Quando sentiamo il termine istituzione è diventato quasi un riflesso condizionato collegarlo a una forma di assoggettamento, di disciplina, a un dispositivo autoritario di imbrigliamento e controllo della soggettività. Non sappiamo se l’equivoco derivi da una semplificata lettura di Foucault, ma sembra che oramai ogni discorso sull’istituzione, soprattutto in un certo “senso comune critico”, non possa che essere legato a un atto di denuncia, a una rappresentazione di quanto sia violenta e de-umanizzante. In realtà Foucault stesso ebbe una posizione assai complessa e nient’affatto moralistica riguardo all’analisi del funzionamento delle istituzioni. In particolare – fedele più nei fatti che nelle parole al suo periodo strutturalista degli anni Sessanta – ebbe sempre ben chiaro che nei rapporti di potere, la relazione tra gli elementi precede gli elementi stessi. Che cosa vuol dire? Vuol dire pensare al potere ribaltandone i termini: non vengono prima i soggetti che poi successivamente si relazionano secondo modalità asimmetriche o gerarchiche; sono le relazioni di potere ad essere primarie, e sono esse a produrre i soggetti. Un soggetto è infatti sempre il risultato di un assoggettamento.
La formula strutturalista che riassume quest’idea recita più o meno così: i rapporti precedono sempre gli elementi. Perché questa premessa è importante per capire il cinema di Wiseman? Perché normalmente il cinema tende invece a partire dal primato degli elementi. Tende, per così dire, a sostenere l’illusione che gli elementi costitutivi di un’immagine esistano di per sé, causa sui e che al cinema basti registrare la loro presenza. È più facile infatti partire dalle immagini come unità semplici minime, e metterle poi in relazione tra loro. Ben più complesso è far vedere che quello che appare sullo schermo, che spesso è frainteso per essere un oggetto realmente esistente (in particolare nel documentario), sia in realtà un risultato mediato già enormemente complesso di determinazioni non immediatamente visibili. Wiseman sviluppa in modo consapevole questo assunto: capire il funzionamento di un’istituzione non vuol dire guardare le persone o le storie che ne sono coinvolte (come fa ad esempio Wang Bing). Vuol dire guardare i rapporti invisibili che la determinano. Guardare al cinema un’istituzione vuol dire quindi creare un’immagine (dunque rappresentare nel visibile) di queste relazioni che invece non sono immediatamente visibili. Wiseman fa un cinema di invenzione se non proprio di finzione: nel senso che riesce a traghettare nel visibile ciò che nel mondo reale, visibile non è. In termini lacaniani potremmo dire che è un cinema della trama simbolica del mondo, che decostruisce l’inganno immaginario della realtà. Un cinema dunque che è contro la realtà, con buona pace dei documentaristi.
Ma com’è che questo viene fatto in concreto? At Berkeley è un racconto, lungo più di quattro ore, di una delle università più importanti del pianeta. Raccontare il funzionamento di un’istituzione così complessa, se lo vogliamo fare con onestà e non come fa il senso comune partendo dall’autosufficienza degli elementi, non vuol dire quindi solo andare a vedere i laboratori di scienze dove hanno lavorato i premi nobel, ma anche vedere tutto quello che è in grado di rendere possibili quei laboratori, ma che magari non si vede. Un’università è una quantità enorme di lavoro amministrativo, di riunioni organizzative, di problemi finanziari concreti e persino di lavoro manuale. Perché qualcuno dovrà pur tenerli quei bei prati all’inglese, no? Wiseman ci fa vedere come dietro alla bellezza di un seminario di fisica o filosofia, dietro alla passione di una discussione in una lezione di sociologia, dietro a un laboratorio di fisica ci siano decine di lavoratori invisibili che sono tanto necessari quanto il grande luminare della materia. Perché At Berkeley è anche uno dei migliori film marxisti degli ultimi anni nella sua capacità di far vedere il ruolo centrale del lavoro nel funzionamento di un’istituzione così importante. A fronte di un’ideologia, in America così come in Italia, che riduce i lavoratori pubblici a fannulloni o privilegiati, Wiseman ci restituisce la complessità, la ricchezza e anche la passione che stanno dietro al lavoro di un’università. A tutti i livelli.
Questa capacità di far vedere il lavoro invisibile che è condizione di possibilità di un’università si scontra però in questo film con un ostacolo politico. Berkeley è infatti un’università unica nel panorama americano: è sia un’istituzione pubblica sia uno dei migliori campus del mondo come qualità dell’insegnamento. Questo fatto rappresenta un’anomalia negli Stati Uniti dove la quasi totalità delle Università di alto livello sono finanziate da privati e hanno rette di accesso stratosferiche per gli studenti. L’unicità di Berkeley si vede non solo nella diversità del corpo studentesco (dove la provenienza da famiglie middle class è molto alta rispetto agli altri atenei, e dove afro-americani e messicani sono in percentuale di più delle media dei college americani) ma anche in criteri d’accesso tendenzialmente più egualitari. La crisi economica dunque è lo spettro che si aggira per tutta la durata del film, la vera minaccia contro la sopravvivenza di quest’istituzione. E raramente la si è vista così chiaramente come in questo film. Qui la vediamo colpire due volte: come calo del reddito delle famiglie (molti studenti ammettono apertamente l’impoverimento delle proprie famiglie) e come taglio ai finanziamenti pubblici all’istruzione. La costante lotta che l’amministrazione dell’università porta avanti giorno per giorno per consentire a quest’università di sopravvivere è qualcosa di eroico. Wiseman è capace di farci vedere come una riunione amministrativa di un’università, con tutti i suoi tecnicismi ma anche con il tempo che è necessario per riuscire a comprenderli, sia al centro di una questione politica di primaria importanza.
È naturalmente quanto la posta politica in palio nella sopravvivenza di un’università pubblica sia alta, lo vediamo quando ci spostiamo in classe, dove la produzione dell’istituzione universitaria si sposta nel vivo. Wiseman filma tra le più belle scene di insegnamento universitario mai vista al cinema. Nella lunghissima sequenza d’apertura del film – una lezione di scienze sociali – un gruppo di studenti discute della disuguaglianza dell’accesso alla rette universitarie, Wiseman ci dà un esempio di come un pensiero non nasca nell’isolamento della propria elitaria separazione ma nella pratica di una negoziazione logica e razionale di diversi punti di vista particolari, che producono un effetto di verità. Come anche in un’altra sequenza bellissima dove vediamo uno studente di dottorato sperimentare il proprio progetto di tesi – delle protesi per la locomozione di persone non deambulanti – su una persona inferma.
Perché At Berkeley tutto sommato riesce anche a dirci questo: che l’università è proprio il contrario della “torre d’avorio” fuori dalla società che l’ideologia anti-intellettualistica dei nostri giorni vorrebbe farci credere che sia: è invece un luogo diversissimo, ricco, di enorme impatto sulla società e incredibilmente permeabile al mondo e alle sue differenze così come ai suoi conflitti. Per questo – ci dice Wiseman – l’attacco che subisce con i tagli da parte delle autorità dello stato della California è assolutamente irricevibile. C’è solo da starlo ad ascoltare. Anche qui da noi in Italia.