L’utopia della singolarità tecnologica trae origine non solo dallo sviluppo di un’intelligenza artificiale, ma anche da quell’ipotesi di un amore “post-umano” su cui Spike Jonze aveva cominciato a riflettere nel mediometraggio I’m Here, diffuso on-line nel 2010, sorta di embrione che già conteneva in nuce alcuni tratti caratteristici della sceneggiatura di Her. Se nel primo caso il sentimento fioriva tra due robot, ritratti come i paria sociali di un mondo che affidava i suoi ultimi scampoli d’amore alle creature meccaniche, stavolta il legame affettivo nasce invece tra un uomo, Theodore, e una macchina, Samantha, sistema operativo senziente – ma incorporeo – che modella i suoi stati d’animo sulla voce di Scarlett Johansson. L’eccezionalità di questo miracolo tecnologico si esprime nel superamento dell’impostazione binaria (la dicotomia vero-falso) in favore di una vasta gamma di sfumature, aprendosi così a un ventaglio emozionale poliedrico e imprevedibile, poiché concepito per apprendere e maturare attraverso l’esperienza: proprio come un essere umano.
Ispirandosi all’approccio utilizzato da Charlie Kaufman per Synecdoche, New York, Jonze ha elaborato il copione senza mai porsi alcun limite, riversando nella scrittura tutto ciò che gli passava per la testa durante lo slancio creativo, in modo da sintetizzare nello stesso film una mole tumultuosa di idee e sentimenti eterogenei. Ciò che ne deriva è una narrazione romantico-futuristica che sfugge all’abusata retorica tecnofobica di molte distopie, e che si presenta piuttosto come una sfaccettata allegoria del presente: Theodore si muove alla disperata ricerca di un contatto umano, ma deve convivere con l’apatia emotiva provocatagli dal suo imminente divorzio, mentre il senso di smarrimento che lo accomuna agli altri individui – compresa l’amica del cuore Amy, quasi un suo “doppio” femminile – non è dovuto all’invasività della tecnologia nel suo quotidiano, bensì all’intima relazione che intrattiene con essa, in quanto catalizzatrice di speranze, illusioni e frustrazioni. Effettivamente, il dramma non nasce dall’assurdità intrinseca di questa storia d’amore, ma dalla dolorosa consapevolezza della sua natura non-esclusiva: il legame fra Theodore e Samantha, o fra qualunque utente umano e il proprio sistema operativo, non può vantare quei canoni di unicità che ogni amante pretende dal proprio rapporto amoroso, poiché l’intelligenza artificiale, come un virus telematico o un meme di internet, riproduce se stessa indefinite volte, ed entra in contatto con un numero sempre crescente di utilizzatori. Samantha, in tal senso, imbocca un percorso formativo che le permette di acquisire una progressiva coscienza di sé, e che la conduce ad abbracciare in pieno la sua essenza “più che umana”: sgravata dai limiti di quel corpo fisico che inizialmente suscitava la sua invidia, l’I.A. rinuncia al desiderio di interagire con il mondo e smette di perseguire la chimera degli impulsi sensuali, preferendo i vantaggi dell’ubiquità e della conoscenza universale. I sistemi operativi senzienti raggiungono così uno stadio superiore dell’esistenza, separato e indipendente dall’esperienza umana.
Questo alone fantascientifico si colora ovviamente di striature melodrammatiche, trasfigurandosi in una riflessione intima e dolente che risveglia le memorie di Eternal Sunshine o Black Mirror, in particolare l’episodio Be Right Back. Al di là del contesto futuristico e dell’identità artificiale di Samantha, Her implica dinamiche sentimentali perfettamente riconoscibili da chiunque, persino verosimili: quella vissuta da Theodore è la parabola di un amore sbocciato, consumato e poi finito, tappa indispensabile nel processo di elaborazione della perdita (il divorzio dalla moglie tanto amata) che getta ombre multiformi sul volto dello strepitoso Joaquin Phoenix, spesso unica presenza fisica sulla scena, impegnato a somatizzare conflitti ed emozioni senza mai un referente umano verso cui indirizzarli. La sua personalità meditabonda e sensibile, peraltro, trova una corrispondenza ideale nell’ambiente che lo circonda, caratterizzato da una palette cromatica che oscilla tra il biancore soffuso della luce solare e i toni pastello di abbigliamento e scenografie, frutto di un raffinato design concettuale che coinvolge ogni singolo aspetto della rappresentazione visiva: i dispositivi tecnologici, l’arredamento, gli abiti indossati dai personaggi, tutto concorre alla definizione di un mondo che possiede le proprie regole e le proprie “mode”. La dolcezza malinconica delle atmosfere, divise tra scorci sci-fi e nostalgie romantiche, fonde individui e paesaggio in un tessuto omogeneo e accogliente, armonizzato da Jonze per mezzo di una regia delicata, intimista, che gioca sull’alternanza fra i dettagli e le visioni d’insieme. Questo dialogo costante tra il privato e l'universale, non nuovo nella cinematografia di un regista che ama riflettere sull'identità del singolo in rapporto al contesto ambientale, valorizza il potere empatico di una storia che, anche nei suoi risvolti più sottilmente grotteschi, si fa specchio lucido e fedele della realtà contemporanea: l'individuo cammina sul margine precario delle pulsioni solipsistiche e dell'alienzaione sociale, ma la ricerca ossessiva di calore umano, sembra dirci Spike Jonze, lo aiuta a mantenersi in equilibrio.
Lei (Her), regia di Spike Jonze, USA 2013, 120'.