“Cinema per l’era post-sala”. Così Paul Schrader definiva The Canyons quando era ancora un progetto in incubazione che aspettava attori e finanziamenti. Quel denaro, ottenuto tramite il più post-industriale dei finanziamenti, ovvero il crowd funding, è arrivato direttamente da chi voleva che si concretizzasse quella collaborazione a lungo cercata fra il regista di American Gigolo (ma soprattutto sceneggiatore di Taxi Driver) e lo scrittore di American Psycho. Paul Schrader e Bret Easton Ellis. Due personalità tanto vicine nelle ossessioni (dannazione, perdizione e alienazione) quanto distanti nello sguardo (umanista e kierkegaardiano quello di Schrader; misantropo e nichilista quello di Ellis), ma accomunate da un minimalismo ricercato, attento al quotidiano attraverso una lente al contempo contemplativa e distaccata.
La sospensione fra i due approcci pervade tutto il prodotto finale: su The Canyons incombe un’atmosfera rarefatta, resa ancor più algida dall’utilizzo del digitale, a cominciare dalle sequenze iniziali. Sui titoli di testa passano una serie di esterni e interni di sale cinematografiche fatiscenti. Insegne rotte, schermi malconci e file di sedie decrepite e polverose. Sono immagini che ritornano più volte, fungendo da raccordo fra le giornate che scandiscono l’esile intreccio neo-noir aggiornato all’era WhatsApp che sta alla base del film. Nella prima di queste giornate incontriamo i quattro protagonisti della storia, seduti attorno al tavolo di un ristorante. L’ambiente è affollato, ma lo spazio sonoro è talmente ovattato da isolare completamente i dialoghi dei quattro dal rumore di fondo che gli si muove attorno. Schrader fa di tutto per enfatizzare questo isolamento, presentandoceli frontalmente, uno ad uno, e spesso non accordando il volto inquadrato con la voce di chi parla. Quasi un inizio speculare a quello di The Social Network, altro film sulla generazione dei nativi digitali. Tanto nell’incipit del film di Fincher il confronto fra Zuckerberg e la giovane compagna si muoveva su binari velocissimi e con un rumore di fondo tale da rendere quasi inintelligibili i dialoghi, tanto qua tutto appare invece distante, rallentato e meccanico. Basterebbero le posture a identificare la caratterizzazione della coppia Ryan e Gina come la “coppia pulita” e di Christian e Tara come la “coppia perduta” (normalmente composti i primi, ripiegati sui propri cellulari gli altri due), ma la conversazione sfiora in maniera tangenziale e annoiata l’argomento cinema, per poi concentrarsi sulle orge che Christian organizza via smartphone per tenere acceso il suo rapporto con Tara. I successivi novanta minuti descrivono con altrettanto distacco il degenerare di questo intreccio di relazioni in ossessione di controllo e pulsione omicida. Ma il melodramma, così come l’erotismo e la psicosi, per quanto presenti, restano vuoti quanto l’anima dei tipici protagonisti ellisiani, le cui vite sono scandite solo dal rumore dei soldi e della messaggistica istantenea.
Più complesso è il discorso (questo sì, tipicamente schraderiano) della cinefilia come umanesimo che emerge nelle immagini delle sale-relitto e in alcuni dialoghi estemporanei sul disinteresse e la freddezza contemporanea verso il cinema e i film. Qui il film si ricollega a tutta una lunga tradizione di film che raccontano il cinema a partire dall’area metropolitana di Los Angeles. Sunset Boulevard, Mulholland Drive, Southland Tales, Inland Empire: i luoghi d’origine della Mecca del cinema sono da sempre lo scenario ideale per raccontare la sua fine. Hollywood come luogo aureo dell’immaginario contro Hollywood come desolante luogo reale. Il profilo della città, fatto di alti e bassi, di grattacieli e colline contro gole e depressioni, è anche una mappa del cinema, della sua storia e di quel senso di morte che aleggia su questa eterna invenzione senza futuro.
The Canyons è dunque cinema per l’era post-sala non solo perché fa un uso smaccatamente anti-divistico dei suoi attori (sia la pornostar James Deen che la “mean girl” Lindsay Lohan sono, in modi diversi, più noti per la loro “infamia” che per la loro fama). Ma anche e soprattutto nel senso che alla sala e ai vecchi film guarda tanto con la sacralità disillusa di Schrader che con il cinismo avvilente di Ellis. Anche qui il progetto pare uguale e contrario a quello di un altro film recente (anch’esso girato in digitale) sul tramonto del cinema: Holy Motors. In Carax, l’attore era motore vitale e dinamico di un cinema prossimo alla rottamazione. In Schrader attori e produttori sono del tutto anti-vitali, inetti, passivi o disinteressati al futuro del loro lavoro. Qui la macchina dei sogni si è ormai sclerotizzata e contribuisce a realizzare una sorta di sospensione della credulità, qualcosa che sta all’opposto del principio base delle opere di fantasia. Un senso di estraniamento che scaturisce direttamente dalla combinatoria fra i due autori. L’umorismo nero di Ellis si dissolve dentro alla messa in scena morale di Schrader. L’umanesimo di Schrader si prosciuga di fronte ai personaggi vacui, maniacali e superficiali di Ellis. Questo eccesso di pulsione sacrale e mortifera non redime nessuno: gli attori, il cinema, la sala e in fondo anche il film stesso, talmente compiaciuto del suo spirito decadente da rischiare di farsi vacuo quanto i suoi protagonisti. Di finire col farsi cinema per l’era anti-cinema, più che per l’era post-sala: ultima tentazione di una melanconia autolesionista, che riprende ed esaspera la celebre frase di Norma Desmond-Gloria Swanson in Viale del Tramonto: “Noi (autori) esistiamo ancora, è il cinema che è scomparso”.
The Canyons, regia di Paul Schrader, USA 2013, 100'.