Viene finalmente alla luce, dopo aver “bucato” il circuito dei festival maggiori, l'opera finale di Paulo Rocha, morto alla fine del 2012, già da tempo ammalato e costretto su una sedia a rotelle.
Che la morte sia in primo piano, sembrerebbe suggerirlo già tutta la prima parte, che vede la peste imperversare nel nord del Portogallo all'inizio del secolo, e che indugia a lungo al capezzale del padre del protagonista (Luis Miguel Cintra, assistito da quell'altro assioma del suo cinema che è Isabel Ruth). Di lì a poco, arriveranno le bare, in una sequenza plasticamente mozzafiato, degna di Murnau.
Non è così. Non è un film di morte, benché essa paia attecchire sul corpo del testo filmico stesso. Se eu fosse ladrão… roubava si è imbattuto nell'incompiutezza per via dei problemi di salute del regista, ma soprattutto dell'esaurirsi del budget, a causa di cui le riprese previste non sono state ultimate. Ha però trovato una forma di compiutezza superiore: a riempire i “buchi” intervengono numerosi estratti provenienti dalla precedente filmografia del regista. Non solo: Rocha stesso, in un paio di occasioni, è mostrato mentre dirige il film. In una di esse, egli chiude l'esposizione ai collaboratori del punto narrativo della scena che sta girando dicendo “e così via, queste storie potrebbero continuare all'infinito…”.
E, di fatto, lo fanno. Ispirata ai ricordi del padre, la storia di Vitalino (il bambino visto all'inizio al capezzale di Cintra), costruita sul suo voler partire altrove per esorcizzare il mefitico immobilismo della terra natia, si smargina per prolungarsi in ognuno degli episodi della filmografia di Rocha, nella vita stessa di quest'ultimo – nonché, e non da ultimo, nella Storia.
Sì, perché se i suoi esordi (Os verdes anos, 1963, e Mudar de vida, 1966) impregnavano splendidamente la loro purezza melodrammatica con la flagranza di una città in incerta mutazione metropolitana (Lisbona) e di pratiche e civiltà in via di estinzione (la comunità di pescatori del Furadouro), ora tutto ciò si rapprende nella presentazione frontale dei documenti della regione da cui Rocha proviene, nelle fotografie sbiadite e nelle iscrizioni d'epoca di cui il montaggio fa ampio uso. Si tratta, a ben vedere, della medesima metamorfosi inaugurata da Vanitas (2004): quella per cui l'eccezionale perizia coreografica dei sinuosi movimenti di macchina di cui Rocha è maestro, nei quali Renoir e Mizoguchi si mescolano per esporre il legame fisico delle storie ai loro luoghi e per rivelare la contiguità di questi con i loro fantasmi, si rapprende in un'allucinata, fissa ma vibrante monumentalità.
Il labirinto, del resto, non è più nello spazio, ma nel tempo. Il peregrinare avanti e indietro tra le diverse stazioni della filmografia rochiana parrebbe avere un centro di attrazione, il momento di manifestazione forse maggiore di quello che rimane il dato fondamentale del cinema di Rocha, il bisogno di partire e di farsi assorbire da altri luoghi e altre culture, abbinati al contromovimento di un legame fortissimo e ineliminabile con le proprie radici: il dittico A ilha dos amores (1978-1982) e A ilha de Moraes (1984), decomposizione del colonialismo-che-fu come unico postcolonialismo degno di questo nome. In essi, una eruditissima e centrifuga immersione nell'universo di Wenceslau de Moraes, diplomatico lusitano in Giappone tra Otto- e Novecento ed esteta innamorato di quelle isole e delle forme della loro cultura, si abbina all'ammissione diretta, in prima persona, della strana forma di identificazione che il cosmopolita esule Paulo Rocha (egli stesso trasferitosi per anni nell'ex impero) sentì per quell'intellettuale – un'identificazione ambigua che continua anche in questa nuova e terminale opera se, come ebbe a dire Augusto M. Seabra con felice sintesi, de Moraes “risulta colui che ha potuto sognare la morte, persino la propria stessa morte”.
È probabilmente al Giappone che bisogna guardare (anche se lasciamo a un auspicabile studio ulteriore un'analisi più strutturata della questione) per penetrare nei segreti compositivi dello straordinario montaggio di materiali diversi che il film attua. Trent'anni fa, l'insigne critico Tadao Sato parlò di A ilha dos amores richiamandosi al concetto nipponico di toriawase (“miscela”): il suo montaggio, risolutamente anti-Ejzenstejniano, si fonderebbe non sul conflitto, ma precisamente sull'assenza di esso; non direttamente sull'armonia compositiva, bensì sull'assenza del suo contrario, sul non-conflitto. Il rincorrersi di scene di pellicole separate da anni o decenni di distanza, in Se eu fosse ladrão… roubava, procede meno per associazione frontalmente analogica che per un gioco di giustapposizioni più segreto e sapientemente modernista: i corpi ritornanti degli attori-feticcio, luoghi topici da cui ci si accorge di non potersi separare, la peste fisica che si richiama a quella morale di A raiz do coraçao (2000), il riannodarsi multiforme di Eros e Thanatos…
Di quest'ultimo aspetto, in particolare, non ci si libera: ci assedia da oltre i nostri stessi limiti. Se eu fosse ladrão… roubava consiste appunto nel sempiterno riannodarsi di amore e morte, nel continuo ricominciare, da qualunque punto del tempo, di storie che, come assi portanti, non possono che avere sempre e comunque quei due. Per questo l'ultima parola nell'ultima scena ce l'ha il fantasma del padre di Vitalino, che raccomanda al figlio di non aver paura della morte: ovunque ci piazziamo dentro quei cerchi concentrici che sono l'Io, il cinema, il racconto, la Storia (e così via), sempre lo stesso riannodarsi troveremo, all'infinito. Perché preoccuparsi della morte quando tutt'intorno ci sono fantasmi uguali a noi, alle prese con le stesse cose? Inevitabile è dunque spaccarsi tra Vitalino, che parte in Brasile per fare fortuna e reagire all'onnipresenza della morte nella sua terra, e la sorella, che invece vi si adagia e resta a casa a filare. È in quella stanza, con lei e le altre donne, che il film sceglie di sprofondare anziché seguire lo sbarco di Vitalino nella terra promessa per imprese già segnate in anticipo dallo spettro della fine. In quella stanza, a tessersi sono, oltre ai fili, le storie che si raccontano le filatrici: il mondo di fatto finisce lì, nel richiamarsi orizzontale, e immobile, di tutti i possibili percorsi narrativi.
Liberissimi, i carrieristi ultimi arrivati (anche quando arrivano primi), di chiamare il proprio film “storia della mia morte”. Rocha, esattamente all'opposto, ci regala un testamento che potrebbe benissimo intitolarsi “storia della vita non mia”: di tutti e di nessuno, la vita può essere solo rubata, e mai fatta oggetto di proprietà.