Nel 1578, Re Sebastiano I fa perdere le sue tracce nella battaglia di Alcazarquivir, in Marocco, inaugurando la lunga decadenza del sogno imperiale portoghese. Per secoli, da allora, lo si riterrà destinato a ricomparire, un futuro mattino nebbioso, per realizzare il Quinto Impero, quello dell'avvenuta unificazione di tutti i popoli sotto l'egida del Portogallo.
Un bel po' di cinema portoghese, con De Oliveira in testa, ci ha mostrato negli ultimi decenni l'assoluta attualità di questo mito messianico. Mai come in tempi di globalizzazione è in questione l'imperialismo, e l'unica prospettiva che possa fargli fronte è quella, solo apparentemente assimilabile ma in realtà opposta, dell'universalismo. Il sebastianismo ha in sé un potenziale radicalmente anti-imperialista proprio in quanto post-imperialista: l'universalità che finalmente abbraccia tutto il globo è inseparabile dal ridursi in cenere dell'impero. Chi si è confrontato con questo mito messianico, da Padre Antonio Vieira (quello del Palavra e utopia oliveriano) a Pessoa e oltre, lo ha fatto appunto adoperandosi nella difficile ma cruciale distinzione tra il carattere spirituale dell'universalismo e quello materiale dell'impero, già realizzato da altre potenze (anglosassoni) e dunque già alle nostre spalle. L'impero insomma deve essere redento dalle sue vane illusioni di potere: la prospettiva universalista consiste in questa redenzione.
Miguel Gomes, con Aquele Querido Mês de Agosto (2008) e Tabu (2012), ha già dimostrato di saper leggere benissimo la tradizione cinematografica della sua nazione, nonché (diciamocelo) capitalizzarla con una certa scaltrezza. Era inevitabile che prima o poi si confrontasse con il sebastianismo. È del 1974, l'anno della rivoluzione dei garofani e conseguente fine dell'anacronistica conservazione delle vestigia coloniali da parte del regime di Salazar, che risale la prima delle quattro lettere immaginarie che compongono Redemption. A vergarla, è un Pedro Passos Coelho (attuale primo ministro portoghese) decenne, da un avamposto africano in procinto di essere ceduto. Le sue sono le parole di un bambino che ha poco chiara la distinzione tra colonizzati e coloni; nella sua mente, gli uni si mescolano agli altri cosí come Africa e Portogallo sfumano l'una nell'altro nel montaggio di immagini di repertorio che ne accompagnano la lettura. Ció che al piccolo Pedro immaginario è già chiaro, semmai, è il sentore della fine.
Iniziato con la fine dell'impero passato, il corto di Gomes si chiude accennando a quella che per molti è una delle forme maggiori di imperialismo odierno: la leadership continentale economico-finanziaria da parte della Germania. La quarta lettera è infatti quella di una neo-sposa, Angela Merkel, distratta dalla sua vocazione scientifica dal Parsifal di Wagner, i cui toni imperialisti (parole sue) male sembrano adattarsi col sole dell'avvenire da far sorgere nella sua Germania Est. È perciò inequivocabilmente l'imperialismo ad incorniciare questi 26 straordinari minuti. La fine di un impero passato si ricollega, all'altro capo, a un altro presente: la “redenzione” del titolo è infatti anche quella della fallace separazione tra il passato e il presente.
Filmini amatoriali di matrimoni nella DDR, accordi wagneriani, pellicole scientifiche, formule matematiche. Tutto si sovrimprime, in questo quarto segmento, in gloriosa assenza di articolazione. Il legame “molle” tra questi materiali è della stessa foggia di quello che il montaggio studia tra le inquadrature nel corso di tutto il film: abdicando al potere di “fare senso”, le immagini seguono un filo troppo tenue per essere concettualizzato (e quel po' di concettualizzabile viene esaurito dalle voci over che leggono le lettere), e si affidano invece alla continua, sempre rinnovata riproposizione dell'origine, del riattivarsi del passato nell'immediatezza del presente. È la magia, semplice eppure del tutto coincidente con l'essenza del cinema, di ogni film di found footage; Gomes lo dichiara con la sua solita lucidità programmatica piazzando in apertura un bambino che sgrana gli occhioni davanti a un parto animale.
Ripresentando immagini del passato come nulla più che presente in atto, il found footage materializza quella che potremmo chiamare “potenzialità allo stato puro”. Redimere il potere, significa infatti scartarlo in favore della potenzialità. Il secondo segmento parla proprio di questo: un Silvio Berlusconi all'inizio della fine (ovvero, nel 2011) ricorda il momento in cui tutto sembrava possibile, quel dopoguerra in cui l'anitifascismo bene o male connaturato al proprio confuso e immaturo libertarismo non veniva ancora ostacolato da se stesso, e in cui l'irraggiungibile donna della sua vita torreggiava sopra di lui in tutto il suo splendore, prima che cercasse invano di dimenticarla con una valanga di partner femminili più o meno occasionali. Era il momento di quella potenzialità materializzata a identico titolo tanto dalle anonime immagini documentarie di Piazzale Loreto o delle prime fabbriche o delle metamorfosi urbane del boom economico, quanto da quelle (debitamente mescolate dal montaggio) di Miracolo a Milano o altri film di finzione (fittizie sono del resto le lettere lette lungo Redemption, a contatto con materiale visivo più canonicamente documentario).
Ma il found footage ha anche un'altra qualità: strappa le immagini all'uso per cui erano state originariamente concepite, facendole diventare una pura medialità, un mezzo privo di fini. In questo senso, è la linea tra privato e pubblico che tende a sfumarsi, quella linea che il potere invece tende a tracciare con nettezza. C'è infatti questo, al centro del terzo segmento: una lettera in cui Nicolas Sarkozy in procinto di lasciare l'Eliseo si rammarica in anticipo del supporto paterno che non riuscirà a dare alla figlia. Sullo schermo, un padre che gioca sulla neve insieme ai figli, tracce di un vecchio filmino familiare di cui il montaggio conserva la strana temporalità orizzontale, amorfa, in cui l'amore tra le persone sullo schermo è sufficiente a preservare il susseguirsi degli istanti dalla vanagloria di far “succedere qualcosa”.
“Nebbia sei, Portogallo, ora. / È l'ora!”. Cosí Pessoa, alle prese col mito di Sebastiano. Il Portogallo è nebbia perché inconsistente e priva di limiti: è dappertutto. Redemption parte dall'agonia portoghese, per ricordarci che essa è in realtà di tutti: è in Italia, in Francia, in Germania… Ad essere dappertutto universale, è la preponderanza del negativo, dell'inespresso, dell'immemoriale. L'universalità, imperialismo rovesciato, è già qui, in atto, e consiste nel fatto che tutte le forme di potere esistenti condividono una medesima impotenza. Il rovescio di questa impotenza, è la potenzialità pura del presente, “è l'ora!”. Gomes aderisce da presso a questo “ora”, maneggiando con estrema cura i suoi materiali d'archivio, concedendogli ogni volta lo spazio sufficiente a che baleni “qualcosa” prima che esso raggiunga una qualche identificabilità (anche se, a onor del vero, rischia grosso puntando forse troppo sull'umorismo, tra i pregi maggiori del suo cinema, ma anche limite quando sfiora una certa riconoscibilità ad effetto). Il brulicare, la polvere di immagini che ne risulta, è la nebbia di cui parla il mito di Sebastiano. Perché, seguendo Pessoa, esso è già qui, è già vero, a condizione che ci identifichiamo non con il potere, con il Re morto – ma con la nebbia che lo accoglie.