“L’atto di filmare per me è molto doloroso, come lo stesso gesto di tirare fuori la cinepresa. Prima di farlo è necessario per me aver colmato il processo di avvicinamento, che può durare anche mesi, con i personaggi e le loro storie. Questo investimento sul tempo mi fa capire qual è la giusta distanza tra il soggetto e la cinepresa, in quale angolo posizionarla, come comporre l’inquadratura. Quando finalmente capisco che è il momento di girare, tutti i dubbi si sciolgono. In quel preciso istante ci siamo solo io e il personaggio, e la stessa macchina da presa sembra sparire tra le mie mani.Girare non è semplicemente dar vita a un’azione, ma è una compressione di elementi avvenuti nel corso del tempo. La domanda da porsi non riguarda la ricerca di uno stile a priori, ma il tempo che si spende con i personaggi fino a quando non si trova la giusta distanza e prospettiva nella storia. Deve emergere qualcosa di più complesso della semplice osservazione o della messa in scena.”
(Gianfranco Rosi)
Dopo una breve serie di buoni film presentati a Venezia in sezioni collaterali, Gianfranco Rosi approda finalmente alla selezione ufficiale della 70 edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, e vince il Leone d'Oro con Sacro GRA, il film con cui dopo l'India (Boatman), il deserto californiano (Below Sea Level) e il Centroamerica del narcotraffico (El Sicario) giunge a Roma, ed esattamente sul Grande Raccordo Anulare: 68 chilometri di autostrada urbana, un enorme anello di asfalto che circonda uno dei centri urbani più grandi d'Europa, percorso ogni giorno da decine di migliaia di automobili dei 7 milioni di abitanti di Roma che, tra le mani di Rosi, diventa un inesauribile bacino di personaggi e storie, un patrimonio sociologico e narrativo inestimabile.
La genesi del film affonda le sue radici nell'incontro tra Gianfranco Rosi e Niccolò Bassetti. Questi, di professione paesaggista e urbanista, agli inizi del 2000 si trasferisce a Roma e, immediatamente attratto dal GRA, decide di percorrerlo a piedi, impiegando venti giorni, con lo scopo di raccogliere testimonianze e storie di vita ai margini del (dei) luogo/non-luogo tra i più liminali di Roma. Da questa esplorazione nasce un progetto interdisciplinare articolato e complesso, del quale il film di Rosi non è che l'ultimo atto. Inizialmente perso nella dispersiva vastità della missione di raccontare il GRA fuori da un'automobile, Rosi fa sì che il progetto si trasformi man mano forma in un documentario popolato di personaggi animati da una potenza performativa notevole (e sapientemente diretta). Come già nei suoi precedenti film, il regista si guarda bene dall'instaurare ingenuamente un regime linguistico da “cinema diretto” e, invece, architetta situazioni perfette per l'auto-rappresentazione, l'esaltazione performativa dei suoi soggetti.
Ciò che da subito emerge è la grande capacità di Rosi di costruire il processo di contatto con i suoi soggetti, di stabilire con essi una “giusta distanza”. Lentamente, entriamo nel mondo di alcuni personaggi, quelli con i quali Rosi riesce evidentemente a costruire il rapporto più stretto, come accade con il barelliere Robert. È Rosi stesso a ribadire il metodo (o meglio, il non-metodo) che adotta per penetrare così intimamente nelle situazioni con cui viene in contatto: lasciare che il tempo lavori per lui e, quando finalmente le cose sono mature per usare la macchina, essa sembra sparire e le inquadrature prendono forma naturalmente.
In modo altrettanto evidente emerge la sapienza di Rosi nel dirigere i suoi soggetti, nel creare cioè le situazioni adatte affinché essi producano la materia documentaria che Rosi vuole che producano. Un cortocircuito estetico che dà prova della maturità estetica del regista, che dimostra così, come già accadde in modo netto in El Sicario, la propria consapevolezza rispetto a temi come la “spontaneità” dei soggetti o il carattere “artificioso” della messa in scena: lungi dal credere che il documentario sia quella forma di cinema in cui il soggetto si mostra naturalmente per quel che è, il modo che ha Rosi di relazionarsi ai suoi soggetti sembra, invece, mirato a far esplodere il loro potenziale performativo, a far decantare il loro istrionismo, a innescare un meccanismo di auto-rappresentazione che faccia di questi soggetti che recitano nel ruolo di sé stessi dei personaggi animati da un'identità terza, allo stesso tempo figlia del loro essere reale e della loro funzione in un sistema rappresentativo. Grazie alla sua abilità registica nell'allestire questo “parco giochi”, i soggetti possono esprimersi al massimo del loro potenziale senza “farsi male”, senza cioè scadere in un registro rappresentativo che rischierebbe di trascendere il loro desiderio di auto-rappresentazione e di far venire meno il “patto d'onore” di quell'accordo implicito (mirabilmente descritto da Jean-Louis Comolli) che governa il rapporto tra chi filma e chi viene filmato. Inoltre, la sua assenza totale dalla diegesi rende Sacro GRA un po' più vicino a un film di finzione à la Rossellini che non a un documentario osservativo in stile cinema diretto à la Wiseman.
I trucchi che Rosi adotta per ottenere questi risultati non sono poi diversi dai trucchi ordinari del cinema di finzione. Il più ricorrente, evidentemente, è la scelta di far agire i personaggi in coppia. Lavorando sui duetti, e quindi sul basilare principio scenico secondo cui far venire fuori la recitazione da una coppia di attori è più facile che non farla venire fuori in un monologo, Rosi estrae dai personaggi una natura ricca, divertente, significativa, giungendo nel finale a momenti di grande potenza reale e visiva. Il registro performativo di presenza dei soggetti si tiene lontano dall'intervista, che pure quando è usata nel cinema finisce per essere una declinazione del registro classico dell'intervista che ne erode i presupposti (come nel caso di El Sicario, che a tutti gli effetti è un “film-intervista-non intervista”). Non interessa sapere se questa natura sia “autentica” e, al limite, si può tacciare Sacro GRA di perdersi tra i tanti personaggi e di non riuscire ad andare in profondità di ciascuno, lasciandoli spesso senza una storia (cosa che accade pressoché a tutti tranne che a Roberto il barelliere, l'unico verso il quale si asseconda un istinto narrativo).
Detto questo, dal punto di vista visivo Rosi adotta delle scelte linguistiche di grande rigore. La camera è sempre fissa ed è una scelta coerente con l'impianto estetico complessivo, basato su un ordine di fondo, su un controllo della messa in scena, sottratta alla permeabilità tradizionalmente associata all'estetica documentaria: permeabilità del campo rispetto al fuori campo, della diegesi rispetto all'off-air, che si realizza, tra le altre cose, con un ricorso stilistico alla camera a mano in stile cinema diretto. Una scelta che fa di Sacro GRA un documentario più specificamente “di creazione”, nel quale il discorso sulla materia reale passa attraverso la forza e soprattutto l'evidenza della mediazione creativa e autoriale. Il livello linguistico incarna pienamente questo ideale e Rosi lo issa, con grande rigore, come il suo biglietto da visita di documentarista profondamente “moderno” nel senso più baziniano del termine.
In un'edizione della mostra caratterizzata dalla presenza di tanto documentario di creazione, moderno, riflessivo e sperimentale (Gaglianone, Morris, Wiseman, Wang Bing), il lavoro di Rosi si staglia per la sua potenza e per la forza della sua istanza teorica rispetto a un discorso sull'estetica documentaria che è aperto, anzi, spalancato da anni. Un discorso al quale Rosi, con Sacro GRA, aggiunge un importante tassello e un puntello per continuare a scalare l'irta montagna del documentario, alla ricerca di una comprensione profonda del suo statuto ontologico di “cinema del reale”.