Presentato in anteprima mondiale al Festival di Roma, Trudno byt' bogom di Aleksei German è stato senza alcun dubbio tra gli highlights anche dell'ultima edizione del festival di Rotterdam – ed è facile prevedere che lo stupore e l'entusiasmo che ha suscitato saranno una costante della carriera del film nel circuito internazionale. Chi conosceva gli unici due altri suoi lungometraggi girati da tre decenni a questa parte, gli straordinari Moj drug Ivan Lapšin (1984) e Chrustaljov, mašina! (1998), da anni attendeva quello che tutto preannunciava come l'opus ghermaniano definitivo. Il cineasta pietroburghese avrebbe voluto trasporre sullo schermo l'omonimo romanzo di fantascienza dei fratelli Strugackij (già autori del libro all'origine di Stalker) subito dopo la sua uscita nel 1964, come suo debutto registico. Per poter cominciare a girarlo, dovette invece aspettare il 2000. Ci mise sei anni; dopodiché, un interminabile lavoro di post-produzione, durante il quale German morí, lasciando a moglie e figlio alcune rifiniture da ultimare. Sono tante, ad ogni modo, le voci circolate a proposito di questa colossale lavorazione: tra esse, il fatto che German, a quanto pare, non voleva separarsi vivente dalla sua opera.
È dunque immediatamente chiaro anche da questi pochi cenni contestuali che il rapporto che Trudno byt' bogom intrattiene con il tempo è del tutto particolare. Sui titoli di coda, dopo quasi tre ore di proiezione, l'impressione ineludibile è quella di un film che potrebbe durare indifferentemente trenta minuti o trenta ore. E una temporalità del genere è del tutto coerente con l'idea di "progresso ingolfato" alla base del racconto.
Questa la voce over che subito ci accoglie, mentre l'occhio lento della macchina da presa indugia su un diroccato, malmesso villaggio immerso nella neve, ai piedi di un castello: "Questa non è la terra. È un altro pianeta. Identico, ma arretrato di circa 800 anni. Ce n'erano tanti cosí, questo era il più vicino, e il più piccolo. Inoltre i castelli di qui ricordavano il primo Rinascimento. Tre dozzine di scienziati furono inviati qui. Però qui non c'era un Rinascimento, ma solo una reazione a qualcosa che praticamente non c'era. Qua ad Arkanar, la capitale dell'Oltregolfo, tutto cominciò con la disfatta dell'Università, del modus pensandi. Seguì la caccia agli intellettuali, ai letterati, agli artigiani di talento". Uno degli scienziati, Rumata, viene creduto figlio di un Dio: tutti lo temono e vive come una specie di signorotto locale, con schiavi, ricchezze e quant'altro, ma i suoi sforzi per portare qualche progresso e salvare le residue risorse intellettuali disponibili falliscono, anche perché rimane suo malgrado invischiato in una confusa lotta di potere che coinvolge, fra l'altro, le improvvisate ma spietate armate rurali dei Grigi, e i Neri, ordine simil-monacale ancora più feroce. Alla fine, questa lotta si risolverà in una spaventosa carneficina, alla quale solo pochi innocenti sopravvivranno.
La Storia si riduce a nulla più che futile massacro, e il progresso si fa semplicemente impensabile e inattualizzabile. A Rumata non serve a nulla venire dal futuro: solo a macerarsi nella schiacciante consapevolezza che in fondo al progresso altro non c'è che il ritorno della e alla regressione. Annichilita da un letale loop tra passato e futuro, la Storia si trova impossibilitata ad avanzare e a lasciarsi alle spalle un orripilante e invivibile medioevo perpetuo. Essa ristagna – verbo suggerito dall'onnipresenza, ad Arkanar, del fango, continuamente impastato con muco, urina, feci, saliva e altre sostanze continuamente esibiteci innanzi e mescolantisi fra loro, con qualunque essere vivente e non.
L'occhio della macchina da presa, dentro a questo magma probabilmente non primordiale ma certamente assai repellente, arranca, va a tentoni. Difficile essere Dio, recita il titolo del film. E si sa, fu l'uomo rinascimentale a voler essere Dio; a quest'ultimo, l'occhio umano scippava la posizione di signorile distanza grazie alla quale i fenomeni potevano apparire a disposizione del soggetto guardante, che veniva cosí ad essere in posizione di dominio: fu la rivoluzione della prospettiva centrale. Fu allora, in un certo senso, che l'occhio umano "nacque": quando, cioè, si rese sufficientemente autonomo da presupporsi "organo della distanza" e funzionare come tale. Ebbene, la macchina da presa di Aleksei German si piazza in un punto di miracolosa coincidenza tra il "non ancora" di un occhio in procinto di formarsi e di conquistare la distanza che lo fa essere come organo, e il "non più" di un occhio che ormai quella fase se l'è già lasciata da tempo alle spalle, e che è anzi in aperta decomposizione. A differenza dell'altrettanto eccezionale Faust di Sokurov (pellicola con la quale quella di German registra numerose, impressionanti convergenze), Trudno byt' bogom non si fa prendere dal pathos della dissoluzione post-artistica, ma si piazza nell'"impossibile" punto che rispetto alla compiutezza dell'occhio pittoricamente calibrato rimane tanto al di qua come al di là. Non è l'arte a essere in questione, ma la fisica dell'occhio, al suo minimo livello di emersione.
Da un lato, l'occhio si trascina dubbioso, benché in perenne movimento, da centro d'attenzione a centro d'attenzione, e scopre lo spazio palmo a palmo, come farebbe una talpa emersa da poco in superficie. La distanza con l'oggetto guardato è spesso assai ravvicinata, e infatti l'olfatto e il tatto (sensi del contatto) parrebbero ricoprire, nella messa in scena del film, un ruolo esorbitante rispetto alla vista: tutti quei fluidi di cui tutti si impiastricciano a turno e l'uno con l'altro, tutte quelle mani in faccia e nel naso, tutto quel confuso toccarsi e cozzare dei corpi l'uno contro l'altro… Solo raramente German si concede il campo lungo, e in ognuno di quei casi serve a sottolineare la fondamentale impotenza di personaggi (Rumata, o magari il fortissimo e irrilevante Barone) persi in uno spazio che credono di poter dominare ma che invece permane estraneo, respingente, intrinsecamente resistente.
D'altro canto, veniamo ad ogni istante sovrastati da una sbalorditiva perizia coreografica, letteralmente da un super-occhio registico: German organizza i suoi pianisequenza mozzafiato come un virtuosistico intrecciarsi di traiettore allo sbando, che infilzano l'inquadratura da ogni parte, e in mezzo a cui la cinepresa sguazza opacamente, come inebetita dalla sovrabbondanza ottica e sensoriale, perfettamente orchestrata. Un controllatissimo caos dove si passa sistematicamente di palo in frasca scivolando sulle cose in superficie senza mai collocarle in alcun tipo di profondità; dettaglio e azione principale si scambiano vertiginosamente ruoli e dimensioni; innumerevoli azioni vengono abortite nel momento stesso in cui sbocciano (arriva uno, suona una nota con la tromba, e se ne va); tra i nostri occhi e l'azione vengono frapposti innumerevoli ostacoli visivi, oggetti inerti "lí per caso", cascami di cui è rigonfia l'impressionante, sovraccarica, sfarzosa, barocchissima scenografia, enfatizzata a dovere da uno stupendo bianco-e-nero la cui nitidezza viene sovente erosa da fumi e nebbie. Tra queste traiettorie che si disperdono entropicamente, c'è ovviamente anche quella della cinepresa stessa, alla quale spesso e volentieri qualcuno o qualcosa dal set restituisce lo sguardo, come a confermare che non ci si deve illudere, l'occhio non puó vantare alcuna distanza rispetto alle cose, ma è "lí" e vi sbatte continuamente contro. Non si tratta tuttavia di comuni "sguardi in macchina": o gli attori guardano l'occhio della macchina da presa come se esso, appunto, non fosse un occhio (quasi mai al centro di esso, quasi sempre ai margini, ai lati, e sempre in maniera molto fuggevole), oppure a piazzarsi davanti all'obbiettivo sono pesci, lame, galline morte, tazze e ogni sorta di oggetti inanimati, fatti transitare per un attimo innanzi a noi e poi subito ritratti (oppure, spesso, usati per raccordare due piani-sequenza tra loro). In un universo del genere, sarebbe inane pensare a un gioco di sguardi: non c'è che perenne, cacofonico scontrarsi tra varie corporeità, più o meno mostruose. E comunque, la frontalità caratteristica della coordinazione occhio-fallo viene surclassata dalla lateralità di una superficie che sembra priva di limiti, e su cui il film scorre e scivola continuamente: le rare donne cercano invano di venire penetrate ("ce ne ho una, tienila tu: la mia scivola e non riesco"), e l'imbattibile spadaccino Rumata ha vinto dozzine di duelli, ma non ha mai ucciso nessuno, perché si limita sempre e solo a amputare le orecchie.
Con il persistere, ora dopo ora, di questa temporalità stagnante, orizzontale, monocorde, impossibile da scuotere, in cui ci immerge Trudno byt' bogom, e soprattutto constatando che questa disperante situazione non genera affatto (nell'universo diegetico) disperazione, ma una strana e strisciante euforia, si fa largo un sospetto. Non sarebbe la prima volta, negli ultimi decenni, che il cinema dell'Est rimanda indietro, verso l'Occidente, le fantasie ideologiche attraverso le quali quest'ultimo ha cercato di pensarsi. Un esempio tra i tanti: Satantango di Béla Tarr, che prendeva una raffinatissima parabola blanchottiana sul progresso, sul carattere illusorio delle prospettive storiche e sulla loro fine, e la situava ironicamente in un disgraziatissimo e scalcinato caseggiato sperduto nella puszta ungherese. Nel romanzo degli Strugackij era facile ravvisare svariati riferimenti allegorici relativi al contesto sovietico (si pensi per esempio al personaggio di Arata, che dà la terra ai contadini ma non risolve niente). German marginalizza l'allegoria storico-politica, e ne universalizza peró la portata. E allora viene il dubbio. Non è che l'euforia che, per qualche ragione, vediamo continuamente strisciare nell'inferno sullo schermo, è la nostra "euforia postmoderna"? Siamo sicuri che Arkanar, prima ancora di essere un cupo villaggio medievale, non sia il nostro villaggio globale? Quello dove tutto è impastato ("connesso") con tutto, e dove dunque manca ogni possibilità di Altrove, se non appunto in guisa di sogno utopico (come nell'ultima scena)? Insomma, Trudno byt' bogom non è forse la visualizzazione, debitamente rispedita al mittente, del sogno/incubo con cui da decenni si balocca l'Occidente: quello della fine della Storia?