Non bisogna farsi trarre in inganno dal titolo dal sapore insolitamente “introspettivo” (quell'Inside Llewyn Davis, diventato in italiano un più anodino “A proposito di Davis”), né dalle malinconiche ballate che fanno da colonna sonora (filologicamente ricostruite da T–Bone Burnett), né tanto meno dalle luci morbide e dai colori slavati della fotografia di Bruno Delbonnel, in sostituzione dell'abituale Roger Deakins. A dispetto del tono empatico, il sedicesimo film dei fratelli Coen è infatti un altro spietato capitolo della loro ormai trentennale tragicommedia umana.

Gli spettatori rimangono tutto sommato all'oscuro di quel che cova nell'animo Llewyn Davis (Oscar Isaac), descritto essenzialmente “dal di fuori”, attraverso i pareri non sempre generosi di quelli che gli stanno attorno: “King Mida's idiot brother”, “a loser”, an asshole” – tanto per limitarci agli epiteti che gli rivolge Jean (Carey Mulligan), la ragazza, moglie del suo amico-collega Jim (Justin Timberlake), che inopinatamente gli annuncia di aspettare un figlio da lui. Tutto quello a cui assistiamo sono le corse di questo oscuro folksinger su e giù per il Greenwich Village nell'arco di sette giorni del freddo inverno 1961, tra locali di poche pretese, porte che non si aprono, lunghe rampe di scale, corridoi che non conducono da nessuna parte e divani scomodi. Una vita visibilmente senza sbocchi, disordinata, fitta di digressioni e false piste come il film che la racconta.

Llewyn Davis non rinuncia a proclamarsi un artista, né a ricevere il giusto compenso per il proprio lavoro, che non consiste nell'elemosina di un cappotto, o nel fare il saltimbanco a una qualche cena di professori universitari (“This is my job! This is the way I pay my fucking rent!”, sbotta); rifiuta di imborghesirsi come Jean e Jim, magari intraprendendo il mestiere paterno di marinaio, come gli suggerisce sua sorella. Ma la realtà sembra smentirlo ripetutamente: quando decide di rinunciare alle royalties di una canzonetta perché ha bisogno di contanti, questa diventa una hit di successo; quando decide di chiudere con la musica e riprendere il mare si arena nelle pastoie burocratiche; la commovente esecuzione di The Shoals of Herring davanti all'anziano genitore si risolve in una penosa quanto ridicola risposta “fisiologica” del vecchio.

Che non vi sia salvezza, del resto, lo suggeriscono le canzoni che costellano la vicenda: “Hang me, oh, hang me, and I'll be dead and gone […] Put the noose around my neck, hang me up so high”, canta Davis nell'esibizione che apre il film; il singolo d'esordio di Davis e dell'amico Mike, una versione armonizzata della tradizionale Fare Thee Well, si colora di tonalità cupe allorquando si scopre che Mike si è gettato dal Washington Bridge (“If I have wings, like Noah's Dove”); mentre la condizione di precarietà in cui versa il protagonista è affidata alla voce di Jean: “Not a shirt on my back, not a penny to my name. Lord, I can't go a-home this a-way" (da Five Hundred Miles).

Dietro le pretese di integrità artistica e i proclami, Davis è in effetti nient'altro che un Barton Fink con la chitarra a tracolla, uno dei tanti anonimi  di belle speranze che verranno spazzati via da altri, più bravi o semplicemente più inclini al compromesso (il 1961 è l'anno in cui Bob Dylan si esibisce per la prima volta al Village, segnando una svolta alla storia del folk). E come lo sceneggiatore interpretato da John Turturro nel film del 1991, anche Llewyn Davis compie la propria piccola discesa agli inferi nella mediocrità dello show business.

È un un viaggio sensibilmente diverso, probabilmente perché i Coen hanno una ventina d'anni in più sulle spalle, e sanno di poter scatenare il caos senza alzare troppo la voce: al posto delle fiamme dell'Hotel Earle, il gelo del Midwest; al posto dei movimenti di macchina spettacolari e delle interpretazioni (troppo) sopra le righe, un passo narrativo lento e una regia classicheggiante, sebbene di quando in quando “increspata” da inquadrature bizzarre (le soggettive del gatto in metropolitana, ad esempio). Curioso inoltre che anche in questo caso ad accompagnare il protagonista verso il suo destino sia John Goodman, nel ruolo wellesiano del jazzista Roland Turner, sorta di monarca decaduto e claudicante. Ma anche per lui le cose sono cambiate: non solo è accompagnato da un taciturno poetastro beat, ma nemmeno grida a squarciagola né uccide (come il Charlie di Barton Fink), limitandosi a snocciolare giudizi offensivi e velate minacce, tra un sonnellino e una crisi d'astinenza.

Tuttavia, il risultato non cambia: giunto a Chicago stanco e infreddolito, al cospetto dell'impresario Bud Grossman (F. Murray Abraham), terminata l'esibizione Davis ottiene come sola risposta un laconico: “I don't see a lot of money here”.

E se Barton Fink si alienava nella contemplazione di un quadro appeso al muro fino a perdervisi dentro, i Coen riservano a Davis un destino non troppo diverso. Le frequenti ripetizioni che punteggiano il film (due le inquadrature sul corridoio cieco, due le visite alla sorella, due le cene a casa dei Gorfein, due le apparizioni dello sconosciuto con gli occhiali in metropolitana, due i risvegli sul divano, e così via), così come la figura del gatto, che rispunta in continuazione senza mai essere lo stesso – a metà strada fra l'alter ego del protagonista (“Llewyn is the cat”, è il lapsus rivelatore di una centralinista) e il simbolo di quell'esistenza che continua a sfuggirgli di mano – altro non sono che anticipazioni di quello che attende il povero Davis. La scena finale del film, in cui uno sconosciuto vestito di nero lo prende a calci e cazzotti, si salda infatti con quella iniziale: un twist coeniano in piena regola, che getta una luce inquietante sull'intera vicenda, intrappolando il disgraziato artista in una sorta di “eterno ritorno” che lo vedrà pesto e col culo a terra per chissà quante altre volte ancora. 

 

A proposito di Davis (Inside Llewyn Davis), regia di Joel e Ethan Coen, USA 2013, 105'