Una panoramica a 360 gradi traccia un cerchio magico all’orizzonte, una linea di terra riflessa nelle acque di un lago emerge da un fondo crepuscolare e ne è riassorbita. Fin dal suo gesto inaugurale A Spell to Ward Off the Darkness sembra tendersi a intercettare forze primigenie e invisibili, senza per questo lanciarsi in verticali di misticismo o in facili escapismi esoterici: lo fa invece cercando di conservare uno sguardo orizzontale, le cui radici sono ben piantate in questo mondo, nella caotica oscurità del presente. Piuttosto che essere rappresentato da singole immagini, l’incantesimo del titolo sembra emergere dai movimenti e dalla struttura del film: linee tracciate a congiungere luoghi e situazioni, ipotesi di esistenza e utopie concrete, punti di convergenza tra individuo e collettivo, umano e natura, esperienza corporea e spirituale. È concentrandosi sulla costruzione materiale di queste zone di contatto che il film trova il modo di evocare qualcosa che vada al di là del puro materialismo.
Un triangolo è apposto come sigillo, marchiato nella pellicola fra i punti di giuntura dei suoi tre capitoli; e tre sono appunto i territori e le esperienze che il silenzioso protagonista attraversa: la partecipazione a una comune sull’isola di Vormsi, in Estonia, la solitudine nella natura selvaggia della Finlandia, un concerto Black Metal in un club norvegese. Occasioni di sperimentazione personale e sociale, di ricerca e smarrimento del sé (nelle voci della comune, nel silenzio della foresta, nel tumulto della musica), diverse fra loro, ma unite nel configurare situazioni in cui possa manifestarsi quello che, seguendo i discorsi più espliciti della prima parte, potremmo definire un principio utopico, che insiste sempre sul «qui e ora» eppure sfugge alla propria determinazione, ponendosi sempre oltre. Non si tratta di un percorso, delle tappe successive di un viaggio, magari iniziatico, e non a caso non vediamo mai il protagonista spostarsi da un punto all’altro, quanto giungere a delle soglie: la struttura lignea nel giardino della comune, la capanna in fiamme nel bosco, l’oscurità che lentamente lo inghiotte nel finale. Piuttosto è nella possibilità sincronica dei modi d’esistenza presentati che la triangolazione del film appare compiuta: ogni sezione è autonoma e al tempo stesso trova il proprio senso solo nell’immanenza che la lega alle altre due.
E se questo è vero per la struttura triadica del film, ancor di più lo è per il binomio da cui deriva: esso è infatti il frutto di un rapporto umano e professionale, ormai abbastanza duraturo, tra due autori diversi, con alcuni evidenti punti di contatto (perlomeno una radice etnografica e un orizzonte cosmopolita), ma soprattutto uniti da una spinta a riflettersi reciprocamente, l’uno nell’opera dell’altro, tensione complementare in cui il film sembra essere maturato naturalmente. La fascinazione condivisa per il Nord, per la bellezza sublime e minacciosa del suo paesaggio, è il territorio concreto e immaginario su cui il progetto si è sviluppato: terreno estremo di revivescenze pagane e di ridefinizione dell’umano su uno sfondo che ne mette alla prova i limiti e le possibilità. Qui le frange solitarie esplorate da Rivers e le derive estatiche di Russell hanno trovato una congiunzione. Sembrerebbe facile mettersi a sezionare il film per scoprire quali elementi riconducano maggiormente all’uno o all’altro per stile e tematiche: i piani fissi e i percorsi solitari nella foresta finlandese fanno certo pensare agli avamposti eremitici esplorati da Rivers in ritratti filmici come This is My Land (2006), Origins of the Species (2008) o Two Years at Sea (2011); così come il concerto finale, descritto con poche inquadrature lunghe e fluide, rimanda più allo sguardo «etnografico-psichedelico» con cui Russell ha osservato le convulsioni di adolescenti americani squassati dal suono dei Lightning Bolt in Black and White Trypps Number Three (2007) o le abluzioni fluviali di un villaggio nel Suriname in River Rites (2011). Ma è proprio nell’integrazione tra individuale e collettivo che i singoli approcci trovano un superamento e una dialettica, l’occasione di un confronto trasformativo per entrambi i Ben.
Forse non è un caso che questo binomio abbia trovato un terzo vertice nell’interprete principale, il musicista Robert AA Lowe. La sua musica non ha molto a che fare col Black Metal in cui lo vediamo cimentarsi alla fine, ma il modo in cui Lichens (il suo alias musicale) usa la propria voce, moltiplicandola attraverso loop e fondendola ai drone degli strumenti, facendone qualcosa di atmosferico e stratificato, che da lui sorge, ma si espande come un’architettura sonora in cui coinvolge l’ascoltatore, ecco, tutto questo ha forse qualcosa a che fare con ciò che accade nella performance musicale e più in generale nel film, che nella sua stessa trama tattile e avvolgente, riesce a creare una dimensione immersiva, nonostante la relativa brevità degli episodi. Nell’atmosfera tesa del concerto (e a questo proposito va reso merito agli autori di aver accostato un pericoloso cliché dell’odierna cultura popolare rendendone un’immagine inedita e autentica) sembra realizzarsi un benefico crollo del principio di individuazione, un terremoto della soggettività a cui il film accenna in altri momenti, ma che mai come qui diventa un fenomeno fisico da cui lo spettatore è direttamente investito. «Fenomenologia» è il termine (alternativo a «Black Metal») con cui i due registi si riferivano a questo capitolo durante la lavorazione: e proprio in questo affondo fenomenologico è il film stesso a diventare un luogo per configurare il paradosso dell’utopia, sempre altrove, nel tempo e nello spazio, ma sempre incarnata nel presente di una visione.