Questo lavoro è fortemente connotato dal punto di vista geografico: è un film sull'Italia del nord, sulla provincia veneta, localizzazione che lo spettatore può effettuare fin dalle primissime scene del film, dove i canti in dialetto accompagnano le immagini della campagna padana.
A.R.: Ho un po’ eletto il Veneto a teatro delle mie opere, anche perché sono di qui. È quindi stato abbastanza automatico pensare che il mio primo film di finzione fosse ambientato in questa parte di Italia, anche perché la storia, così come era stata concepita da me e da Caterina Serra, parte da un lavoro di ascolto e ricerca di svariate piccole storie di personaggi reali dislocati sul territorio. Abbiamo poi convogliato questo materiale in una scrittura che ha l’impostazione che segue la parabola della tragedia classica, che poi è il tipo di taglio che abbiamo voluto dare al film. Per me, cinematograficamente, è stato molto interessante sottolineare l’aspetto della balcanicità del Nord Est. Qui c’è una certa estremizzazione dei sentimenti e delle emozioni. Di solito si pensa al calore del Sud, ma anche qui al Nord non siamo esenti da una forte carica di emotività. Cito sempre come esempio il modo in cui in questa regione i piccoli medi industriali in crisi abbiano tragicamente risposto ai tracolli delle loro imprese: non, come si penserebbe, con iniziative di ordine tecnico, ma con il suicidio. È questione di cronaca degli ultimi due anni, e tutto ciò mostra una passionalità inaspettata di questa regione d’Italia, anche dal punto di vista dei comportamenti.
Parliamo della struttura narrativa del film.
A.R.: Il film vuole essere una tragedia classica, quello che vorremmo far passare sono i temi universali: amori difficili, relazioni complicate, rapporti amicali difficoltosi, esplosioni delle famiglie e mercificazione dei corpi dei giovani. Questi sono elementi che si possono trovare nella provincia veneta come in qualsiasi altro posto. Abbiamo poi raccolto delle storie sul territorio che ci hanno ispirato e ci hanno convinto a inserire parte di questi racconti nella struttura portante della tragedia. La nostra idea era che lo sviluppo drammaturgico toccasse il melodramma, ma che a scatenarlo fosse proprio l’immobilismo. La dinamica dei guai che accadono è data dall’immobilismo, dalla rabbia, dalla paura, dall’accecamento. Non sono iniziative. Le uniche che tentano di modificare concretamente la situazione iniziale sono le due ragazze, ma così facendo alla fine combinano un bel guaio, gli scappa di mano tutto. Anche l’iniziativa finale del padre fa sì che il risultato di questo comportarsi raffazzonato sia un tragico errore, eventualmente.
Se la sceneggiatura del film parte da una raccolta di storie in cui siete incappati, viene da pensare che questo film sia lo sbocco naturale del tuo lavoro documentario.
A.R.: Dalla concezione della storia, alla direzione degli attori fino alla scrittura e al montaggio ho usato quelli che definirei gli strumenti del documentario. Non ho inventato nulla, in particolare per la direzione degli attori ho deciso di adottare il metodo di molti registi americani: ho creato le condizioni dimenticando la storia, le battute, ho cercato di creare appartenenza, identità, profondità antropologica e psicologica. Nella ricerca nella fase di scrittura, nello scouting che ho condotto io stesso, nel casting, ho operato da documentarista.
Inoltre tu sei anche operatore alla macchina, immagino.
A.R.: Sì, ho dunque portato tutto il mio stile, che è molto istintivo, ho creato una troupe giovane, fortemente basata su persone che avessero una formazione o un’esperienza legata al documentario. Questo mi ha permesso di organizzare il tempo delle riprese quasi come si organizza un documentario, quindi ogni giorno non si sapeva bene cosa si sarebbe fatto. E questo se l’avessi fatto con dei professionisti del cinema di finzione, avrebbe creato non pochi problemi. Invece, avendo al mio fianco persone che si sono formate secondo quella che era la mia esperienza, tutto quello che era cambiamento di programma, attesa, stasi, ozio funzionale, era perfettamente compreso.
Lasciare spazio alle cose che possono accadere…
A.R.: Anche il modo di lavorare alle scene con gli attori, che è stato molto eterogeneo perché ho lavorato sull’improvvisazione pura in location, un’improvvisazione che ha creato testi che poi sono diventati dialoghi per certe scene. Nel quadro della tragedia ho dato al territorio il ruolo del coro, e quindi l’ho trattato in maniera molto precisa, scegliendo situazioni reali nelle quali ho calato le scene previste con le dinamiche e i movimenti previsti dalla sceneggiatura. Lavorare in questo modo è stato possibile perché mi sono circondato da persone che si sanno muovere in questo contesto.
Caterina Serra, anche per quel che riguarda la tua attività di scrittrice la modalità del documentario si accorda al tuo modo di lavorare?
C.S.: Sì, per quanto riguarda la mia scrittura questa non nasce mai da un’invenzione. Quando scrivo un libro, un racconto o per il cinema, lavoro partendo da storie vere, mi piace prendere lo spunto da una verità, da una realtà. Per me dunque lavorare con Alessandro è stato decisamente congeniale. Inventiamo, certo, ma nel modo in cui ci si può immaginare qualcosa che sia sempre a contatto con la realtà.
Come avete fatto, in pratica, per accordare le vostre modalità lavorative?
A. R.: Abbiamo concepito la storia iniziale, abbiamo stabilito a grandi linee come la storia dovesse svolgersi. Poi si è unito a noi uno sceneggiatore, Maurizio Braucci, che ha lavorato quasi sul campo durante le riprese. Anche lui, nonostante avesse molta più esperienza come sceneggiatore tout court, ha un modo di lavorare che ben si accorda al nostro, partendo cioè dall’inchiesta.
C. S.: altrimenti sarebbe stato impossibile lavorare a una sceneggiatura chiusa, scritta come se fosse un libro e poi proporla ad Alessandro e al suo cinema di apertura alla realtà, dove crei questi quadri in cui inserisci scene e dinamiche reali. C’è un salto fra realtà e finzione che fa sì che tu, in quanto sceneggiatore, non trovi le battute, non ritrovi la tua scrittura. Se non cambi prospettiva questo modo di lavorare per uno sceneggiatore potrebbe risultare frustrante, ma allo stesso tempo può diventare un’esperienza molto arricchente, e poi alla fine si arriva dove si era previsto di arrivare.
A.R.: E poi è impressionante notare come la realtà spesso si accordi al progetto iniziale. Per esempio, nella sceneggiatura avevamo deciso che quando i due personaggi fanno questa specie di viaggio volto alla liberazione di un giovane, questo doveva essere uno che sapeva cantare e che alla fine della scena dovesse cantare qualcosa in albanese. Incredibilmente facendo del casting ho trovato un ragazzo che canta rapper. C’è quindi un buon rispetto della sceneggiatura. Certo la formalizzazione ha preso una piega che ha sorpreso anche me: sono il primo che si deve sorprendere di ciò che accade.
Questo modo di lavorare prevedeva la presenza di Caterina sul luogo delle riprese?
C.S.: abbiamo girato in parte con la mia presenza sul set, in parte a distanza, perché io no abito nemmeno in Italia, ma fino al montaggio c’è stato un lungo lavoro di cura nei confronti di quello che accadeva, di quello che poteva accadere. C’erano scene da rivedere, reinventare, ricostruire rispetto a quello che Alessandro vedeva. Questo è avvenuto anche nel momento del montaggio, con l’idea che una storia potesse restare aperta fino all’ultimo, pur rispettando l’idea originale, ma attraversando una realtà che potesse un po’ sorprenderci. Per me è stato interessante comunque lavorarci, anche se non è una scrittura che la chiudi una volta per tutte e puoi dirti: ho finito. Si continua a scrivere, fino alla fine. È stata un’esperienza interessante e forte. Ovviamente l’ultima parola è del regista che decide quando la storia finisce, dove si va e qual è la forma che prende. La sceneggiatura in ogni caso va seguita per tutto il corso del film, in modo da controllarne sempre un po’ il senso e la direzione.
Per quel che concerne gli attori, invece, come avete lavorato?
A.R.: Una parte fondamentale del lavoro è stata quella di far calzare quello che era stato previsto con ciò che ogni singolo attore portava. Un lavoro enorme
C.S.: C’è stato un lavoro di improvvisazione molto interessante. Molti degli attori conoscono il dialetto e hanno dovuto lavorare sulla loro realtà famigliare, su una serie di trascorsi in cui spesso il dialetto e l’origine sono stato quasi cancellati.
A.R.: Nel caso di Roberta Da Soller per esempio, nel suo lavoro di attore aveva cercato di estirpare accenti e lingua. Lei viene da un paese della provincia di Treviso e più di tutti è cresciuta parlando dialetto e rifiutandolo poi una volta cresciuta. È arrivata a fare film e gli abbiamo tirato fuori il dialetto con la pinza.
C.S.: E quindi con molto dolore. Credo che questo si veda e si senta, perché l’emancipazione dalla lingua con la quale si è cresciuti è sofferta, e il fatto di dover poi tornare indietro e riappropriarsene è un processo doloroso.
A.R.: Poi bisogna dire che quella del dialetto è stata una scelta registica, ma anche una comodità, perché una profondità bisognava cercarla, la psicologia paga poco. Con il dialetto si arriva a lavorare sull’intimo, nell’attore parte un qualcosa che lo prescinde, che va nel profondo e che lo slega da quel che è successo nella vita adulta, trasportandolo da un'altra parte. Tralasciando l’effetto del suono che un dialetto può dare, si creano delle dinamiche, dicendosi cose in dialetto o in italiano, completamente diverse.
C.S.: Alessandro, a un certo punto, è arrivato a dirigere il film in dialetto veneto e a me ha stupito come per molti di loro parlare in veneto in casa sia un’abitudine. Ancora per i giovani di oggi il dialetto rimane la lingua delle emozioni e degli affetti.
A.R.: È anche una questione di appartenenza, e non solo di un legame con il proprio passato. Per esempio nel caso di Maria Roveran, che viene da un paese dell’interland triestino. Con lei ho trovato dei punti contatto attraverso l’uso del dialetto ma soprattutto con il sentimento di un’appartenenza condivisa. Nonostante abbia la metà dei miei anni, è cresciuta in una situazione di vita di quartiere identica a quella in cui sono cresciuto io. Io potevo fare le stesse battute, guardare alle cose che ti circondano e alle relazioni circostanti nel medesimo modo. Trovavo nel suo modo di fare la stessa ironia, lo stesso senso dell’umorismo e sarcasmo che classificherei come “veneto”. Avevamo alla base un territorio comune e questo faceva sì che le mie richieste trovassero comprensione.
Quanto tempo sono durate le riprese?
A.R.: Poco, abbiamo avuto una preparazione brevissima e un tempo di riprese un po’ più lungo perché non essendosi preparati nel tempo canonico abbiamo dovuto ritagliare nei tempi di ripresa delle ore e dei giorni che servivano allo scouting e all’organizzazione più in generale. Inoltre avevamo bisogno di un tempo ulteriore da dedicare al lavoro di ricerca per lavorare sulle scene di realtà e questo ha fatto sì che la lavorazione sia stata un po’ più lunga. Diciamo che abbiamo vissuto tutta l’estate sul set e ci siamo presi la parabola estiva come parabola del film. C’è stata una grande energia nelle riprese, complice il fatto che molti degli attori erano esordienti che hanno lavorato sempre senza conoscere la storia. Tenendoli all’oscuro siamo riusciti a lavorare con cose molto materiche, che avevano a che fare con quello che accadeva nella scena o nella dinamica del momento. Inoltre abbiamo lavorato molto anche sul’idea delle location: abbiamo fatto vivere le case, abitandole e facendo tutte le cose che fanno chi quella casa la vive veramente. Si sono quindi create situazioni decisamente imprevedibili che hanno a che fare con il tentativo di spettacolarizzare una quotidianità che può apparire anonima. Gli attori si sono presi un bel rischio, si sono fidati. Ci sono state anche delle difficoltà durante la realizzazione, ognuno giovani ha avuto un momento defaillance ma totalmente malriposto: spesso loro sentivano di aver fatto male una scena che era sempre quella che avevano fatto meglio.
C.S.: forse questa energia di cui parla Alessandro è data anche dal fatto che nel documentario c’è un umanità è ben presente, cosa che è molto meno accentuata nella fiction. Il documentario parte da un’ipotesi di relazione, e senza quella, senza la fiducia reciproca non fai documentario. Se non ti affidi a nessuno e a niente, la tua storia non esce e questo è un po’ la magia di questo film.
Com’è avvenuta la scelta degli attori durante il casting?
A.R.: Le scelte del casting sono state dettate da motivi diversi per ognuno dei personaggi. Il padre di Luisa, per esempio, l’ho scelto perché sapevo che lui poteva fare una maschera, poteva rappresentare quel tipo di veneto che avevo in mente. Abbiamo lavorato sulla malattia, sul fatto che avrebbe dovuto essere un uomo di base depresso. Diego, il “cattivo della storia”, è ancora un altro caso, perché è una persona che conosco da moltissimo tempo ed è un uomo candidissimo che però, da quando l’ho visto la prima volta, mi ha lasciato un po’ di inquietudine addosso. Lucia, la madre, che ho conosciuto durante un seminario di recitazione, l’ho scelta perché era un personaggio che non doveva essere per forza veneta, ma ho sondato in sede di casting come fosse la relazione con la figlia. Mi è parso che tra i colori e le energie il rapporto funzionasse. Nicoletta Maragno l’ho scelta per due motivi: rappresentava un tipo di carattere adatto per essere quel genere di sorella per quel genere di cattivo, ma anche perché lei mi ha aiutato molto nell’actor coaching dei giovani. Insieme abbiamo costruito per Vadimir, Maria e lucia, un territorio su cui recitare che fosse formato da condizioni che andavano al di là delle parole che avrebbero dovuto dire. Vladimir l’ho scelto perché cercavo questa faccia e quest’energia un po’ saggia e onesta. Matteo che interpreta l’amico Anes, è un personaggio che ha sostituito un gruppo di possibili personaggi, gli amici. Mi è parso che lui potesse portare questo personaggio guascone, che un po’ si contrapponeva alla serietà di Vladimir e che voleva impersonare l’altra immigrazione, il tipico albanese scanzonato e un po’ cattivo ragazzo.
Questo è un festival dove le donne hanno trovato grande spazio. Nel vostro film è presente una relazione fra la madre e figlia che varca un po’ lo stereotipo classico dell’adolescenza: non vi è mai antagonismo fra le due e non si scivola mai nelle accuse di seduttività della donna più anziana verso una figlia scanzonata che “va sempre in giro in mutande”.
C.S.: È una domanda che mi fa piacere, perché ho lavorato moltissimo alla relazione fra madre e figlia nella sceneggiatura originale. Quello che volevo rendere è proprio questo: l’emancipazione della giovane donna rispetto a una figura materna un po’ classica, chiusa dentro un domestico, deve venire fuori in maniera non conflittuale, volevo che si avesse a che fare non con una reazione ma con una relazione. Volevo anche descrivere un materno che c’è ma che non è invadente, che suggerisce come comportarsi senza imporsi e che propone un modello al quale la giovane si oppone senza però desiderare di distruggere. La giovane donna rispetta la madre e alla fine chiede il suo aiuto. Questo si vede in una delle scene finali, dove vediamo la giovane seduta sulle ginocchia della madre che l’abbraccia e la consola.