THE DOG / Allison Berg, Frank Kerauden
C'è un grasso veterano con la faccia da sorcio furbo iscritto alla Gay Activists Alliance, una madre a scoppio e un fratello un po’ ritardato, un’ex moglie obesa in fucsia e una trans, Ernie – per gli amici “Horny”, ma la differenza è poca. C’è New York, ma prima di tutto c’è il Greenwich Village, i cortili e i locali, le lesbiche e i froci, e poi c’è Brooklyn. Ci sono una banca e una rapina, pizza take away, asfalto rovente e tanti poliziotti, una manciata di ostaggi e sette anni di prigione, tanta pellicola e un po’ di televisione, forse una telefonata. Ci sono una sola storia d’amore, e tanti amanti. “There’s sex and there’s love.” John Wojtowicz è un eroe contemporaneo, un narratore inattendibile, un rapinatore sprovveduto, ma soprattutto è “the Dog”, Al Pacino – in Dog Day Afternoon. Sidney Lumet, però, usò meno della metà degli ingredienti che compongono questa storia di cani sciolti, non ne aveva bisogno. Allison Berg e Frank Karauden per rimetterli insieme ci hanno messo undici anni e forse, alla fine, ci portano proprio per questo al Luna Park di Coney Island, tempio e incubatrice di tutti i freaks di New York. Presentandosi come una sorta di flashthrough – non essendo né un backstage, né un sequel – The Dog unisce filmati d’archivio, vecchie foto e varie interviste che finiscono per creare un mosaico della scena gay degli ultimi quarant’anni. Il film torna spesso su alcuni punti, così come lo fa John, un narratore che racconta sempre la stessa storia, la sua. Non si pente di niente, non ha rimorsi, giustifica ogni cosa che ha fatto come necessaria ed eccezionale, e ormai scavato, bavoso e malato di cancro, mentre porta a spasso il fratello per le strade della sua infanzia, davanti alla sua banca trasformata in qualcos’altro – lavanderia, farmacia, drugstore: che importanza ha? – è felice di firmare autografi e di abbracciare i suoi fan. Quell’inutile gesto, che gli è costato tutto quello che aveva, maldestro ed eroico a un tempo, quel white elephant è stata la sua opera d’arte. The Dog è la mitologia di un mitomane, quello che emerge quando l’articolazione narrativa viene perfettamente amalgamata dal movimento filmico. (Lucia Brandoli)
GUEROS / Alonso Ruizpalacios
A più di cinquant'anni anni dall'uscita di À bout de Souffle, il cinema della Nouvelle Vague sembra fornire ancora lo stile registico più adatto a parlare di gioventù. Questo è almeno quanto dimostra Güeros, esordio alla macchina da presa del messicano Alonso Ruizpalacios, vincitore della Berlinale come migliore opera prima. Il film è il racconto del viaggio attraverso Città del Messico di due fratelli – l'universitario Fede e il turbolento preadolescente Tomás, spedito dalla madre esasperata a fare visita al fratello maggiore – alla ricerca del leggendario cantautore Epigmenio Cruz, secondo le cronache cittadine in fin di vita. Il pretesto dell'esile trama funge da raccordo per accennare sub-plots e tematiche che spaziano dalla storia individuale degli altri personaggi all'affetto fraterno, dal rapporto tra i generi a quello tra classi sociali, dal tema della contestazione studentesca a quello della rappresentazione della città – in cui la vocazione documentaria trasfigura spesso nell'elegia poetica, fino alla riflessione esplicita (e spassosa) sul mezzo cinematografico. A unire temi così diversi è la partecipazione con cui sono trattati. L'assenza di parole per descrivere i propri sentimenti, il gusto per l'avventura sconclusionata del crescere, la sensazione struggente di star condividendo momenti epici trovano voce in una messa in scena misurata ma emotivamente connotata, il cui bianco e nero riecheggia certi cult generazionali statunitensi (Clerks e il miglior Jarmusch), non a caso esplicitamente debitori del moderno cinema francese. Ruizpalacios parla del cinema come parla dei suoi personaggi: con un'ironica consapevolezza che non ne inficia l'affetto profondo. E il cinema che fa, sebbene non “inedito”, è comunque freschissimo e giovane come i suoi protagonisti. Forse perché la Nouvelle Vague è stata, in fondo, l'adolescenza del cinema. (Elisa Cuter)
IS THE MAN WHO IS TALL HAPPY? /Michel Gondry
C'è poco da dire: nonostante la sua integrazione nell'industria hollywoodiana (e nella cultura cinematografica così sapientemente attraversata in Be Kind Rewind), Michel Gondry non ha fatto sua la lingua di una nazione che ormai da dieci anni lo sta ospitando. Proprio questo dato di fatto rende particolarmente curioso il suo ultimo progetto, Is the Man Who Is Tall Happy?, documentario che potrebbe essere una sorta di ritratto del filosofo Noam Chomsky. Nulla di più distante dalla solita intervista filmata, dato che – per vari problemi tecnici e linguistici – Gondry sceglie di creare un dialogo non tanto verbale tra sé e il filosofo, quanto tra il pensiero (e dunque la parola) di Chomsky e la velocità della penna (o meglio del pennarello) del regista. L'intervista, filmata in due momenti diversi, occupa solo una minima parte dello schermo, il resto è una tavola bianca sul quale il tratto, a volte più tremolante a volte rapido e sinuoso, imbastisce universi che – a seconda dei momenti – servono a illustrare il racconto, renderlo più facilmente fruibile, complessificarlo in una pluralità di questioni aperte e rimaste irrisolte. Tenendo da parte il pensiero politico che ha reso popolare il pensatore statunitense, Gondry sa restituirci il fascino proprio dei suoi studi linguistici che ricollocano la funzione di normativa e creatività della lingua. Un ulteriore tassello sul tema dell'apprendimento (sfiorato nel documentario La spina nel cuore, sulla zia insegnante) e sulla prolifica riflessione sul tempo della creazione, che ha avuto il suo punto più alto in L'arte del sogno. (Daniela Persico)