In una carriera come quella di Terry Gilliam, nella quale trovano posto, accanto a grandi film, opere su commissione, progetti abortiti e fallimenti veri e propri, The Zero Theorem sembra occupare una posizione tutta sua. Impossibile elogiarlo come un Gilliam ritornato alle radici più autentiche della propria ispirazione, impossibile liquidarlo in blocco come rimasticazione dell'immaginario con cui il regista si è costruito la reputazione. Coerenza autoriale o fiacco manierismo? Semplice Run for cover, avrebbe detto Hitchock: quando sei in difficoltà, rifugiati in ciò che conosci meglio e attendi tempi migliori. Dopo aver tentato (e fallito) per l'ennesima volta di rimettere in pista The Man Who Killed Don Quixote e dopo essersi dedicato per due anni solamente ai cortometraggi, Gilliam accetta al volo lo script di Pat Rushin e in poco tempo (37 giorni) e con pochi soldi, sforna il “terzo capitolo” (parole sue) della trilogia distopica iniziata con Brazil e proseguita con 12 Monkeys.
La vicenda, ambientata da qualche parte nel XXI secolo, ha come protagonista l'angosciato Qhoen Leth (un nome che rimanda al più nichilista fra i libri dell'Antico Testamento), un informatico che lavora per conto della tentacolare Mancom. La sua vita scorre nel più totale isolamento, almeno fino a quando il fantomatico Management, amministratore delegato della multinazionale, gli commissiona la risoluzione di un algoritmo, lo “Zero Theorem”, che dovrebbe determinare la sensatezza o meno dell'universo.
“Quando ho girato Brazil nel 1984, volevo dipingere l’immagine del mondo in cui pensavo stessimo vivendo allora. The Zero Theorem è uno sguardo sul mondo in cui penso di vivere ora”: se prendiamo per buona la dichiarazione di Gilliam, possiamo concludere che nell'ultimo trentennio la sua “immagine del mondo” si è notevolmente incupita. Certo, non ci sono più le interminabili tubature multiuso e i quintali di carta bollata, sostituite da maxischermi al plasma e cavi in fibra ottica; e al posto del grigiore diffuso, solo coloratissimi schermi che trasmettono a getto continuo annunci pubblicitari. Ma si tratta di differenze esteriori: l'entropia e la relativa spinta all'annichilimento sono le medesime (“La vita è un parassita che inficia il meccanismo perfetto della morte”, dichiara solennemente un medico), e medesimo è il disagio di chi cerca in ogni modo di non farsi stritolare da un ingranaggio messo in moto da non si sa chi (nessuna divinità o Grande Fratello, solo burocrati o subalterni: come ammette Management/Matt Damon, “Io non sono Dio, né il diavolo”).
Un'assenza, tuttavia, è significativa: i sogni. Se il Sam Lowry/Jonathan Pryce di Brazil riusciva perlomeno ad evadere dall'incubo del quotidiano volteggiando oniricamente fra le nubi in cerca della Donna Ideale, il Qhoen Leth/Cristoph Waltz di The Zero Theorem può trovare riparo soltanto nelle videochat erotiche, che il sardonico Gilliam dipinge come unica oasi di tenerezza (di amore?) in un mondo sempre più interconnesso e sempre più alienante.
Naturalmente chi non ama l'universo idiosincratico del regista angloamericano troverà pane per i propri denti. Le invenzioni visive e scenografiche non mancano, è vero, ma non sempre tutto è di prima mano (e questo, trattandosi di Gilliam, mette un po' di tristezza); quanto alla sceneggiatura, non brilla certo né per finezza di tocco, né per freschezza di trovate: l'angoscia esistenziale del protagonista è più spesso dichiarata a gran voce che mostrata, e i rimandi alle opere precedenti, per quanto care agli aficionados, denunciano spesso una certa stanchezza nell'ispirazione.
Del resto, che altro aspettarsi da un run for cover? Possiamo solo rallegrarci (o commuoverci) della pervicacia con cui il teppista Gilliam trova il modo di fare da controcanto alle “magnifiche sorti e progressive” che l'industria cultural-digitale propina quotidianamente agli ignari utenti. E vogliamo sperare che l'ex Monty Python, saldato il conto con il proprio passato cinematografico, possa riservarci ancora qualche sorpresa.
The Zero Theorem, regia di Terry Gilliam, USA/Gran Bretagna 2013, 107'.