Dopo aver visto la versione integrale del primo volume dell'ultima discussa opera di Lars von Trier, si può affermare con certezza che, è vero, Nymphomaniac non è un film porno. Purtroppo.
Nel suo saggio su L'immaginazione pornografica, Susan Sontag osservava che in Histoire d'O «il sommo bene è la trascendenza della personalità». Nel classico erotico di Dominique Aury, come in tutta la pornografia (intesa come esperienza “protetta” in cui esercitare la portata estrema della propria fantasia) si cela il desiderio primordiale della perdita dell'individuazione. Esiste quindi una portata esperienziale fondamentale nella pornografia, che manca del tutto nel film di von Trier. Non solo quindi perché le scene hard si sono rivelate non poi così esplicite (le – poche – penetrazioni sono state “incollate” in digitale sugli attori principali) e nemmeno perché le esperienze che il regista vorrebbe "estreme" si traducono banalmente, almeno in questo primo capitolo, in una sessualità seriale ravvivata da un complesso di Elettra irrisolto: il film di Lars von Trier non è un porno perché la vicenda che racconta non è pornografica nel senso descritto da Sontag: non ha a che fare con nessuna esperienza estatica.
Joe (interpretata da Charlotte Gainsbourg ma in tutti i flashback dall'esordiente Stacy Martin), l'autoproclamatasi ninfomane che racconta la propria vita a un vecchio che l'ha trovata priva di sensi per strada, non ha vissuto attraverso il sesso un'esperienza di perdita di sé. Tutt'altro. Negli altri non cerca che se stessa. In tutto il film non fa che ritrovare il proprio desiderio egoistico. Fatta eccezione per la fase in cui innamora (in cui, non a caso, parla della volontà di diventare una "cosa" per essere toccata dalle mani dell'amato), Joe non riesce a fare a meno di usare gli uomini che incontra come oggetti da manipolare al fine di sfruttarli per il proprio piacere sessuale. Il piacere di un'individualità ostinatamente chiusa all'altro, egoriferita, disperatamente ma irrimediabilmente autocostrettasi alla solitudine.
Una solitudine autoreferenziale che sembra rispecchiare quella di Lars von Trier, che anche questa volta non riesce a fare altro che imbastire un film cerebrale e autocelebrativo, in cui il confine tra autorialità e culto della propria personalità si fa sempre più labile. Ancora una volta, protagoniste dei monumentali film del regista danese, sono le sue paure. La strategia per affrontarle, al solito, la demonizzazione di ciò che spaventa, in un solipsismo di cui si potrebbe provare compassione se non fosse così sgradevolmente narcisista e compiaciuto.
“Forget about love”, tuona la tag-line, culmine di una scaltra campagna pubblicitaria che, come noto, vede gli attori protagonisti simulare la pétit mort. Sottintesa una dicotomia puritana: il contrario dell'amore è il sesso. E infatti è ciò che avviene nella vicenda di Joe. La perdita di sé, che finalmente ha luogo nel ricongiungimento finale e patetico con il suo “Vero Amore” (guarda caso il primo, guarda caso un Vero Maschio, guarda caso in seguito a una serie di circostanze fiabesche, stucchevoli e, per ammissione esplicita, inverosimili), ha un prezzo da pagare altissimo: l'ammutolirsi del corpo, la perdita della possibilità di provare piacere sessuale.
C'erano spunti per sperare che il film non fosse misogino come certi precedenti: il senso di colpa quasi naif (che si vede anche nei momenti più blasfemi, come quando Joe e le amiche recitano in coro “Mea vulva mea vulva mea maxima vulva”) e il pessimismo cosmico di Joe sembravano lasciar credere che von Trier si identificasse con lei. In diverse interviste il regista ha dichiarato di voler offrire un'opera sul sesso. Non ha parlato di sessualità femminile, cosa che lasciava sperare che il personaggio di Joe fosse una persona, prima che una donna. Non a caso, come il nome maschile tradisce, Joe sembra molto ostile a certi stereotipi della femminilità frigida e/o sentimentale, come quelli rappresentati dalla gelida madre, dall'amica B, che si innamora e tradisce così il patto trasgressivo stipulato tra le ragazze, e dalla signora H (Uma Thurman), l'isterica moglie di un suo amante. Come dimostrano questi personaggi, il film punta ad approfondire solo la psicologia di Joe, in quella che vuole sembrare a tutti gli effetti una seduta dall'analista. Tutti gli altri restano sullo sfondo, bidimensionali e funzionali solo a rappresentare un aspetto ben preciso della visione del mondo della protagonista.
Eppure, e qui sta il fallimento reale del film, non sembra di osservare la vicenda attraverso gli occhi di Joe: la macchina da presa pare guardarla da fuori, con paternalismo, giudicandola (se con sdegno o magnanima comprensione è in fondo indifferente) come fa il suo interlocutore, il vecchio Seligman. E, quel che è peggio, osservandola con sguardo lubrico e voyeuristico. Non è vero quanto è stato detto, e cioè che il film non punta ad eccitare quanto a far riflettere. Quello che la pellicola vuole fare è provocare un pubblico esigente e intellettuale, travestendo con astuzia da pamphlet filosofico un film a tratti divertente e di sicuro impatto (penso alla scena d'apertura sulle note dei Rammstein) ma francamente superfluo.
Col risultato che le azioni di Joe appaiono tanto incomprensibili quanto godibili, come dimostra la scena à la Tinto Brass in cui Joe e un'amica si sfidano a chi riuscirà ad avere più partner sessuali in un viaggio in treno. Von Trier si ostina a fissare Joe con curiosità morbosa, la mostra mentre le vengono somministrate nozioni banali (Edgar Allan Poe, Epicuro, Bach, la serie di Fibonacci…) – sempre, ovviamente, da parte di uomini -, la traveste da scolaretta perversa, la squadra come farebbe uno stalker o come forse anche lei medesima, avendo all'apparenza introiettato il bisogno di trovare sempre e inevitabilmente se stessa nel rapporto con gli uomini. Come in uno specchio che, però, restituisce di lei ciò che quegli stessi uomini vogliono vedere.
L'insistere di von Trier sulla natura è sintomatico dell'incapacità del regista di uscire da una visione dicotomica ed essenzialista dell'universo: il mondo si divide in maschile e femminile, e come sostiene Nietzsche, se la felicità dell'uomo sta nel desiderare, quella della donna nell'essere desiderata. Così, quello che von Trier sembra voler dire, è contraddetto da ciò che mostra: una ninfetta emaciata, provocante, sufficientemente inebetita e fragile da non destare alcuna preoccupazione nell'uomo. La sessualità femminile che il film mette in scena non è minacciosa, e non è nemmeno autentica. È compiacente. Joe resta nella rappresentazione un personaggio femminile offerto allo sguardo maschile. Anche lo stereotipo medievale della minaccia femminile è piegato alla gratifica del maschio: certo, Joe rappresenta il paradigma della sessualità vorace, irrazionale, insaziabile, ma il “buon” Seligman ha il compito di riportare il suo affascinante abisso nel porto sicuro della comprensione razionale – in modo da poter approfittare della sua disponibilità erotica. Non a caso, quando vediamo Joe mentire sulle prestazioni dei suoi partner (“This was my first orgasm”), è lo spettatore a ridere con lei. Le “vittime” dell'inganno ne escono più accresciute nel proprio ego che mai.
Se è vero che il cinema ha la capacità di offrire nuovi occhi per vedere, di consentire allo spettatore di penetrare (sebbene per il tempo limitato del film) nello sguardo di un altro, c'è da chiedersi di chi sia la visione del mondo alla quale assistiamo guardando Nymphomaniac. L'occasione di entrare negli occhi e nella mente di una sex-addict, almeno in questo primo capitolo, sembra irrimediabilmente persa, e il giudizio è quello inappellabile di sexploitation. Lo sfruttamento (certo, a tratti divertente) di una cause célèbre che, si sa, fa sempre cassetta. Anche se il calcolo, più che economico, sembra soprattutto legato all'ostinata costruzione della propria immagine di iconoclasta e provocatore. A non cambiare è il calcolo. Ma del resto, come nella storia di Joe, per von Trier l'amore (per lo spettatore, per i personaggi) si scontra con il proprio desiderio compulsivo: necessario sacrificare uno dei due. Sia chiaro, non si intende qui valutare il valore dell'opera in base al suo più o meno manifesto “messaggio”, o alla sua politically uncorrecteness. Ma l'insensibilità di von Trier si manifesta anche nella stessa messa in scena, come dimostra la gratuitamente estetizzante sequenza della morte del padre (Christian Slater), segno di una mancanza di tatto che diventa inevitabilmente mancanza di gusto.
E così, in conclusione, torniamo a Sontag, che nello stesso saggio contestava la «discutibile convinzione che l'appetito sessuale sia, a meno che non venga ostacolato, una funzione naturale, una fonte di piacere». Se c'è una cosa che von Trier, già da Dogville, ha sempre dimostrato di comprendere, è che il sesso non ha nulla di naturale se non nel senso della natura matrigna di cui parlava Leopardi. Il sesso è deflagrante, traumatico, costringe l'individuo a confrontarsi con la potenza involontaria del proprio desiderio e implica relazioni violente tra gli esseri umani. Perché il sesso ha a che fare con il potere. E, forse anche grazie (?) ai film di von Trier, continuerà a farlo ancora per un bel po'.
Nymphomaniac (Volume 1), regia di Lars von Trier, Danimarca/Germania/UK/Belgio 2013, 145'.