea comunitaria nel fare della consuetudine artistica un dato di fatto da cui il cinema italiano degli anni Cinquanta ha trovato la sua spinta primordiale.
Spostarsi dall' “autorialità” a un altro piano è possibile anche accentuando l'attenzione nei confronti degli attori e del divismo. Così arriviamo alla rivista L'écran, meteora del panorama critico francese, che vede la sua esistenza ridotta a soli tre numeri tutti pubblicati nel 1958. Malgrado la breve durata, avrà anch'essa la possibilità di ospitare molte firme importanti, collaboratori di Positif ma soprattutto dei Cahiers du cinéma.[36] Da questa rivista prendiamo come oggetto d'interesse un solo e significativo articolo sul divismo femminile italiano, scritto da colui che più di tutti si è occupato di questo cinema all'interno de L'écran. Patrice Hovald, nel secondo numero della rivista che si presenta come un dossier sulla figura femminile nel cinema[37], scrive un saggio sul ruolo delle dive italiane, cosa rappresentano in rapporto all'Italia stessa. Hovald, prima di percorrere una breve storia del divismo in Italia, esplicita così l'importanza di tali figure nel contesto italiano, nel legame che intercorre tra loro, il cinema del “bel canto” e il pubblico:
L'italiano, esteticamente e sentimentalmente parlando, non è portato verso la sobrietà nella forma che caratterizzava – generalmente, non sempre – il neorealismo. Il bel canto soddisfa in lui un bisogno di forme molteplici e contrastanti, aperte e drammatiche. Un bisogno di melodramma, ovvero di Opera – e Luchino Visconti è il solo ad aver saputo alleare il neorealismo al melodramma, che sia in Ossessione, sobrio ma drammatizzato, o in Senso nel quale la contemporaneità si legge solamente attraverso la magnificenza.[38]
Sulla natura ontologicamente melodrammatica dello sguardo dello spettatore italiano. E sul “genere” da vedersi in chiave sociologica più che estetica. Hovald che anche nel suo volume Le néo-réalisme italien et ses créateurs[39] aveva, malgrado uno sguardo generalmente improntato alla dissertazione in chiave autoriale, delle aperture contestualizzanti e svincolate dal presupposto centrale dei “creatori”. Che, comunque, sono quasi sempre, nella critica cinematografica francese degli anni Cinquanta, la base per aprirsi ad altri tipi di letture. È così nel caso di Hovald, ma lo stesso era anche per i mac-mahoniens. Sempre dall'idea d' “autore”, anche se alternativo, si arriva a studiare cinematografie meno riconosciute. Dalla celebrazione di Cottafavi, che entra nell'olimpo dei registi degni di grandi attenzioni, si approda all'analisi anche dei film di cappa e spada o del filone mitologico. La rivista che si fa espressione dei moti dei mac-mahoniens sarà Presence du cinéma. Nata nel 1959, pubblica fino al 1967. Nella sua redazione appaiono diversi nomi noti[40], ma sarà uno il nome chiave che ci fa capire la peculiarità di questa rivista: Michel Mourlet. Lui che aveva abbandonato i Cahiers alla fine del 1960 e che, oltre a partecipare attivamente come critico, diventa persino redattore capo di Presence du cinéma a partire dal numero 12 del marzo-aprile 1962. Negli anni Cinquanta sono solo due i numeri usciti, ma quelli di nostro interesse sono il numero 9 del dicembre 1961 e il numero 17 della primavera del 1963, dedicati rispettivamente a Vittorio Cottafavi e Riccardo Freda. In apertura del primo di questi, un riconoscimento di stima e una presa di coscienza della forza critica che hanno avuto queste “nuove idee” sul cinema, messe sullo stesso piano di quelle dei Cahiers nel periodo dei jeunes turcs:
Ci sembra indispensabile fare un tributo a Michel Mourlet e ai suoi amici. Loro propongono dei nuovi registi. Loro sono la base e gli agenti di sviluppo di tutto il cinema che dovrà venire, come lo furono ai loro tempi, François Truffaut o Jacques Rivette, all'età d'oro dei Cahiers du Cinéma.[41]
E, all'interno del numero, lo stesso Mourlet non si fa scappare l'occasione per fare un'intervista in puro stile Entretien dei Cahiers al “suo” Cottafavi: intervistato, interrogato, fatto parlare a ruota libera da vero “autore”.[42] Come avviene anche per Freda qualche anno dopo, intervistato e “fatto sfogare” sul cinema nostrano così tanto lontano dalle sue predilezioni:
Già vent'anni fa – Roma città aperta è del 1944 – tutti deliravano. Si diceva che era veramente la nuova frontiera del cinema. Io sghignazzavo, perché consideravo tutto ciò come accidentale e assolutamente non interessante. La mia opinione l'ho già espressa dappertutto. So che non sono per niente amato a causa di questo. Considero, e lo dico francamente, che per me, non bisogna limitarsi alla questione del neorealismo al cinema. Il realismo è in generale la peggiore forma d'espressione artistica. Su questo non ho alcun dubbio.[43]
Ennesima rivista satellite dei Cahiers, questa Presence du cinéma enfatizza la spinta che, nata dalle pagine dei “quaderni” ormai sotto il controllo degli uomini della politique des auteurs, diventerà negli anni Sessanta il motore di nuovi discorsi critici sul cinema italiano, sui generi, su una cinematografia in evoluzione da più punti di vista.
L'età marxista, i sogni positivisti
Abbiamo piacere, a questo punto, di ringraziare quelli che ci hanno preceduto. Ci sembra che noi possiamo esserci utilmente ispirati a l'Ecran Français, a Raccords, a l'Age du cinèma, senza adottare per questo tutte le idee di quella o quell'altra.[44]
Le riviste dalle quali nascono i presupposti per l'esistenza di Positif sono diverse. Per ammissione della stessa rivista nata a Lione, quella di Raccords è l'esperienza che può considerarsi la fonte d'ispirazione primaria. Ovvero, vedendo nei Cahiers du cinéma il punto di riferimento strutturale, l'obiettivo era sviluppare quel modello su diverse prospettive teoriche. Le prospettive teoriche di riviste come Raccords e L'âge du cinéma, di Saint-Cinéma des Prés e de L'écran français. Tutte riviste parigine, tutte nate e morte prima che Positif esordisse con il numero del maggio 1952. De L'écran français abbiamo già detto come sia stata anche alla base della nascita dei Cahiers, ma di come l'ideologia politica al suo interno ne faceva da padrone. Per Positif, una spinta in più a farne un modello era dovuta dallo stesso ideale marxista che le accomunava. Ma, appunto, de L'écran français abbiamo già scritto in precedenza.
Passiamo invece in rassegna le altre, a partire dagli studi di Raccords. Quello che Positif prende dalla piccola rivista che fu sotto la direzione di Gilles Jacob è “la serietà degli studi, la volontà polemica di dimostrarlo alla critica ufficiale dei grandi giornali consolidati, e l'ironia irrispettosa di una gioventù cinefila spesso ribelle”.[45] Nei suoi nove numeri in tutto, dal febbraio 1950 all'autunno del 1951, si pone non solo come bacino teorico della futura Positif, ma è anche sede per articoli di “cahieristi” come Bazin, Doniol-Valcroze o Nino Frank. Per quanto riguarda il cinema italiano, l' “autore” senza dubbio più apprezzato è, forse un po' a sorpresa, un tipo “alto, biondo, il baffo attento, i tratti un poco tirati”[46], ovvero Luciano Emmer. Gran spazio gli viene dedicato soprattutto nel numero 6 del dicembre del 1950, con due articoli che lo vedono come soggetto d'interesse, un'intervista e una recensione di Domenica d'agosto, entrambi a cura di Jacques R. Ballard. La prima è fatta in occasione delle riprese in Francia del film Parigi è sempre Parigi, ma il regista è lasciato libero di raccontare le sue idee sul cinema, libero di parlare delle sue impressioni e delle sue abitudini durante le riprese di un film. Gli viene persino chiesto quali siano i suoi cineasti preferiti e cosa ne pensa del “realismo italiano”, questione sulla quale non ha dubbi:
Non c'è del realismo italiano. C'è, come dicevo, una verità umana. In prossimità delle guerre, diviene maggiormente visibile, anche più immediata. […] In Italia, dopo la guerra, non potevamo deviare le nostre cineprese dagli uomini che ci si avvicinavano.[47]
L'altro pezzo, Un jour de la vie, è una recensione del film di Emmer che fu più apprezzato dalla critica francese in generale. Il critico di Raccords ne tesse le lodi, chiama in ballo René Clair e dice che questo film per lui è il “trionfo del realismo”: “Una verità che s'impone fino a divenire il sogno che insegue il mio vicino, di cui posso sorridere ma per difendermi, questo potrebbe essere il trionfo del realismo”.[48] Nello stesso numero della rivista, spazio anche per due recensioni che già hanno il profumo di Positif . Gilles Jacob ci parla di Caccia tragica (1947) di De Santis ponendosi questa domanda: “La nuova scuola sovietica nascerà in Italia dalla transizione neorealista?”[49] e dandosi questa risposta: “Il miglior film russo dell'anno 1947 è italiano”.[50] Poi, ancora Balland che scrive su Stromboli di Roberto Rossellini, dimostrando tutta la sua delusione per un film che per il critico francese non è proprio riuscito:
Abbiamo perso l'occasione di vedere un gran film: quello che avrebbero realizzato assieme Roberto Rossellini e Anna Magnani. […] Ingrid Bergman non sa fare il cinema romantico. […] Che ci fa lei a Stromboli? Lei non ci può portare il dramma. É di un altro mondo. Non ha il senso latino del peccato. […] Rossellini ha perduto la sua partita. Stromboli non poteva essere che un'opera vuota di senso.[51]
Il numero successivo di Raccords si approccia al cinema italiano attraverso la pubblicazione di alcuni estratti del libro, appena uscito, di Nino Frank Cinema dell'arte.[52] E con un articolo scritto da Doniol-Valcroze a proposito di Luchino Visconti. Rientra anche qui Luciano Emmer, chiamando in causa attraverso non precisate interviste che gli sono state fatte durante il suo recente soggiorno parigino.[53] Emmer viene preso come riferimento, punto di conferma, per stabilire che in realtà non esiste nessuna “scuola neorealista”:
La scuola di cinema italiana del secondo dopoguerra, detta ancora scuola neorealista, ha fatto molto lavorare le penne dei giornalisti ma le interviste date recentemente da Emmer durante il suo soggiorno a Parigi tendono a dimostrare l'inesistenza di questa scuola e, pertanto, a ridicolizzare il fiume d'inchiostro sulla questione.[54]
Per poi approdare alla questione specifica del cinema di Visconti. Regista al tempo praticamente sconosciuto in Francia, che, dice Doniol-Valcroze, a differenza di un Rossellini, un De Sica, un Lattuada o un De Santis, è quasi ignorato. Il motivo è la mancata distribuzione: “la cosa si spiega con il fatto che Visconti non ha fatto che due film [Ossessione e La terra trema] che sono praticamente sconosciuti”.[55] La ricerca, una volta di più, è per il cinema al quale solo pochi hanno potuto accedere, che nessuno ha ancora apprezzato in quanto non c'era stata la possibilità di vederlo. Anche per Doniol-Valcroze si tratta di “autori” da scoprire, nuove realtà in cui entrare.
Altra rivista che si fa, in qualche modo, punto di contatto tra quelle che saranno le future realtà Cahiers e Positif, è Saint-Cinéma des Prés. Tre numeri in tutto tra il 1949 e il 1950, nei quali passano sia Astruc e Bazin che Kyrou e Benayoun. Rivista molto improntata sul cinema americano, che si interessa particolarmente al fantastico e al documentario (una delle tre copertine, l'ultima, è su Le sang des bêtes di Georges Franju), si trova a parlare di cinema italiano solo nel primo numero del 1949. Due articoli a riguardo di Ladri di biciclette. Il primo dei due, in realtà, è una recensione su Yolanda and the Thief (Jolanda e il re della samba, Minnelli, 1945) con accenni per attrazione al film di De Sica. Che è un “capolavoro a colpo sicuro”[56] in quanto è “il genere di film dove le cadute di stile sono impossibili, dove i sentimenti sono tutti confessabili, dove l'opera può coincidere esattamente col racconto realistico di avvenimenti verosimili”.[57] L'altra recensione giudica il film in maniera opposta. Con la particolarità di considerare De Sica un grande attore in grado di “seppellire una dozzina di Charlie Chaplin”, ma allo stesso tempo un regista pessimo:
Che un attore così geniale come Vittorio De Sica, individuo in grado di seppellire una dozzina di Charlie Chaplin, abbia potuto girare un film così sinistro come Ladri di biciclette, è semplicemente la prova che Dio si può sbagliare (cosa risaputa da sempre). […] Detto questo, Ladri di biciclette è un capolavoro di vero pauperismo demagogico, si sa, questo ha un successo clamoroso in America (e tutto il mondo conosce il sorprendente sviluppo artistico dei nostri vicini d'oltre oceano; loro hanno già trovato sconcertante la Moglie del fornaio [Marcel Pagnol, 1938], trionfo gigionesco del “pagnolismo” accademico). Questo fa incassi, è realizzato con nulla, è del sociale!!! Mia cara!!![58]
Ironia, cattiveria, spregiudicatezza senza rispetto: questo pezzo è una bella anticipazione di quello che saranno molte recensioni pubblicate da Positif. Ma la rivista senza dubbio più interessante, nel contesto delle influenze sulla creatura nata in quel di Lione, è L'âge du cinéma. Rivista con a capo Kyrou e Benayoun, dura circa un anno (dal marzo 1951 a un non precisato mese del 1952) per un totale di sei numeri.[59] A differenza delle precedenti due viste, ha poco a che fare con i Cahiers. La caratterizza un tono estremamente anticlericale e antiborghese, una propensione al cinema surrealista, un atteggiamento corrosivo e spregiudicato nei confronti del cinema in generale ma anche nei confronti del resto della critica cinematografica. Anche nei confronti dei Cahiers. Nel numero due del maggio 1951, nella sezione Bibliographie nelle ultime pagine, si fa anche un accento a Raccords e ai Cahiers du cinéma (nati il mese prima). Una piccola critica al primo numero della creatura di Bazin, della quale si dice che “escludendo gli articoli di Doniol-Valcroze e André Bazin, gli standard della Revue sono ancora molto lontani”.[60] Nel numero 3 del mese successivo si scrive, però, che il secondo numero della rivista “è nell'insieme, migliore del primo”[61], e soprattutto si ospitano i critici “cahieristi” Nino Frank, Audiberti e Schérer. Quest'ultimo ha l'incarico di scrivere un articolo su Cronaca ci un amore[62] che, se non sorprende chi conosce gli scritti di Schérer-Rohmer, risulta molto spiazzante nel contesto di una rivista del genere. Elogia il film di Antonioni alludendo a gente come Hitchcock, Rossellini o Bresson, ovvero ai registi di culto dei Cahiers du cinéma. Tutti “autori” che L'âge du cinéma di certo non apprezzava. La presenza nella piccola rivista marxista e surrealista di uno degli uomini più rappresentativi della “critica cristiana” sorprende, ma soprattutto evidenzia un'apertura importante. Già nel numero due, la rivista di Kyrou e Benayoun con entusiasmo annunciava la comparsa della Gazette du cinéma, pubblicizzando così una rivale (e nemica ideologica) diretta. Così, in un'analisi approfondita, vediamo come le cose siano più complesse di una schematizzazione di comodo che spesso si tende a fare. In quanto, su questo argomento delle “riviste rivali” e delle “ideologie” che si contrappongono dovremmo sottolineare che:
Questa agitazione può essere letta in due modi che non si escludono tra loro: l'espressione di un grande smarrimento, in una confusione che tendiamo ad ordinare perché sappiamo il seguito: le cose erano sicuramente meno chiare, i campi meno predefiniti di quanto non sembri.[63]
Fino all'ultimo numero de L'âge du cinéma c'è spazio per collaboratori dei Cahiers. Nel numero 6 del 1952, ad esempio, compaiono articoli di Lotte H. Eisner e André Martin. Comunque, nel loro essere cattivi e irrispettosi per principio, non mancano le critiche che sfociano quasi in insulti. Come quando nel numero 4-5 dell'agosto 1951 si scrive:
Fortunatamente, c'è il signor André Bazin. Questo umorista molto conosciuto aveva già fatto le sue prove nel 1948, coprendo di ridicolo il sedicente autore di film Wyler. […] Viviamo senza dubbio un'epoca senza umorismo e per questo, gli scritti “umoristici” hanno qualche volta degli effetti contrari al loro scopo. È così per gli articoli del Signor B.[64]
Ma torniamo al cinema italiano. Al quale questa rivista non manca certo di prestare attenzione. Dal secondo numero in poi sono parecchi gli articoli che hanno come soggetto la questione del cinema di casa nostra, non sempre ovviamente con sguardo benevolo. Nel numero due abbiamo un'anticipazione di quello che sarà il trattamento riservato a Roberto Rossellini in Positif. In una nota dell'articolo Propos sur l'onirsme cinématographique, Robert Benayoun fa una prima stoccatina a Francesco giullare di Dio[65], che si concretizza nella recensione specifica del film. Recensione senza firma, che trae delle conclusioni squisitamente anticlericali che attaccano l'opera e il suo regista con molto vigore:
Ciò ha un'aria semplicemente ridicola, purtroppo è molto serio e Rossellini, filmando queste immagini che riassumono l'alta intelligenza e la finezza di spirito della religione cristiana, non aveva come scopo la caricatura. Dopo aver lanciato sul mercato il derrata neorealista, rischia di condurre dei giovani nella più pura Saint-Sulpice. […] Regista di talento in certe sequenze di Roma città aperta (grazie soprattutto alla Magnani) e in alcuni sketch di Paisà (grazie a dei soggetti di una bellezza folgorante), Rossellini ci ha fornito solamente delle opere anti-cinematografiche dove la piattezza più assoluta regna formalmente per incorniciare le grida isteriche di una bigotta e la glorificazione della stupidità più insulsa.[66]
Nello stesso numero, in conclusione, ne La tribune des lecteurs si spiega esattamente quale sia l'approccio che i redattori della rivista hanno con il cinema italiano. Un lettore aveva scritto loro dicendo di essere un sincero ammiratore della scuola neorealista italiana, di Rossellini, Germi, De Sica. La risposta che gli viene data, semplicemente, mette in chiaro che il cinema italiano è amato anche da L'âge du cinéma, ma per loro il cinema italiano che vale è un altro:
Per quel che riguarda il cinema italiano, anche noi l'ammiriamo, ma per autori ben diversi dai vostri. I nostri autori preferiti sarebbero piuttosto Giuseppe De Santis, Alessandro Blasetti, Luchino Visconti, Renato Castellani, Alberto Lattuada e Mario Soldati. Condividiamo la vostra simpatia al riguardo di Vittorio De Sica: in quanto creatore totale, le sue relazioni col neorealismo erano puramente accidentali. Dalla poesia Miracolo a Milano, hanno smesso completamente di esistere.[67]
Ecco allora che abbiamo un attenzione per dei registi solitamente più “marginali” nelle storie del cinema. È citato Mario Soldati, ma potremmo aggiungerci anche Luigi Zampa che, regista non proprio di gran “fama autoriale”, si ritrova persino (nel numero 3) a firmare di persona un articolo in occasione del film che stava girando in quel momento, ovvero Signori, in carrozza!.[68] L'articolo s'intitola De Rome à Paris e in esso Zampa ribadisce quello che anche Emmer, nella sua intervista concessa a Raccords, aveva detto sul cinema italiano e sul neorealismo:
Non c'è nessuna scuola italiana di cinema. Tanti i registi quante le scuole. De Santis si trova agli antipodi di Lattuada, malgrado questo tutti e due furono definiti “neorealisti”, e sono italiani. […] Il cinema italiano cerca la sua via. Essendo evidente la diversità dei suoi servitori, spero che non si trasformerà mai in una scuola.[69]
Il cinema italiano non è una scuola. L' “etichetta neorealista” non è necessaria. E nel contesto di una discussione sul cinema italiano possono spuntare anche tutti quei simboli del “non-(neo-)realismo” che altrimenti non avrebbero potuto essere chiamati in causa. Ad esempio il comico Totò, personaggio popolare per eccellenza. L'attore riceve un primo elogio nel contesto di un pezzo, senza autore, sul Festival di Cannes del 1951. Nel quale, si dice, l'Italia non ha per nulla brillato e “l'unico vero sollievo, tra questi facili equivoci, è la presenza del grande comico italiano, Totò, del quale non si proclamerà mai abbastanza l'originalità e il talento”.[70] Un attore come Totò, che sarà qualche volta ricordato anche da Positif, si vede protagonista assoluto di un articolo all'interno di questa rivista. Un articolo tutto per sé, caso unico in tutta la critica francese degli anni Cinquanta.[71] Dimostrando un'attenzione nei confronti del cinema italiano nei suoi aspetti più popolari, parlando di un attore che “fa ridere follemente tutta l'Italia intera”.[72] E che grazie alla sua sola presenza può risollevare le sorti di un film considerato mediocre:
La sua apparizione in un film mediocre come Napoli milionaria eleva l'azione, e fa dimenticare tutto. Il pubblico francese non lo conosce che per Fifa e arena e Totò cerca casa. Perché i distributori, al posto di immergerci in una pioggia neorealista, non cacciano tutto questo grigiore, a favore di tanto geniali “buffonate”?[73]
Nel periodo successivo alla nascita di Positif la rivista che più sembra influenzata dalle sue idee sul cinema è Premier Plan. Direttore delle pubblicazioni è proprio Bernard Chardère, colui che aveva fondato a Lione la stessa ammiraglia marxista e “anti-cahierista”. In un certo senso, questa Premier Plan si pone con Positif come Presence du cinéma si poneva nei confronti della rivista che fu di Bazin. Ne prosegue le linee teoriche e chiama a scrivere critici che lavoravano anche per quella che è da vedersi a tutti gli effetti come la sua “guida critica”. Nasce nel 1959, proprio a Lione, e si dedica allo studio di alcuni “autori” specifici, per un totale di 55 numeri fino all'ultimo del 1970. Ogni numero è dedicato a una “personalità” cinematografia (un regista, un attore, ma anche un “movimento” come la nouvelle vague, oppure una tematica come può essere “il jazz nel cinema”) e ogni numero è curato nella maggior parte dei casi da solo un critico o due. Tra i redattori molti i nomi “positivisti”: Marcel Oms, Raymond Borde, Paul-Louis Thirard. Il primo numero dedicato al cinema italiano è il numero 12 dell'agosto 1960, un monografico su Federico Fellini, scritto però Renzo Renzi, ovvero da un critico italiano. A seguire il numero 15 del dicembre dello stesso anno su Michelangelo Antonioni (scritto da Paul-Louis Thirard) e il numero 17 del maggio dell'anno successivo su Luchino Visconti (scritto da più autori[74]). Così, all'inizio degli anni Sessanta i nomi di punta per il cinema italiano sono quelli di questi tre registi, uno (Antonioni) l'amore assoluto dei “positivisti”, gli altri due delle simpatie che pian piano diventeranno celebrazioni. Soprattutto grazie a dei “film di punta” che avevano appena realizzato, il loro esordio nel nuovo decennio che infatti era avvenuto con La dolce vita e Rocco e i suoi fratelli. Il primo monografico sul cinema italiano nel senso di cinematografia nazionale avviene con il numero 30 del novembre 1963. A cura di coloro che qualche anno prima si erano già occupati del cinema italiano dal dopoguerra alla fine degli anni Cinquanta, Raymond Borde et André Bouissy.[75] Adesso si occupano del nouveau cinéma italien, a partire appunto dai tre registi a cui erano stati dedicati dei monografici in precedenza, per arrivare a parlare successivamente degli esordienti (Olmi, Bertolucci, Brusati, ecc…), passando per i film del nuovo decennio di cineasti che avevano lavorato anche negli anni Cinquanta (Pietrangeli, Bolognini, ecc…). Ma questo è un altro decennio, un “nuovo cinema”, un'altra storia.
[1] “Exacte? Quel beau rêve! Combien tâtonnante encore! Un jour viendra où tout sera clair. Où les crûs authentiques seront étiquetés et dégustés sans risque d'erreur, de confusion avec les appellations vulgaires. Pour l'instant encore, tout coule, à peu près indistinctement, sur notre table.” Claude Beylie, “Cottafavi ou le néo-mélodrame”, Cinéma 59, n. 40, ottobre 1959, p. 80.
[2] “Nous avons le plaisir d'annoncer à nos lecteurs que la Gazette du cinéma joint ses forces aux nôtres, à partir du prochain numéro, pour défendre la cause d'un meilleur cinéma.” A cura della redazione, in un riquadro della seconda di copertina: L'âge du cinéma, n. 2, maggio 1951.
[3] Di queste tre diverse tendenze poi riunite all'interno dei Cahiers cu cinéma ce ne parla Antoine De Baecque, Le Cahiers du cinéma, Histoire d'une revue – Tome I: À l'assaut du cinéma 1951-1959, Cahiers du cinéma, Paris 1991,, p. 48.
[4] Godard che, come farà poi con i Cahiers, si firma anche sotto lo pseudonimo di Hans Lucas.
[5] “Cronaca di un amore, de Michelangelo Antonioni, est sans doute l'œuvre la plus complète qu'il nous fut donné de voir” Jacques Rivette, “Les principaux films du rendez-vous de Biarritz”, Gazette du cinéma, n. 4, ottobre 1950, p. 3.
[6] Maurice Schérer, “Stromboli”, Gazette du cinéma, n. 5, novembre 1950, p. 4.
[7] Il primo rédacteur en chef Jean Vidal riesce a mediare tra il gusto del pubblico e l'ideologia comunista. Il suo successore J.-P. Barrot ci riesce meno e la rivista prende il suo orientamento verso sinistra. Dopo di lui, sotto la direzione di Roger Boussinot, diventa proprio un giornale che si fa voce ufficiale del Partito Comunista.
[8] “sur cent films tournés l'an dernier en Italie, très peu sont de bonne qualité” De Santis in “Le cinéastes du monde entier”, L'écran français, n. 281, 30 novembre 1950, p. 12.
[9] Cesare Zavattini, “Le Voleur de bicyclettes”, Ciné-club, n. 2 nouvelle serie, gennaio-febbraio 1950, p. 8.
[10] “l'exemple d'un écrivain complet au service du cinéma” Mario Verdone, “Zavattini, le Prévert italien”, Ciné-club, n. 2 nouvelle serie, gennaio-febbraio 1950, p. 3.
[11] Ibidem.
[12] “Il est devenu l'essence même du cinéma italien d'après guerre” Lo Duca, “De la facilité de l'acteur applaudi à la recherche de l'homme perdu: Vittorio De Sica”, Ciné-club, n. 2 nouvelle serie, gennaio-febbraio 1950, p. 4.
[13] “Ce qui fait pour nous la grandeur du cinéma italien, c'est qu'il est directement, profondément de son temps. Nous aimons le voir dépasser la simple description, s'élever jusqu'à la critique sociale, dépasser les facilités et les conventions du vérisme, atteindre ainsi un réalisme véritable” Georges Sadoul, “Le néo-réalisme vu par un français – Un cinéma profondamént de son temps”, Ciné-club, n. 2 nouvelle serie, gennaio-febbraio 1950, p. 1.
[14] Numero 92 del 1959, la classifica dei migliori film dell'anno 1958.
[15] Fotogramma del film Senso (Luchino Visconti, 1954).
[16] Fotogramma del film Uomini e lupi (Giuseppe De Santis, 1957).
[17] Fotogramma del film La loi (Jules Dassin, 1959).
[18] Presente nel numero 4 del marzo 1955, nel numero 5 dell'aprile-maggio 1955 e poi nel numero 9 del febbraio 1956.
[19] Film che in Italia era uscito nel 1954, mentre in Francia nel 1957.
[20] “déconseiller totalement aux cinéphiles” “Madame Butterfly”, Cinéma 57, n. 22, novembre 1957, p. 118.
[21] “Roland Prince vaillant”, Cinéma 58, n. 24, febbraio 1958, p. 121.
[22] “Les Mystères de Paris”, Cinéma 58, n. 24, febbraio 1958, p. 121.
[23] “Paradis des hommes”, Cinéma 58, n. 26, aprile 1958, p. 117.
[24] “Responsabilité limitée”, Cinéma 58, n. 29, luglio-agosto 1958, p. 133.
[25] “Londres appelle Pôle Nord”, Cinéma 58, n. 26, aprile 1958, p. 119.
[26] Film uscito in Francia nel 1958, in Italia nel 1957.
[27] Film uscito in Italia nel 1956 e in Francia, con il titolo tradotto e leggermente modificato in Terreur sur Rome nel 1959.
[28] “On voit les possibilités d'un tel scénario. Majano a su les exploiter avec vigueur et sobriété. Ce n'est évidemment pas du grand art, mais de l'excellent cinéma estival” Yves Boisset, “Terreur sur Rome”, Cinéma 59, n. 40, ottobre 1959, p. 140.
[29] Michel Delahaye et Jean Wagner, “Un entretien avec De Santis”, Cinéma 59, n. 35, aprile 1959, pp. 46-57.
[30] Claude Beylie, “De Santis de terre et de sang”, Cinéma 59, n. 35, aprile 1959, pp. 54-55.
[31] Ad esempio Beylie scrive: “Voilà bien un cinéaste authentiquement matérialiste, le seul à cet égard qui puisse opposer à un Rossellini, pour qui la terre italienne est avant tout la terre du miracle.” Traduzione: “Ecco un cineasta autenticamente materialista, il solo ad avere questo sguardo che può essere opposto a Rossellini, per il quale la terra italiana è prima di tutto la terra del miracolo.” Ibidem.
[32] “l'art du 'récitatif' qu'aucun autre italien – Rossellini mis à part – ne possède à ce point” Claude Beylie, “Cottafavi ou le néo-mélodrame”, Cinéma 59, n. 40, ottobre 1959, p. 80.
[33] “le plus singulier, et sans doute le seul réellement génial, de ces cinéastes obscurs: l'italien Vittorio Cottafavi” Ivi., p. 79.
[34] “Aujourd'hui, on dit Italie et l'on pense “Cinéma”. Cet art est celui de son temps né de lui, réclamé par lui, œuvrant pour lui. Ce ne sont, en effet, ni la peinture, ni la littérature italiennes qui, depuis 1945, assurèrent une quelconque suprématie à l'Italie aux yeux du peuple italien lui-même et de l'étranger. Rossellini, De Sica, Zavattini, Lattuada, Zampa, De Santis, Germi, Visconti et, tout récemment, Fellini, ont fait plus en ce sens que les peintres du Quattrocento, Dante et Benedetto Croce, Manzoni et Léopardi réunis. Je ne parle pas, à dessein, de Gina Lollobrigida ou Sophia Loren qui laissent loin derrière elles dans l'admiration des foules le sourire de Mona Lisa ou le pur visage de la Lucrezia de Fra Filippo Lippi.” J.L. Rieupeyrout, “Introduction au cinéma italien”, Cinéma 56, n. 9, febbraio 1956, p. 52.
[35] “Il est inexact, par exemple, de soutenir que Zavattini est le père et le prophète du néo-réalisme. Le père du néo-réalisme, c'est la guerre et la prise de conscience qu'elle a suscitée chez une partie des rèalisateurs italiens, son grand-père c'est une vieille tradition réaliste italienne (surtout du Sud) qui remonte, entre autres, à Verga et bien au-delà.” Doniol-Valcroze in “Réalisme italien, réalisme français”, Cinéma 56, n. 9, febbraio 1956, p. 63.
[36] Tra i tanti “nomi Cahiers” presenti possiamo annotare: Michel Mourlet, Jacques Siclier, Pierre Kast, Lo Duca, Nino Frank, Louis Marcorelles, André Martin, Claude Mauriac, Claude Beylie. Ma soprattutto bisogna sottolineare che il Rédacteur en chef di questa esperienza critica è il redattore dei Cahiers (e amico di Bazin) André S. Labarthe. Presenti, anche se in numero minore, anche degli importanti collaboratori Positif, su tutti si notano la presenza degli onnipresenti Ado Kyrou e Robert Benayoun.
[37] Il titolo di questo secondo numero della rivista è De la Vamp à la Femme.
[38] “L'Italien, esthétiquement et sentimentalement parlant, n'est pas porté vers le dépouillement dans la forme qui caractérisait – généralement, pas toujours – le néo-réalisme. Le bel canto satisfait en lui un besoin de formes multiples et contrastées, ouvertes et dramatiques. Un besoin de mélodramma, c'est-à-dire d'opéra – et Luchino Visconti est le seul à avoir su allier le néo-réalisme au melodramma, que ce soit dans Ossessione dépouillé, mais dramatisé, ou dans Senso dont la contemporanéité ne se lit qu'à travers la magnificence.” Patrice Hovald, “E arrivata la diva”, L'écran, n. 2, 1958, p. 62.
[39] Patrice Hovald, Le néo-réalisme italien et ses créatures, Editions du Cerf, coll. “7e Art”, Paris, 1959.
[40] Tra i quali i vari “girariviste” Kast, Doniol-Valcroze, Marcorelles, Beylie, Tailleur o Benayoun.
[41] “Il nous semble indispensable de donner une tribute à Michel Mourlet et à ses amis. Ils proposent de nouveaux metteurs en scène. Ils sont la base et les éléments précurseurs de tout un cinéma à venir, comme le furent en leur temps, François Truffaut ou Jacques Rivette, à l'âge d'or des Cahiers du Cinéma.” Jean Curtelin, “Avant-propos”, Presence du cinéma, n. 9, dicembre 1961, p. 1.
[42] Michel Mourlet et Paule Agde, “Entretien avec Vittorio Cottafavi”, Presence du cinéma, n. 9, dicembre 1961, pp. 5-28.
[43] “Il y a déjà vingt ans – Rome Ville ouverte est de 1944 – tout le monde dèlirait. On disait que c'était vraiment la grande rue ouverte pour le cinéma. Moi, je ricanais, parce que je considérais tout ça comme accidentel et absolument pas intéressant. Mon opinion, je l'ai déjà exprimée partout. Je sais que je ne suis pas du tout aimé à cause de cela. Je considère, et je le dis franchement, que pour moi, il ne faut pas se limiter à la question du néo-réalisme au cinéma. Le réalisme en général est la pire forme d'expression artistique. Sur cela je n'ai aucun doute.” Riccardo Freda in Jacques Lourcelles et Simon Mizrahi, “Entretien avec Riccarco Freda”, Presence du cinéma, n. 17, primavera 1963, p. 11.
[44] “Ayons plaisir, au passage, à remercier ceux qui nous précèdent. Il nous semble qu'on pouvait utilement s'ispirer de l'Ecran Français, de Raccords, de l'Age du cinéma, sans adopter toutes les vues de telle ou telle.” articolo senza firma: “Réflexions sur la comète”, Positif, n. 21, febbraio 1957, p. 3.
[45] “le sérieux des études, la volonté polémique d'en remontrer à la critique officielle des grands journaux installés, et l'ironie irrespectueuse d'une jeunesse cinéphile souvent frondeuse” Antoine De Baecque, La cinéphilie – invention d'un regard, histoire d'une culture 1944-1968, Librairie Arthème Fayard, 2003, Paris, p. 224.
[46] “Grand, blond, la moustache attentive, les traits un peu tirés” Jacques R. Balland, “Luciano Emmer”, Raccords, n. 6, dicembre 1950, p. 21.
[47] “Il n'y a pas de réalisme italien. Il y a, comme je disais, une verité humaine. A la faveur des guerres, elle se fait plus préhensible, plus pressante aussi. […] En Italie, après-guerre, nous ne pouvions détourner nos caméras des hommes qui nous entouraient.” Luciano Emmer in Ibidem.
[48] “Une vérité qui s'impose jusqu'à devenir le rêve que poursuit mon voisin, dont je puis sourire mais pour me défendre, ce pourrait être le triomphe du réalisme” Jacques R. Balland, “Un jour de la vie”, Raccords, n. 6, dicembre 1950, p. 27.
[49] “La nouvelle école soviétique naîtrait-elle en Italie de la transition néo-réaliste?” Gilles Jacob, “Renaissance du cinéma russe: De Santis”, Raccords, n. 6, dicembre 1950, p. 15.
[50] “Le meilleur film russe pour l'année 1947 est italien” Ibidem.
[51] “Nous avons manqué de voir un grand film: celui qu'eussent réalisé ensemble Roberto Rossellini et Anna Magnani. […] Ingrid Bergman ne sait pas faire le cinéma-amour. […] Que fait-elle à Stromboli? Elle ne peut pas y porter le drame. Elle est d'un autre monde. Elle n'a pas le sens latin du péché. […] Rossellini avait perdu sa partie, Stromboli ne pouvait être qu'une œuvre vide de sens.” Jacques R. Balland, “Situations fausses sur un volcan”, Raccords, n. 6, dicembre 1950, pp. 27-29.
[52] Estratti riproposti nell'articolo Nino Frank, “Blasetti, de Sica, Visconti”, Raccords, n. 7, primavera 1951, pp. 1-4.
[53] Tra le quali comunque possiamo sicuramente annoverare quella rilasciata alla stessa Raccords nel numero precedente.
[54] “L'école italienne de cinéma d'après la seconde guerre mondiale, dite encore école néo-réaliste, a beaucoup fait travailler les stylos des journalistes mais les interviews données récemment par Emmer durant son séjour à Paris tendent à démontrer l'inexistence de cette école et, partant, de ridiculiser le flot d'encre en question.” Jacques Doniol-Valcroze, “Luchino Visconti”, Raccords, n. 7, primavera 1951, p. 5.
[55] “La chose s'explique par le fait que Visconti n'a fait que deux films qui sont pratiquement inconnues” Ibidem.
[56] “chef-d'œuvre à coup sûr” Pierre Bailly, “Yolanda et le voleur de bicyclettes”, Saint-Cinéma des Prés, n. 1, 1949
[57] “le genre du film où les fautes de goût sont impossibles, où les sentiments sont tous avouables, où l'œuvre peut coïncider exactement avec le récit réaliste d'événements vraisemblables” Ibidem.
[58] “Qu'un acteur aussi génial que Vittorio de Sica, individu de taille à enterrer une douzaine de Charlie Chaplin ait pu tourner un film aussi sinistre que le Voleur de Bécanes, c'est simplement la preuve que Dieu peut se tromper (chose connue de toute éternité). […] C'est entendu, le Voleur est un chef-d'œuvre du véro-paupérisme démagogique, on le sait, ça a un succès terrible en Amérique (et tout le monde connaît le surprenant développement artistique de nos voisins d'outre-océan; ils avaient déjà trouvé bouleversante la Femme du Boulanger, triomphe gionesque du pagnolisme académique). Ça fait recette, c'est fabriqué avec rien, c'est d'un social!!! Ma chère!!!” Boris Vian, “Vive le techenicolor ou en sous-titre: on en a marre du 'Voleur de bicyclette'”, Saint-Cinéma des Prés, n. 1, 1949.
[59] In realtà pubblica solo cinque numeri, in quanto uno esce doppio (numero 4-5 dell'agosto 1951, speciale sul cinema surrealista).
[60] “A part les articles de Doniol-Valcroze et André Bazin, les standards de la Revue sont encore bien loin” “Revues de cinéma – Les Cahiers du cinéma n.1”, L'âge du cinéma, n. 2, maggio 1951, p. 35.
[61] “est dans l'ensemble, meilleur que le premier” “Revues de cinéma – Les Cahiers du cinéma n.2”, L'âge du cinéma, n. 3, giugno-luglio 1951, p. 40.
[62] Maurice Schérer, “Chronique d'un amour”, L'âge du cinéma, n. 3, giugno-luglio 1951, pp. 34-35.
[63] “Cette agitation peut être lue de deux manières qui ne s'exclurent pas: l'expression d'un grand désarroi, dans une confusion que nous avons tendance à ordonner parce que nous savons la suite: les choses étaient sans aucun doute moins claires, les camps moins prédéfinis qu'il ne paraît.” Jean-Pierre Jeancolas, De 1944 à 1958, in Michel Ciment, Jacques Zimmer (a cura di), La critique de cinéma en France, Ramsay, Paris, 1997, p. 78.
[64] “Heureusement, il y a monsieur André Bazin. Cet humoriste bien connu avait déjà fait ses preuves en 1948, en couvrant de ridicule le soi-disant auteur de films Wyler. […] Nous vivons sans doute une époque sans humour et pour celà, les écrits “umoreux” ont parfois des effets contraires à leur but. Il en est ainsi des articles de Monsieur B.” “Revues de cinéma – Les Cahiers du cinéma n.3, 4 et 5”, L'âge du cinéma, n. 4-5, agosto 1951, p. 33.
[65] “Roberto Rossellini en apporte la preuve: voulant passer du document au message surréel, il nous donne les Onze Fioretti de Saint François d'Assise, offrande pachydermique du néo-réalisme, à la poésie saint-sulpicienne.” Traduzione: “Roberto Rossellini ne porta la prova: volendo passare dal documento al messaggio surreale, ci dona Francesco giullare di Dio, offerta pachidermica del neorealismo alla poesia saint–sulpicienne.” Robert Benayoun, “Propos sur l'onirsme cinématographique”, L'âge du cinéma, n. 2, maggio 1951, p. 6.
[66] “Cela a l'air simplement ridicule, malheureusement c'est fort sérieux et Rossellini, en filmant ces images qui résument la haute intelligence et la finesse d'esprit de la religion chrétienne, n'avait pas comme but la caricature. Après avoir lancé sur le marché la denrée néo-réaliste, il risque d'entraîner des jeunes dans le plus pur Saint-Sulpice. […] Metteur en scène de talent dans certaines séquences de Rome ville ouverte (grâce surtout à la Magnani) et dans quelques sketches de Païsa (grâce à des sujets d'une beauté fulgurante), Rossellini ne nous a donné que des œuvres anti-cinématographiques où la platitude la plus absolue règne formellement pour encadrer les cris hystériques d'une bigote et la glorification de la bêtise la plus inepte.” “Onze Fioretti de Saint François”, L'âge du cinéma, n. 2, maggio 1951, pp. 28-29.
[67] “En ce qui concerne le cinéma italien, nous l'admirons également, mais pour [auteurs] bien différentes des vôtres. Nos auteurs préférés seraient plutôt Giuseppe De Santis, Alessandro Blasetti, Luchino Visconti, Renato Castellani, Alberto Lattuada et Mario Soldati. Nous partageons votre sympathie à l'égard de Vittorio de Sica: en tant que créateur total, ses relations avec le néo-réalisme étaient purement accidentelles. Depuis le poème Miracle à Milan, elles ont tout à fait cessé d'exister.” “La tribune des lecteurs”, L'âge du cinéma, n. 2, maggio 1951, p. 40.
[68] Il film uscito in Italia nel 1951, in Francia esce l'anno successivo con titolo modificato in Rome-Paris-Rome.
[69] “Il n'y a pas d'école du cinéma italien. Autant de metteurs en scène, autant d'écoles. De Santis se trouve aux antipodes de Lattuada, tous deux pourtant furent taxés de “néo-réalistes”, et sont italiens. […] Le cinéma italien cherche sa voie. Etant donné la diversité de ses serviteurs, j'espère qu'il ne se transformera jamais en école.” Luigi Zampa, “De Rome à Paris”, L'âge du cinéma, n. 3, giugno-luglio 1951, pp. 12-13.
[70] “Le seul soulagement véritable, parmi ces facilités équivoques, est la présence du grand comique italien, Toto, dont on ne clamera jamais assez l'originalité et le talent” senza autore, “Le Festval de Cannes”, L'âge du cinéma, n. 2, maggio 1951, p. 37.
[71] In Positif c'era stato un articolo sugli attori comici nel cinema italiano (Robert Benayoun, “L'Italie millionnaire”, Positif, n. 23, aprile 1957, pp. 24-26), dei quali Totò faceva parte ma non era solo, non era un pezzo interamente ed esclusivamente dedicato a lui.
[72] “fait crouler de fou-rire l'Italie toute entière” Ladislas Robin, “Gros Plan Totò”, L'âge du cinéma, n. 3, giugno-luglio 1951, p. 39.
[73] “Son apparition dans un film médiocre comme Napoli Millionaria enlève l'action, et fait tout oublier. Le public français ne le connaît guère que par Arènes en Folie et Toto cherche un appartement. Pourquoi les distributeurs, au lieu de nous tremper d'une pluie néo-réaliste, ne chassent-ils pas toute cette grisaille, à renforts d'aussi géniales pitreries?” Ibidem.
[74] Tra gli altri: Giulio Cesare Castello, Nino Frank, Roland Barthes. Questi ultimi due semplicemente con dei testi scritti su altre riviste e qui riportati. Per Nino Frank un testo scritto per il numero 9 dei Cahiers, per Barthes un articolo scritto sul numero 20 di Théatre Populaire del 1956. E poi raccolta di critiche ai suoi film prese da varie riviste (es. La revue du cinéma, Positif, Cinema nuovo, ecc…).
[75] Prima nell'articolo pubblicato su Positif: Raymond Borde e André Bouissy, “Bilan du néo-réalisme”, Positif, n. 23, aprile 1957; poi nel volume: Raymond Borde e André Bouissy, Le néo-réalisme italien – une expérience de cinéma social, Clairefontaine, Lausanne, 1960.