Testa di donna, corpo di leone, ali d'aquila, coda di serpente – il mostro che alle porte di Tebe si esprime per enigmi e divora coloro che non sanno rispondervi rappresenta uno dei più affascinanti ed ambigui esseri della mitologia classica. La fine è nota: sconfitta dall'acume di un Edipo fresco di parricidio, la sfinge si uccide e libera la città dalla sua terrifica presenza.
Purtroppo, nonostante la sua vicenda sia legata a quella del futuro re di Tebe, essa non trova posto nella rielaborazione freudiana, che, invece, all'uomo assegna il ruolo di primo attore. D'altra parte, il margine è il destino della sfinge: tra la città e la campagna, tra l'animale e la donna, tra il simbolico e l'immaginario, tra la sentenza di morte e l'indovinello.
A partire da questo assunto, Laura Mulvey e Peter Wollen propongono una rilettura allegorica della sfinge nell'era del post-strutturalismo e della militanza “estremista”. Come la donna nel sistema freudiano, la sfinge rappresenta al tempo stesso un enigma e una minaccia. Seduce come una sfida a quell'ordine simbolico che si esprime nella forma della legge, del patriarcato, del capitalismo: essa diventa l'incarnazione di un'identità femminile che, nel suo questionare senza posa, nel suo incedere per interrogativi e metafore, viene assunta a modello per articolare un discorso critico, alternativo, radicale. Infine, proprio per via delle potenzialità che la figura offre per ripensare un linguaggio non affermativo, la sfinge viene assunta pure a simbolo di una via possibile del cinema “sperimentale”.
Facile a dirsi, siamo nella seconda metà degli anni Settanta.
Laura Mulvey ha da poco pubblicato un saggio, “Visual Pleasure and Narrative Cinema”, che da subito è diventato la pietra angolare della Feminist Film Theory e uno dei più discussi contributi della storia dei film studies. Peter Wollen, che giovanissimo ha conquistato il centro della scena accademica britannica con Signs and Meaning in the Cinema, rimugina una teoria del “counter-cinema” che riesca a conciliare preoccupazioni formaliste, uno strutturalismo compulsivo, Brecht, il radicalismo politico e l'eredità delle avanguardie storiche. I due, come non è inusuale in quel periodo, ricorrono al cinema, ovvero alla forma del film-saggio, per continuare a fare teoria ma con modalità altre, distanti dalle istituzioni e dalle forme tradizionali: tra il 1974 e il 1983, la coppia firma sei film estremamente diseguali ed eccentrici (Penthesilea: Queen of the Amazons, Riddles of the Sphinx, Amy!, Crystal Gazing, The Bad Sister e Frida and Tina) che, come già i titoli lasciano intendere, costituiscono un capitolo del cinema femminista – ma che pure, ingiustamente, hanno trovato poco o nessuno spazio al di fuori di quel recinto. Con la lussuosa edizione di Riddles of the Sphinx (e Penthesilea, nascosto tra gli extra), a trentacinque anni dalla realizzazione e con un'agenda politica e teorica drasticamente mutata, il British Film Institute offre l'occasione di fare i conti con il film più celebre della coppia: un'opera che finora aveva scontato il destino della reliquia, del pezzo di modernariato d'autore, e che oggi invece con la sua urgentissima inattualità forse interroga in una maniera persino più pungente.
Il film, prima di tutto, si presenta come un luccicante congegno meccanico diviso simmetricamente in sette sezioni nella forma A-B-C-D-C'-B'-A'. Già dalla struttura emergono delle tensioni volutamente riconciliabili tra una tensione verso un simbolismo scolorito (il fotomontaggio di Greta Garbo come “La Sphinx Moderne” della sezione A e il gioco del labirinto della sezione A'), una forma saggistico-accademica (le sezioni B e B' in cui Laura Mulvey rispettivamente legge e riascolta al registratore un suo testo sulla sfinge) e una aspirazione alla ricerca formale (le sezioni C e C' in cui la sfinge di Giza e tre acrobate vengono rielaborate con un caleidoscopio di effetti otici estremamente suggestivi, tra la materialità astratta di Tom, Tom, the Piper's Son nel primo caso e la sperimentazione cromatica più lisergica nel secondo). A questi due poli, la sezione D, il sostanzioso blocco centrale a sua volta suddiviso in tredici capitoli, aggiunge qualcosa come un filo narrativo – molto flebile, ma non abbastanza da essere perdonato dai puristi del cinema strutturalista –, la vita quotidiana di una donna (Louise), madre di una bambina di due anni (Anna), nell'arco di una giornata. Ancora tra simbolismo, accademismo e formalismo, ogni capitolo è introdotto da un testo di Wollen frazionato in tredici didascalie, è generalmente farcito di più o meno criptiche metafore, ed è composto, eccetto un paio di occasioni, da un'unica panoramica a 360° che perlustra interamente uno spazio, generalmente chiuso, in cui si svolge il quotidiano di Louise (la cucina, la camera della bambina, l'asilo, il centralino in cui lavora, eccetera). È curioso che, racconta Mulvey, tutto il congegno sia stato ideato dai due prima che fosse stata definita la natura stessa della storia da raccontare – così dichiarando, forse per accidente, la totale subordinazione della rappresentazione al dispositivo. Di più, l'inflessibile prevedibilità del meccanismo – giro completo, nuovo capitolo – obbliga non soltanto ad una disposizione precisissima del profilmico, la cui cura ossessiva è attestata da un evidente gioco di forme e dominanti cromatiche, ma anche ad una azione scenica ridotta a coreografia, non meno meccanizzata, di corpi che compiono gesti coordinati ed essenziali.
Il tema della maternità, che pure potrebbe apparire scontato, ha catalizzato scarse attenzioni da parte del secondo femminismo, quando non l'esplicita avversione di alcune frange più intransigenti. Esattamente negli stessi anni di Riddles of the Sphinx, invece, la questione assume enorme rilevanza per un gruppo di teoriche vicine alla psicoanalisi (Nancy Chodorow, Julia Kristeva, Adrienne Rich), il quale cerca di redimere la figura della madre dalla posizione a lei tradizionalmente assegnata, non per ultima dalla psicoanalisi. Nella stessa linea, Mulvey e Wollen esplorano l'idea negativa della maternità attraverso l'edificazione di un sistema di oppressione che, prima ancora di essere sociale o politico, è spaziale: una gabbia domestica, un ruolo invisibile, un obbligo naturale. Louise, coerentemente, non è un personaggio, ma una performer che esegue il proprio numero coreutico con la precisione che i limiti del dispositivo – domestico e meccanico – impongono. Quando il gioco riesce al meglio, il didascalismo la fa da padrone. Il primo capitolo, per esempio, è ambientato in cucina, la macchina da presa all'incirca ad un metro di altezza (quindi il volto di Louise è fuori campo, quello di Anna no): la donna prepara la colazione, traffica tra fornelli e stoviglie (“Things to cook. Keeping in the background. Fish-slice. Domestic labour”), la bambina mangia, la donna continua a brigare (“No time for tea. Time to worry. No time to hold. Things to hold”), prepara un secondo piatto, lo poggia sul tavolo, arriva un uomo con il giornale sotto braccio, svuota il piatto, fine. Pur essendo convintamente essenzialista, Riddles of the Sphinx non punta ad un simile manicheismo da accatto, anzi. Come lo stile, anche gli obiettivi del discorso oscillano tra pamphlettismo, rivendicazioni estremamente puntuali (sugli asili-nido e sulla rappresentanza sindacale, per esempio) e interrogativi più brucianti per la politica del tempo (ci chiede la voce off, ad un certo punto, “Le donne dovrebbero organizzarsi separatamente?”, “La famiglia è un ostacolo alla liberazione?”, “Può esistere una rivoluzione in cui le donne non siano protagoniste?”).
Rispetto agli standard della produzione femminista coeva Riddles of the Sphinx rappresenta una felice eccezione sotto diversi versanti. Se il ricorso ad una forma documentaria piuttosto impettita, per qualche verso affine al saggio, non è affatto inusuale, né tanto meno lo è l'intreccio tutt'altro che fluido di teoria psicoanalitica e rivendicazioni politiche (“A cosa assomiglia la politica dell'inconscio?”), la loro connessione nel congegno formalista rappresenta per certi versi un unicum. In questo senso, il film si lascia apprezzare come un tentativo di coniugare alcune linee difficilmente accostabili: la ricerca strutturalista, l'agit-prop dei collettivi femministi, la lezione di Godard (in particolare quello de La gai science, del gruppo Dziga Vertov e di Letter to Jane), la linea di sperimentazione documentaria promossa dal British Film Institute e da lì a pochi anni da Channel 4, perfino il miraggio del melodramma sirkiano e scampoli di New American Cinema.
Tutt'altro che ultimo, il lavoro di Mike Ratledge, da poco fuoriuscito dai Soft Machine, contribuisce a rendere le atmosfere del film ulteriormente originali attraverso la creazione di una partitura elettronica di una intensità inaudita, avvolta attorno a moduli ipnotici e suadenti che doppiano acusticamente, soprattutto nel blocco centrale, l'eleganza languida dei movimenti di camera. Probabilmente, assieme alle due sezioni di ricerca formale, la musica è l'unico piacere che Riddles of the Sphinx concede: incupito da un'estetica negativa e determinato al rifiuto aprioristico di ogni compromesso con lo spettatore, il dispositivo di Mulvey e Wollen, infatti, soffre di un cerebralismo estenuante in cui riflessività e simbolismi rendono opaco gran parte del tessuto del film.
Un esempio. L'ultima sequenza è incentrata su un giocattolo per bambini, un labirinto all'interno del quale una goccia di mercurio deve raggiungere il centro. Con una certa perizia, Mulvey, che manovra il giocattolo, riesce nell'obiettivo. Una seconda goccia di mercurio entra in gioco – e anche stavolta si riesce a conquistare il centro. Le due gocce si amalgamano. Un commentatore dell'epoca, entusiasta ma leggermente indeciso, scrive sul “Millennium Film Journal” che le due gocce sono il maschile e il femminile, oppure, tuttalpiù, Marx e Freud. Mulvey scuote violentemente il giocattolo: il mercurio si disintegra e il film finisce. Lo stesso commentatore rammenta la necessità della lotta perpetua e il rifiuto di ogni soluzione.
Intrappolato tra gli ingranaggi del suo stesso congegno, Riddles of the Sphinx resta una delle macchine più severe che il cinema abbia mai creato.
THE RIDDLE OF THE SPHINX, regia di Laura Mulvey e Peter Wollen, UK 1977, 92' (BFI)