“You can kiss my narcissistic ass”. Nella manciata di caratteri vomitati in un tweet – e indirizzati al critico di The Hollywood Reporter David Rooney, colpevole di aver descritto Tom à la ferme come la messa in scena dell’ossessione di Xavier Dolan per se stesso – si potrebbe leggere l’ennesimo colpo di testa dell’enfant terrible del nuovo cinema canadese. Geniale, irriverente, autocentrato, dandy, modello di stile per migliaia di giovani hipster da una parte all’altra dell’oceano e, come da copione, poco incline ad accogliere sportivamente le critiche.

Eppure Dolan è tornato dopo Laurence Anyways con un’opera molto più matura e complessa delle precedenti, il che almeno motiva, se non giustifica completamente, l’ardore della sua autodifesa. Se già con il film del 2012 il regista intendeva segnalare un’evoluzione nel suo fare cinema rinunciando a comparire sullo schermo, con Tom à la ferme Dolan sembra essersi lasciato alle spalle le pretese del passato e al contempo voler rilanciare la posta in gioco più in alto, entrando a contatto con il cinema di genere e costruendo uno psicodramma rigoroso, nutrito con calcolo ma anche con leggerezza di influenze cinefile. Un superamento del gusto ultra-bobo che caratterizzava lo sguardo gettato sui personaggi sin dai tempi di J’ai tué ma mère (2009), dove la macchina da presa si faceva per lo più strumento incaricato di esaltare la bellezza degli oggetti scopici (fino agli eccessi di Les Amours Imaginaires, dov’era chiamato in causa anche il David di Michelangelo), per inseguire un ideale estetico che in qualche modo giustificasse l’autoreferenzialità. Un vero e proprio canone costruito per affermare il valore dell’alterità, dell’essere socialmente o sessualmente “alternativi” rispetto ai modelli dominanti della cultura pop, ma allo stesso tempo capaci di rielaborare tale bagaglio per renderlo assimilabile da parte dell’intellighenzia festivaliera.

In Tom à la ferme, invece, Dolan persegue qualcosa di opposto, ovvero una reinvenzione di se stesso – come regista, personaggio e attore – ironica e coraggiosa. E questa sorta di reinterpretazione non può che prendere forma a partire dalla sua stessa immagine, alleggerita dal peso della bellezza e al contrario deformata dal peso di una folta capigliatura ossigenata e da un pallore da creatura burtoniana. Attraverso il suo Tom – che incontriamo mentre guida verso la fattoria, sulle note di “The Windmills of Your Mind” (già usata in Il caso Thomas Crown e dunque richiamo a un impossibile quanto divertito confronto con Steve McQueen) – Dolan sembra voler mandare in frantumi l’immagine di Narciso cara ai suoi detrattori e compiere una sorta di atto iconoclasta. La stessa opera di abbrutimento estetico si completa a livello diegetico attraverso il personaggio di Francis e le sue clandestine aggressioni fisiche e psicologiche, perpetrate laddove Tom-Dolan è l’outsider ostracizzato.

Nonostante l’innescarsi di una risacca omoerotica tra vittima e carnefice e malgrado il tema dell’omofobia permeasse la pièce di Michel Marc Bouchard che ha ispirato il film, lo strappo di Dolan – anche rispetto al suo passato – sta nell’evitare di porre al centro la questione dell'identità sessuale. La fattoria nella quale precipita Tom è un girone infernale nel quale gli interrogativi irrisolti legati al gender risucchiano progressivamente i personaggi, ma a stare ancora più a cuore al regista sono la costruzione e il mantenimento di un’atmosfera narrativa del tutto peculiare.

In questo senso, il riferimento diretto sembra essere lo Psycho hitchcockiano, e non solo per la partitura musicale con cui il compositore Gabriel Yared intende omaggiare Bernard Herrmann, o per le improvvise strozzature del quadro in un soffocante CinemaScope, quanto per la costruzione di una suspense sottile e crudele che impedisce allo spettatore di chiamarsi fuori dal gioco sadomasochista di Tom. Dolan aggiorna la lezione hitchcockiana sulla perversione del guardare e per farlo sale, come Marion Crane, a bordo di un’automobile per raggiungere l’esterno della metropoli e della vita, esattamente il luogo in cui ci sono i campi ma “non c’è campo”, in cui i dispositivi che amplificano la nostra sensorialità – lo smartphone, gli occhiali (che verranno di lì a poco fatti in frantumi) – non funzionano più. Ancora, Tom raggiunge una famiglia che porta il nome di Longchamp, come il quadro cinematografico quando i soggetti umani sono distinguibili, ma non identificabili. E si installa in una fattoria circondata dalla nebbia, in cui gli abitanti non hanno volto, o perchè sapientemente ghigliottinati dalla macchina da presa, o perchè si palesano, mostruosi e privi di tratti somatici, da dietro le tende di una doccia.

Quello a cui assistiamo – e a cui siamo condotti – è allora una rieducazione dello sguardo: Tom deve imparare a (ri)vedere il proprio vissuto secondo nuove modalità e coordinate e, quindi, a guardare oltre la fotografia che ritrae il suo oggetto d’amore scomparso, per scoprire una verità e un presente se possibile meno rassicuranti del loro simulacro. Di conseguenza Francis, prima ancora che antagonista o dominatore, rappresenta una paradossale guida alla verità incontrovertibile del tatto e della materia, addestrando il corpo deficitario in esperienza di Tom ai graffi delle foglie di mais in inverno (in un inseguimento attraverso i campi che ha tutta l’aria di una reminescenza di North By Northwest), agli sputi e al sangue, al parto e alla mungitura delle vacche, all’eccitazione di una stretta alla gola, alla prossimità di un ballo di coppia. Una modalità di attingere al mondo diversa, dolorosa, socialmente poco rispettata (come dimostra l’isolamento non solo autoinflitto dei Longchamp), ma – come conclude lo stesso Tom – vera. Solo allora il mondo, ovvero la metropoli, può riemergere dal fuori campo e tornare a esistere, anche sullo schermo.

 

Tom à la ferme, regia di Xavier Dolan, Canada/Francia 2013, 105'.